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CAPITOLO 14

 

Si spiegano le difficoltà e le infermità che san Giuseppe soffrì negli ultimi anni della sua vita, e come lo serviva la Regina del cielo, sua sposa.

 

864. È comune inavvertenza di tutti noi, discepoli di Cristo nostro bene, chiamati alla luce ed alla professione della fede, cercarlo più come redentore delle colpe che come maestro delle afflizioni. Tutti vogliamo godere del frutto della riparazione, tutti bramiamo che egli ci apra le porte della grazia e della gloria, ma non ci curiamo di seguirlo nel cammino della croce per il quale egli entrò nella sua gloria e invitò noi ad imitarlo per raggiungere la nostra. Noi cattolici, per l'errore insano degli eretici, non ignoriamo questa verità; infatti, confessiamo che senza travaglio non vi è premio né corona e sappiamo che è bestemmia sacrilega valerci dei meriti di Cristo nostro Signore per peccare sfrenatamente e senza timore. Ma nella pratica delle opere corrispondenti alla fede alcuni di noi, figli della santa Chiesa, amano distinguersi poco da quelli che vivono nelle tenebre e schivano in tutti i modi le opere difficoltose e meritorie, perché ritengono che senza di esse possano seguire il loro Maestro e giungere ad essere partecipi della sua gloria.

865. Usciamo da questo inganno e cerchiamo di comprendere bene che la sofferenza non riguarda solo Cristo nostro Signore, ma interessa anche noi. Egli come redentore del mondo soffrì morte ed afflizioni, e come maestro ci insegnò ed invitò a portare la sua croce, comunicandola ai suoi amici in maniera che il più favorito avesse maggior parte nel patire. E così nessuno può entrare nel cielo - se lo merita - senza che lo guadagni con le proprie azioni. E incominciando dalla sua santissima Madre, dagli apostoli, dai martiri, dai confessori e dalle vergini, tutti camminarono per la via della sofferenza, e colui che si rese più disponibile a patire ha conseguito ora il premio e la corona. Noi sappiamo che il Signore in ciò fu l'esempio più vivo e mirabile, ma abbiamo l'audacia di dire che se egli patì come uomo ne fu capace perché era anche Dio, onnipotente e vero, e quindi oggetto per l'umana fragilità più d'ammirazione che d'imitazione. Di fronte a questa scusante ci viene incontro sua Maestà con la testimonianza di sua Madre, nostra regina, innocente e pura, con quella del santissimo Giuseppe e con l'esempio di tanti uomini e donne, fragili e deboli come noi e con meno colpe, che lo seguirono nel cammino della croce. Il Signore, infatti, non patì per nostra meraviglia, ma per offrirsi come straordinario modello da imitare. L'essere vero Dio oltre che vero uomo non gli impedì la sofferenza e la prova della fatica, ed anzi per lui, innocente e senza colpa, fu ancor più grande il dolore e più atroci furono le pene.

866. Sua Maestà, per questa via regale, fece incamminare Giuseppe, lo sposo della sua santissima Madre, che amava al di sopra di tutti i figli degli uomini. Il Signore per accrescere al santo vegliardo i meriti e la corona, prima che egli giungesse alla fine della vita per poterli guadagnare, gli diede negli ultimi anni della sua esistenza diverse infermità, con febbre, forti mal di testa e dolori particolarmente strazianti alle articolazioni del corpo, che lo afflissero ed estenuarono molto. Oltre a questi tormenti, Giuseppe ebbe una sofferenza più dolce, ma sempre molto dolorosa, suscitata dalla forza del suo ardentissimo amore. Questo era tanto veemente da rapirlo, diverse volte, in voli così forti e impetuosi che il suo spirito purissimo avrebbe rotto le catene del corpo se il Signore, che disponeva questo, non l'avesse assistito infondendogli virtù e forza. Tuttavia sua Maestà in questa dolce violenza non lo lasciava soccombere e questo esercizio, considerando la fragilità naturale di un corpo tanto estenuato e debilitato, portava il fortunato santo ad acquistare incomparabili meriti, non solo per i dolori che pativa, ma anche per l'amore da cui scaturivano.

867. La nostra gran Signora era testimone di tutti questi misteri e, come ho già detto in altri passi, conoscendo il cuore di san Giuseppe, godeva nell'avere uno sposo santo e tanto amato dal Signore. Ella ammirava e penetrava il candore e la purezza di quell'anima, i suoi ardenti affetti, i suoi sublimi e divini pensieri, la sua pazienza e la sua mansuetudine, il peso e la gravosità delle malattie, vedendo con stupore che né per queste né per altre tribolazioni si lamentava o sospirava o cercava sollievo: nella sua debolezza e nelle sue necessità, il gran patriarca tutto tollerava con incomparabile sofferenza e grandezza d'animo. La prudentissima sposa, ponendo attenzione a tutto ciò e considerandone degnamente il carico, giunse ad avere per san Giuseppe una così alta venerazione che non si può ben concepire né contenere entro misure. Ella faticava con incredibile trasporto per sostentarlo e ricrearlo, e il più grande regalo che gli faceva era quello di preparargli e somministrargli con le sue mani verginali cibi saporiti. Ma tutto questo sembrava poco alla divina Signora di fronte ai bisogni del suo sposo, e molto meno in confronto a quanto ella lo amava. Allora, era solita usare la sua autorità di Regina e signora di tutto il creato, ordinando alcune volte alle vivande che preparava di infondere al santo infermo speciali virtù e forze, e di essere gradite al suo gusto. Ciò serviva per mantenere in vita quest'uomo giusto e prediletto dall'Altissimo.

868. Tutte le creature obbedivano agli ordini di Maria santissima, perché ogni cosa fosse eseguita secondo i suoi comandi. Quando san Giuseppe mangiava il cibo condito con tale dolcezza ne avvertiva gli effetti, e diceva alla sua sposa: «Signora mia, che alimento di vita è questo, che mi vivifica, mi ricrea il gusto, mi ristora le forze e riempie di nuovo giubilo tutto il mio intimo e il mio spirito?». L'Imperatrice del cielo lo serviva a mensa in ginocchio, e quando lo vedeva impacciato ed affaticato gli toglieva i sandali e lo aiutava sostenendolo con il suo braccio. L'umile santo cercava con tutta la volontà di farsi forza per dispensare in parte la sua sposa da questi umili servizi, e tuttavia non gli era possibile disimpegnarla. La divina infermiera, per la sapienza che le era infusa, conosceva tutti i dolori e le fragilità di Giuseppe, i momenti e le occasioni opportune per soccorrerlo, e quindi accorreva subito e lo preveniva in tutto ciò di cui aveva bisogno. E come maestra di scienza e di virtù conversava con il suo sposo recandogli particolare sollievo e consolazione. Negli ultimi tre anni di vita del santo, quando si erano aggravate maggiormente le sue infermità, la Regina lo assisteva giorno e notte, assentandosi solo per il tempo in cui si dedicava al suo santissimo Figlio, benché egli stesso l'accompagnasse e l'aiutasse nel prendersi cura del santo sposo, salvo quando doveva attendere ad altre opere. Non vi fu né vi sarà mai altro infermo così teneramente servito ed accudito. Tanto favorevole fu la sorte e tali furono i pregi di Giuseppe, uomo di Dio, che egli solo meritò di avere per sposa la medesima sposa dello Spirito Santo!

869. La celeste Signora, pur servendolo in questo modo, non sentiva di appagare la sua compassione verso san Giuseppe, e quindi cercava di procurare altri mezzi per confortarlo. Alcune volte chiedeva al Signore con ardentissima carità che trasponesse in lei i dolori che pativa il suo sposo, per concedere a lui un po' di sollievo. Ella, come infima fra tutte le creature, si reputava degna e meritevole di ogni tribolazione. Come madre e maestra di santità presentava questa ragione dinanzi all'Altissimo, a cui dichiarava che il suo debito superava quello di tutti i mortali, ma poiché non gli dava degna corrispondenza apriva il suo cuore ad ogni sorta di dolore e di afflizione. Maria santissima rievocava davanti al Signore anche la santità di san Giuseppe, la purezza e i tesori custoditi in quel cuore che l'Onnipotente stesso aveva plasmato a somiglianza del suo; chiedeva a sua Maestà molte benedizioni per il suo sposo, e gli rendeva grazie per aver creato un uomo così degno dei favori divini e così pieno di santità e rettitudine. E riconoscendo in tutti questi prodigi la gloria e la sapienza dell'Altissimo invitava gli angeli a lodarlo, a magnificarlo e a benedirlo con nuovi cantici. La divina Regina, considerando le pene e i dolori del suo amato sposo, da una parte si affliggeva e ne aveva compassione, e dall'altra parte, conoscendo i suoi meriti ed il compiacimento che ne aveva il Signore, si rallegrava per la pazienza del santo e rendeva ancor più lode all'Onnipotente. In tutte queste opere ella esercitava le diverse virtù in modo così eminente da suscitare la meraviglia degli angeli. E uno stupore ancor più grande sarebbe potuto scaturire dall'insipienza stessa dei mortali se avessero visto una creatura umana operare con piena perfezione tante cose insieme, senza che la sollecitudine di Marta si opponesse alla contemplazione e alla quiete di Malia. In questo la divina Signora si rendeva simile agli angeli e agli spiriti sovrani, che ci assistono e ci custodiscono senza distogliere lo sguardo dall'Altissimos. Tuttavia Maria li superava per l'attenzione che rivolgeva a Dio e per il lavoro che eseguiva con i sensi corporei di cui essi sono privi. Difatti, come figlia di Adamo, ella era creatura terrena e spirito celeste, e pertanto con la parte superiore dell'anima era protesa verso le alte vette dell'amore divino, mentre con la parte inferiore esercitava la carità verso il suo santo sposo.

870. In altre occasioni la pietosa Signora presagiva l'acerbità dei dolori che Giuseppe pativa, e allora mossa da tenera compassione chiedeva umilmente al suo santissimo Figlio il permesso di esercitare la sua autorità di regina; ed ottenutolo ordinava alle sofferenze ed alle loro cause naturali di sospendere la propria attività e di non affliggere così tanto il giusto e l'amato del Signore. Il santo sposo, dopo aver ricevuto tale sollievo, poteva riposare per uno o più giorni, ritornando a patire di nuovo quando l'Altissimo lo disponeva. Altre volte Maria comandava ai santi angeli - non con autorità dispotica, ma pregandoli - che consolassero san Giuseppe e l'animassero nei dolori e nelle sue afflizioni, come richiede la fragile condizione della carne. A questo ordine, gli angeli si manifestavano al fortunato infermo in forma umana, visibile, pieni di splendore e bellezza, parlandogli della Divinità e delle sue infinite perfezioni. Talvolta con dolcissime ed armoniose voci gli eseguivano una celeste musica, elevando inni e cantici divini con i quali lo confortavano nel corpo ed infiammavano d'amore la sua purissima anima. Il pio Giuseppe, ricolmo di santità e di giubilo, aveva una speciale cognizione non solo di questi favori divini ma anche della santità della sua vergine sposa, dell'amore che ella gli portava, della carità con cui lo trattava e serviva, e delle altre eccelse virtù della Signora del mondo. Da tutto ciò Giuseppe ricevette una tale ricchezza che nessuna lingua può spiegare, né intelletto umano comprendere.

 

Insegnamento della Regina del cielo

871. Figlia mia, una delle opere virtuose più gradite al Signore e più fruttuose per le anime è l'esercizio della carità verso gli infermi; con esso si adempie gran parte della legge naturale di fare agli altri ciò che vorremmo fosse fatto a noi stessi. Nel Vangelo l'osservanza di questa norma è posta tra le cause che consentono ai giusti di raggiungere l'eterno premio, così come la sua trasgressione tra quelle che comportano la condanna dei reprobi. Su questa legge saremo giudicati, perché essendo tutti gli uomini figli del medesimo Padre celeste, sua Maestà reputa benevolenza o offesa recata a se stesso quella che si reca ai suoi figli che lo rappresentano. Tu, oltre a questo vincolo di fratellanza, hai anche altri legami con le tue religiose, perché sei loro madre. Sono spose di Cristo, mio santissimo figlio e mio Signore, come lo sei tu, ma avendo esse ricevuto meno benefici, per i maggiori titoli di cui sei stata rivestita, sei obbligata a servirle e ad aver cura di loro nelle infermità. E perciò, come in un'altra parte ti ho comandato, reputati l'infermiera di tutte, e tra tutte la minima e la più obbligata. Desidero anche che tu mi sia riconoscente per questo precetto, perché con esso ti assegno un incarico tanto stimabile ed eccelso nella casa del Signore. Per adempierlo non affidare ad altre ciò che tu stessa puoi fare nel servizio alle inferme; quando però le varie occupazioni del tuo ufficio di abbadessa te lo impediranno, rivolgiti premurosamente alle sorelle che per obbedienza svolgono questa mansione. Oltre che per soddisfare il precetto della carità, un'altra ragione per cui si deve assistere le religiose nelle infermità, con ogni cura e con ogni possibile attenzione, è che esse, contristate e bisognose, non rivolgano gli occhi e il cuore al mondo ricordandosi della casa dei loro genitori. Credimi: per questa strada si insinuano gravi mali all'interno delle comunità, perché la nostra natura umana sopporta così poco le privazioni che quando le manca ciò che le spetta scivola in rovinosi precipizi.

872. Per mettere in pratica questo insegnamento, ti servirà da stimolo e da esempio l'amore che io mostrai verso il mio sposo Giuseppe nelle sue infermità. Molto pigra è quella carità la quale aspetta che il bisognoso esponga le sue necessità. Io non attendevo questo, ma accorrevo prima che il mio sposo mi chiedesse ciò che gli era necessario, ed il mio affetto e la mia conoscenza prevenivano le sue richieste. E così lo consolavo non solo servendolo, ma anche rivolgendogli le mie amorevoli attenzioni. Condividevo i suoi dolori ed il suo affanno con intima compassione, e nello stesso tempo lodavo l'Altissimo e gli rendevo grazie per il beneficio che dispensava al suo servo. Se qualche volta cercavo di alleviare le sue sofferenze, non era per togliergli l'occasione di patire, ma affinché con questo soccorso riacquistasse maggior vigore e glorificasse l'Autore di ogni cosa buona e santa: in tal modo lo esortavo alla pratica di queste virtù. Con simile finezza d'animo si devono prevedere, per quanto possibile, le necessità dell'infermo e del debole, animandoli con la compassione e con l'esortazione, e desiderando il loro bene senza che perdano il merito del patire. Quando si ammalano le tue sorelle, fossero anche quelle delle quali hai più bisogno o che più ami, non ti turbare, perché per questo motivo molte anime nel mondo e nella vita consacrata perdono il merito dell'afflizione. Difatti, quando esse vedono nell'infermità o nel pericolo amici e congiunti rimangono sconcertate e mascherano il dolore con il colore della compassione. In qualche modo tentano così di sovvertire la volontà del Signore, non conformandosi ad essa. Io di tutto ho dato loro esempio; e da te voglio che lo imiti perfettamente, seguendo sempre le mie orme.