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In famiglia (1895-1920)
Suor
Elena nacque a Montalto Uffugo, provincia di Cosenza, il 10 aprile
1895, mercoledí della Settimana Santa, ore 10 antimeridiane, da
Pasquale Aiello e Teresa Paglilla, nella loro abitazione di Via Mercato
(l'attuale Corso Garibaldi), all'angolo con Piazza Enrico Bianco.
In
diversi atti, anche ufficiali, come ad es. una carta d'identità
rilasciata dal Comune di Cosenza, il 12 novembre 1937, è dato, come
giorno di nascita, il 16 aprile, e cosí comunemente si riteneva da
tutti.
L'esame degli Atti dello Stato Civile, compiuto dal
compianto avv. Di Napoli, concittadino e devoto estimatore di Suor
Elena, ha permesso la rettifica.
Basti d'altronde costatare che
la Pasqua in quell'anno cadde il 14 aprile ed Elena nacque nella
Settimana Santa, come risulta da tutti i testi e dal terzo nome
impostole: Elena, Emilia, Santa, appunto perché nata in un giorno di
quella settimana.
Il 15, lunedí, fu fatta denuncia della nascita
al Comune. In questo stesso giorno, la piccola fu battezzata nella
Chiesa di S. Domenico (allora appartenente alla Parrocchia S. Maria
Assunta della Serra), dal Parroco don Francesco Benincasa; madrina, la
signora Genise Maria.
Il primo nome, Elena, fu voluto dalla
mamma, perché - come essa stessa spiegava - « durante la processione
delle rogazioni, aveva chiesto al Signore una bambina, cui avrebbe dato
il nome di Elena, in memoria di S. Elena imperatrice, per consacrarla
alla Croce di Nostro Signore ».
La cittadina di Montalto Uffugo,
di circa 12 mila abitanti, sorge su colli ameni, a 475 m. di altezza e
domina, con superba visuale, l'ampia valle del Crati chiusa a nord
dalla lontana catena del Pollino, ad est dall'imponente massa dei Monti
della Sila, ad ovest, quasi alle spalle, dagli Appennini, e infine a
sud, a circa 24 chilometri, dalla strozzatura in cui il Busento
s'immette nel Crati, dominata dai sette colli, di cui si fregia la
città di Cosenza.
Uffugum è il nome del primitivo aggregato di
abitazioni, sorte su palafitte lungo la riva sinistra del Crati; esso
divenne centro importante per il periodo della civiltà ellenica, con un
territorio molto vasto, che risalendo dal Crati, per le feraci colline,
superava i folti boschi di castagni e di pini dell'Appennino, per
stendersi lungo il litorale del Tirreno.
Dal III sec. a. C.,
incominciò la dominazione romana; e l'abitato fu trapiantato sui colli,
nell'ubicazione attuale, con la denominazione di Mons altus: colonia
civium romanorum. Seguirono le varie dominazioni. Da Ferdinando I di
Aragona le venne conferito il titolo di « città », 1° gennaio 1489;
confermatole da Filippo III, il 14 febbraio 1614; e, infine,
riconosciutole con decreto presidenziale del 16 maggio 1958.
Dall'unificazione del regno d'Italia furono abbinati definitivamente i due nomi: Montalto Uffugo.
Oltre
alla Chiesa di S. Domenico, vanno ricordati il Santuario di S. Maria
della Serra e la Chiesa di S. Francesco di Paola. Queste due chiese si
collegano alle due peculiari devozioni di Suor Elena: alla Vergine e a
San Francesco di Paola.
A questa seconda Chiesa, già dedicata
all'Annunziata, nel 1516 don Ferrante d'Aragona, duca di Montalto
Uffugo, diede il ritratto di S. Francesco eseguito nel 1483, per ordine
del re di Napoli.
Il P. Roberti cosí ne scrive:
Ferdinando
« diede ordine ad un valente pittore, il quale, non potendo ottenere
che Francesco posasse dinanzi a lui, dovette contentarsi di osservarlo
dalla fessura, praticata nella porta della sua stanza. Il prezioso
dipinto, eseguito da un buon artista - non però come ritiene qualcuno,
dallo Spagnoletto - si crede sia precisamente quello, che piú tardi,
nel 1516, don Ferrante d'Aragona, duca di Montalto Uffugo, diede alla
nostra chiesa dell'Annunziata dove tuttora si venera.
« Il
ritratto è disegnato egregiamente sopra due tavole di legno di noce,
che misurano m. 1,89 per 78 cm. Il Santo è in piedi e sembra sostenuto
dal suo lungo bastone; ha l'abito color marrone, molto sdrucito,
specialmente all'orlo della manica sinistra e nell'orlo inferiore
soprastante al piede sinistro; sulla manica destra sono visibili alcuni
punti di cucitura a refe bianco.
« Il Santo dalle ginocchia in
su, è disegnato sopra un fondo color cenere, e circondato da tredici
stelle. Il fondo finisce in un grande arco al disopra della testa, e in
due piccoli archi laterali, che fanno vedere tre porzioni di colonne
con capitelli. Questo dipinto, eseguito quando il Santo aveva 67 anni,
viene comunemente stimato come il piú somigliante ».
Dovendo accennare alla situazione ambientale, ci piace riportare alcune costatazioni e riflessioni del già citato P. Roberti.
Rilevati
i gravi mali - si pensi in particolare allo scisma d'Occidente - e i
disordini del secolo decimoquinto, l'autore prosegue: « L'Italia
peraltro, centro del Rinascimento, non poteva soccombere a questa
gravissima crisi, che la travagliava. V'era in essa, come ha osservato
lo Schlegel, quella " potenza meravigliosa di ristoramento, che
raddrizzava continuamente la cristianità dell'Occidente e la rialzava,
con qualche leggera modificazione, dalla profonda ruina in cui
momentaneamente cadeva, e dall'orribile caos, dove in quei momenti di
transizione si inabissavano lo Stato e la Chiesa; cosí fatta potenza di
risorgimento non può attribuirsi ad altro, se non alla solidità della
base religiosa, sopra la quale posava l'edificio dei popoli cristiani e
della loro storia ".
« Nella sua immensa bontà il Signore veniva
preparando delle anime elette, nelle quali gl'ideali cristiani
spregiati e negletti dalla Rinascenza e dall'Umanesimo, dovevano
risorgere, riaffermarsi e rifulgere nella loro vita, per mostrare agli
uomini con la luce dell'amore l'arduo sentiero della perfezione e della
gloria» (p. 41).
Religiosità confermata, ad. es., dal grande e
dotto camaldolese Ambrogio Traversari, il quale assicurando l'austero
pontefice Eugenio IV, profugo a Firenze, che « la fede è ancora molto
forte », in una lettera del 1431, precisava: « Dovunque brilla qualche
segno di santità, il popolo corre facilmente, anzi con gioia e
desiderio. Seguirebbe con felicità colui che lo guidasse nel sentiero
di Dio ».
Tale caratteristica è rimasta e permane attraverso le piú varie tempestose vicende, a noi piú vicine.
Per
esse ci soccorre il giudizio di un altro storico, il P. Francesco Russo
nel bel volume dedicato alla Storia della Arcidiocesi di Cosenza: «
L'unità d'Italia, raggiunta nel 1860, non apportò vantaggi immediati
all'Italia Meridionale e soprattutto alla Calabria, in cui le cose
peggiorarono sensibilmente, al punto che nel popolo venne a formarsi la
convinzione che la causa di tutti i mali fossero i Piemontesi.
«
La situazione religiosa peggiorò ancora di piú, per la insipienza della
classe dirigente che credette di cementare la unione, facendo leva
sull'anticlericalismo della peggiore lega e nella lotta al Papato,
presentato ipocritamente come il nemico dell'Italia. E il Governo,
dimenticando il contributo di pensiero, di sacrifici e di sangue, che
il clero meridionale aveva apportato alla causa nazionale, lo guardò
con diffidenza e sospetto, anzi con ostilità, pretendendo di scorgere
in esso l'alleato naturale dei regimi decaduti e della reazione.
«
Le sette e i partiti politici non mancavano di soffiare sul fuoco, per
acutizzare il dissidio e spingerlo alle estreme conseguenze.
«
L'applicazione delle leggi eversive sulle Congregazioni religiose e sui
beni ecclesiastici fu effettuata nell'Italia meridionale con zelo
eccessivo, mentre nell'Italia centro-settentrionale si ebbe
un'applicazione piú blanda. Di qui la differenza economica che
distingue la stessa classe nelle due parti della nazione, differenza
che pesa ancora sinistramente sulla condizione sociale del clero
meridionale di fronte a quella dell'alta Italia.
« In Calabria
entro il primo ventennio del Regno furono soppressi tutti gli Ordini
religiosi, chiuse tutte le loro case e incamerati i pochi beni, che
erano stati rivendicati dopo l'occupazione napoleonica. Un colpo ancor
piú duro venne dalla legge del 15 agosto 1867 che incamerò i beni
ecclesiastici, assegnando una congrua ai vescovi e ai parroci, nonché
una pensione di appena 459 lire agli altri sacerdoti. Per di piú ai
preti fuori ruolo fu negato il diritto di successione alle pensioni
vacanti, anche se ordinati prima della legge.
« Veniva cosí
sottratta la possibilità di un'esistenza dignitosa ai preti, che non
fossero in cura d'anime. E questa è stata certamente una delle cause
determinanti della continua diminuzione dei candidati al sacerdozio,
che è stata proprio in ragione diretta dell'aumento della popolazione »
(p. 273 s.).
E ancora:
« Gli Ordini furono duramente provati dalle leggi eversive dei liberali, in opposizione ai loro stessi principi di libertà.
«
Nel 1860 le case dei religiosi erano piuttosto poche: in tutta la vasta
diocesi di Cosenza non raggiungevano la quindicina, di fronte alle 200
e piú che esistevano nel Seicento. Francescani, Minimi, Cappuccini. I Conventuali e i Domenicani a Cosenza.
«
Ora tutti questi conventi furono chiusi inesorabilmente tra il 1865 e
il 1875. I religiosi, scacciati dalle loro case, si videro costretti a
secolarizzarsi o a menare vita privata, lavorando nel ministero
parrocchiale o nell'insegnamento scolastico.
« Pochi invece
restarono fedeli al loro ideale, in attesa di tempi migliori, vivendo
in comunità in case private o ottenendo qualche misera stanzetta nei
loro stessi conventi, per uflìciare le loro chiese, che altrimenti
sarebbero rimaste incustodite. E questi buoni religiosi, con la fede
che li anima e la costanza che li distingue, prepararono la ripresa del
loro apostolato evangelico e il ritorno in alcuni dei loro conventi »
(p. 276 s.).
Quanto alle sette e ai partiti politici, già in
altro libretto e, indicavamo nel socialismo e nella massoneria, i due
mali che, in grado e perversità diversi, afflissero il regno d'Italia,
appena formato, dal 1870 all'avvento di Mussolini.
Raggiunta
l'unità d'Italia, la massoneria volendo continuare la sua odiosa
campagna contro la Chiesa - campagna che aveva sfruttato l'idea
patriottica dell'unione con Roma a capitale - sfruttò la mèta
raggiunta, presentandola come suo merito esclusivo, contro i cattolici
« privi di ogni sentimento nazionale » e perenni oppositori.
Furono
tolti dalla scuola il crocifisso ed ogni insegnamento religioso; ai
ragazzi, ai giovani, agli universitari, si ammanní una cultura laica,
preparata con cura dalla massoneria imperante. Per ottenere un posto,
per non avere intralci e palesi ingiustizie nella carriera bisognava
iscriversi alla massoneria, che si circondava di mistero e di ombra.
Bastava
in un quartiere popolare la presenza di qualche affiliato, in genere
professionista, per estendere la nefasta propaganda contro la Chiesa.
Il massone si presentava come il detentore della cultura: storia, scienza, letteratura.
Il povero parroco avrebbe dovuto subire i suoi sarcasmi, il ridicolo di cui il grande e bonario barbone amava ricoprirlo.
Quanto al socialismo sfruttava la miseria, e l'ignoranza; proprio quei due mali che avrebbe dovuto combattere.
Si
presentava come paladino degli operai, promettendo il paradiso
terrestre; come ostacolo da sormontare presentava la Chiesa, alleata
dei ricchi, ladri ed avari; sanguisuga della povera gente, che lavora.
Solo
la fatica manuale veniva presentata come lavoro; la fatica
intellettuale che stanca e consuma molto di piú, considerata svago da
signori.
Il prete poi l'ideale del vagabondo. La dottrina della
Chiesa con quella continua esortazione all'amore, alla rassegnazione,
un vero e proprio incitamento alla schiavitú attiva nei ricchi e
passiva negli operai, nei contadini, nei dipendenti in genere.
La
Chiesa infine era una vecchia mummia del passato; la sua ignoranza, la
sua cieca opposizione alla scienza, al progresso, non avevano piú
bisogno di dimostrazione: basta ricordare le torture inflitte a
Galileo: i roghi che arsero i Savonarola, Wicleff, Huss, ecc..
Il
contatto tra la massoneria e il socialismo qui diventa strettissimo; si
trattava addirittura di fusione della linea d'attacco; l'uno pigliava i
motivi dell'altra e viceversa.
Anche questa volta, si erse e si
impose quella « potenza meravigliosa di ristoramento » di cui parla lo
Schlegel, fondata sulla « solida base religiosa ».
Scacciata
(almeno ufficialmente) dalla scuola, dalla vita pubblica, mortificata,
umiliata, nella stessa organizzazione ecclesiastica, la religiosità
della nostra gente inconsciamente preparava la rivincita nella sua
cittadella, il focolare domestico.
Si deve riconoscere che la
politica attuata da Mussolini: scioglimento della massoneria; pace e
ordine all'interno; previdenze sociali, cura dei bimbi, con scuole,
colonie estive; rispetto e riconoscimento della religione cattolica;
politica stabilmente concretata nel Trattato e nel Concordato con la
Santa Sede, siglati nel 1929, poteva essere considerata dalla nostra
brava gente, quale espressione della suddetta « potenza meravigliosa di
ristoramento » e trionfo del suo sano sentimento religioso.
Questi motivi spiegano il giudizio favorevole di tante persone pie, della stessa Suor Elena, per l'opera di Mussolini.
«
Nella casa paterna, il nostro caro fanciullo - scrive di S. Francesco
di Paola il P. Roberti (p. 70) - trovò un vero santuario, dove le
parole, gli sguardi, le azioni dei genitori erano esempio eloquente di
quella sentita pietà, di quella purezza e integrità di costumi, che è
fondamento della perfezione cristiana, della prosperità morale e civile
dei popoli ».
L'uomo non ha ricordi piú preziosi di quelli della
sua prima infanzia, vissuta nella casa dei genitori, specialmente se
c'è un po' d'amore e di unione in famiglia.
La piccola Elena si trovò in un ambiente domestico esemplarmente cristiano.
Pasquale Aiello era annoverato tra i migliori sarti del circondario, con una clientela rispettabile fin dalla stessa Cosenza.
L'avv.
Di Napoli lo descrive: « Bell'uomo; di una probità eccezionale;
squisito nei modi; appariva ed era un perfetto gentiluomo; rispettava
ed era rispettato ».
Nella bottega, al piano terra della sua
abitazione (mentre il piano di sopra era riservato per la famiglia),
ferveva il lavoro davvero senza sosta; sempre numerosi, giovani e
ragazzi vi apprendevano il mestiere.
Nel 1905 (1° dicembre)
morí, ancor giovane la moglie, Teresa Paglilla, lasciando ben otto
figliuoli: Emma, Ida, Elena, Evangelina, Elisa, Riccardo, Giovannina e
Francesco; un'altra figlia, M. Teresa, era volata al cielo un mese
prima, a un solo anno di età. La maggiore, Emma, alla morte della
mamma, era ancora giovanetta e Francesco di appena alcuni mesi.
Rifulse
allora la virtú di questo umile artigiano: richiamò in casa tutti i
figliuoli, volendo vigilare personalmente alla loro formazione
sanamente e integralmente cristiana. Ciascuno di essi aiutava,
adeguatamente all'età e alle altre occupazioni peculiari, il genitore
nel suo lavoro.
Nato a Montalto il 22-2-1861, maestro Pasquale
vi morí, ultraottuagenario (16-11-1955), continuando nel suo lavoro,
fin quasi al termine della sua fruttuosa giornata, sempre assistito
dalla primogenita, signorina Emma, tanto riservata e tanto cara.
Elena,
la terzogenita, alla morte della mamma era nel suo 11° anno, e alcuni
mesi prima era stata cresimata da S. Ecc. Mons. Sorgente (187-1911),
nella Cappella della Marchesa Donna Amalia Spada, madrina Donna
Agnesina Turano.
Aveva manifestato subito una intelligenza
sveglia: a quattro anni ripeteva già le formule del catechismo; a sei
(1901) è mandata dalle Suore del Preziosissimo Sangue, per frequentare
le scuole elementari e continuare l'istruzione religiosa.
Nell'istituto
delle Suore, la piccola, dopo la preghiera, esprimeva sempre il
desiderio di voler assistere alla S. Messa; ma nell'Istituto non ogni
mattina veniva celebrato il S. Sacrificio e la piccola Elena, quando
poteva, eludendo con relativa facilità la vigilanza della Suora
preposta, scappava nella vicina Chiesa per soddisfare il suo vivo
desiderio. Le capitò in una di queste scappate, di cadere per terra,
mentre si affrettava verso la Chiesa, e di ferirsi con un vetro al
labbro superiore; a casa, dove alcuni passanti la portarono, il medico
di famiglia, dott. Adolfo Turano, richiuse con qualche punto la ferita.
Rientrando a casa, dopo la scuola, aiutava anche lei, sotto la guida della sorella, nel comune lavoro di cucito.
Le
Suore dell'Istituto, vedendo il suo progresso e la sua preparazione
nella conoscenza del catechismo, incominciarono - ad otto anni - a
portarla con loro, per abituarla ad insegnare ai piú piccoli la
dottrina cristiana.
Nel 1904 (a nove anni), dopo un'adeguata
preparazione e un corso di esercizi al popolo, predicato dal rev.mo P.
Timoteo, passionista, Elena fece la prima comunione, il 21 giugno.
Verso la fine degli esercizi, con numerose altre bambine, essa andò a
confessarsi dal P. Timoteo, insistendo perché le concedesse l'uso delle
catenelle e ottenendone il permesso.
Finita la missione, la
nostra giovanetta si recò nell'abitazione di una sua cugina, Clara, che
era in comunicazione con la casa dove i missionari erano ospiti; la
cugina, nel togliere la sbarra di legno che chiudeva la porta, colpiva
inavvertitamente Elena alla bocca, facendole saltare due incisivi.
Nonostante
il dolore, con la bocca insanguinata, Elena, raccolti in un fazzoletto
i due denti, volle raggiungere il P. Timoteo per avere le catenelle
promesse.
Nonostante li avesse già mutati, i denti caduti le
rinacquero. Tali particolari svelano questo desiderio della
mortificazione, della sofferenza, che sarà manifestato nei fatti che
seguiranno e che costituisce una caratteristica spiccata della
esistenza di Suor Elena. La sofferenza, direi abituale, continua,
abbracciata con amore.
Dopo la morte della mamma, « Elena, già
istruita nell'arte del cucito, aiutava il babbo, insieme alle altre
sorelle. Il tempo libero lo adibiva negli altri lavori domestici ed
alle immancabili preghiere quotidiane. Ogni mattina, il primo pensiero
era quello di ascoltare la Messa e fare la S. Comunione ».
« Ogni ricercatezza di vanità e di modernità non vennero mai a disturbare il cielo sereno della famiglia Pasquale Aiello ».
La
narrazione, nel quaderno, cosí prosegue: « Alla vigilia di Natale del
1906, Elena ed Evangelina osservarono da casa una scena ridicola; nel
raccontarla al babbo, per farlo distrarre dal pensiero della morte
della loro genitrice (era passato appena un anno), Elena, mentre
rideva, ebbe un colpo di tosse convulsa, per un po' di acqua che
bevendo era entrata nell'esofago. Comunque, per circa un anno e mezzo,
si ebbe l'abbassamento della voce e tosse continua, che cessava
soltanto durante la notte. Furono senza esito le varie cure tentate; il
dr. Francesco Valentini, di Cosenza, infine, le ordinò il lavaggio
dello stomaco, con una sonda gastrica.
« Sotto le sofferenze,
causatele da tali lavaggi, e dal persistere del grave disturbo, una
sera, dopo la recita del S. Rosario (recita che mai trascurava), Elena
fece voto alla SS. Vergine di Pompei di farsi religiosa nel suo
Santuario se l'avesse liberata da quel terribile male.
« Nella notte (1908) ebbe chiara la visione della SS. Vergine di Pompei che l'assicurava della guarigione ».
In
realtà, al mattino, ogni disturbo era definitivamente scomparso, ed
Elena ritornava con gioia all'Istituto Marigliano Marini retto dalle
Suore del Preziosissimo Sangue.
La giovane Elena ha ora una mèta
ideale da perseguire concretamente: il compimento del voto fatto;
rendendosi suora fra le bianche vergini del Santuario di Pompei; e
l'Istituto delle Suore è ora, sempre piú, il suo ambiente.
L'attesa
si protrasse piú del prevedibile: le complicazioni politiche in campo
interno e internazionale e infine lo scoppio della grande guerra (1915)
suggerirono al prudente genitore di rimandare ogni decisione.
La
Calabria, oltre ai lutti per l'eroica morte dei suoi figli nella
logorante vita di trincea e nelle dure battaglie in campo aperto,
risentí i contraccolpi dell'immane sforzo nazionale; ospitò i profughi,
giunti fin qui dalle Venezie; vide in Sila un bel gruppo di prigionieri
austriaci; ma principalmente subí come e forse piú delle altre regioni,
per le carenze in campo igienico e sanitario, la furia dell'epidemia: «
la spagnola » gettava nella desolazione quartieri e paesi interi.
Anche
Montalto fu raggiunta dal morbo. L'epidemia sembrò moltiplicare le
forze e l'ardore di carità della nostra giovane, che aveva un
bell'esempio ed era assecondata dalla dinamica superiora, Suor
Angelica, e dallo zelo del Sac. don Francesco Rizzo.
Elena
passava la sua giornata assistendo i poveri infermi, occupandosi
financo della confezione di rozze casse di legno per seppellire «
cristianamente - come ella s'esprime - le infelici vittime
dell'epidemia ».
Durante l'influenza del morbo, maestro Pasquale
lasciò che Elena passasse anche la notte nell'Istituto con le Suore,
per timore che portasse il contagio in famiglia. E le Suore
incominciarono a considerarla come una di casa, accarezzando il
pensiero di accoglierla quanto prima nella loro congregazione.
Ma
già da tempo la giovane, aspirante alla vita religiosa, aveva prescelto
la via sicura dell'esercizio della carità, per rendere certa la propria
vocazione e alimentare l'interno slancio per un'integrale vita di
perfezione: assisteva i poveri, gl'infermi e i moribondi.
Sono
molto indicativi i due episodi ricordati con la consueta semplicità,
nei citati quaderni. « Un giorno il dottore Turano, avendo trovato
Elena presso il capezzale di Bianca C., da tutti abbandonata perché
affetta da etisia, mentre la pettinava, prese la giovane per un
orecchio e la condusse al padre: "Caro Pasquale, o la legate voi o la
lego io al suo lettino, perché si spinge troppo, senza riguardo alcuno,
anche con pericolo di contagiarsi ».
Accorreva, in particolare, presso i moribondi che rifiutavano i sacramenti.
«
Un giorno, avvisata dalle gravi condizioni di un signore, appartenente
alla massoneria, Alessandro A., si reca dall'ammalato e con dolcezza
cerca persuaderlo a ricevere i Sacramenti. La risposta è un assoluto
diniego. Elena insiste e l'ammalato in un accesso di collera, afferra
una bottiglia e la lancia contro di lei. Elena scansa il colpo diretto
al volto, piegando il capo; ma rimane colpita al collo, con una ferita
abbastanza notevole, che le lascerà una visibile cicatrice. Comprimendo
la ferita con un fazzoletto, ella ritorna accanto al letto
dell'ammalato, con soavità, ripetendo l'esortazione a ricevere i
Sacramenti, per la salvezza dell'anima che correva il pericolo di
perdersi; e aggiungendo che non se ne sarebbe andata se prima non aveva
da lui l'assicurazione che avrebbe bene accolto il sacerdote ».
L'ammalato
fu commosso di tanto calore di carità e promise di accontentarla in
tutto, a una condizione però: che Elena fosse andata a visitarlo ogni
giorno. Ricevette infatti i Sacramenti dal Sac. Don Eugenio Scotti; e
per tre mesi, fino alla sua buona morte, ebbe la visita e le cure di
Elena: trasformato in fervido cristiano, paziente e rassegnato nelle
sue sofferenze.
Ed era ben nota questa benefica attività della
giovane Elena, se fu richiesta dal Cancelliere Ripoli di andare ad
assistere un moribondo, affetto da cancro, tormentato « perché sentiva
di aver tradito Iddio iscrivendosi alla setta massonica, per la
sistemazione dei suoi figli ».
Anche in questo caso, Elena
riusciva a consolarlo e fargli amministrare i sacramenti dal P. Leone,
cappuccino, che molti di noi ben ricordano a Cosenza.
Scrivendo
del vescovo Myriel, l'Hugo dice tra l'altro: « Il dolore sparso
dappertutto non era per lui che l'occasione di una bontà continua. Egli
s'inchinava su ciò che geme e su ciò che espia.
« Amatevi l'un
l'altro; egli dichiarava completo questo precetto, che costituiva tutta
la sua dottrina... L'anima deve rinchiudersi in tale precetto, come la
perla nella conchiglia. Era un'anima umile e piena d'amore... Le
gigantesche meditazioni hanno senza dubbio un vantaggio morale e sono
le strade faticose che avvicinano alla perfezione; ma egli aveva
prescelto il sentiero che accorcia, il Vangelo ».
E ancora: «
L'avvenire è aperto ai cuori ben piú che alle menti. Amare, ecco la
sola cosa che possa occupare e riempire l'eternità. All'infinito
corrisponde l'inesauribile.
« Di tutte le cose create da Dio, il cuore è quello che emana piú luce ».
E'
l'unico precetto lasciato da Gesú ai suoi: « Amatevi gli uni gli altri,
come io ho amato voi », quale loro segno distintivo (Giov. 13, 34 s.).
E il precetto dell'amore soprannaturale è l'essenza del cristianesimo.
«
In cielo, ricordati, è detto: si gioisce piú per un peccatore che si
pente che per dieci giusti: chi si pente, ama. E amando, appartiene già
a Dio... Con l'amore si compra tutto, si salva tutto. Cercate di
sentire per il vostro prossimo un amore attivo e continuo. Man mano che
andrete avanti in questa via di amore, vi persuaderete sempre piú della
verità della nostra fede... Amate specialmente i bambini, perché sono
innocenti come angeli e vivono per la nostra tenerezza, per la
purificazione dei nostri cuori.
« Talvolta ti fermi perplesso
davanti a un'idea, specialmente davanti a certi peccati umani;
perplesso senza sapere se devi reagire con forza o con umile amore. A
questa domanda, devi rispondere sempre: " con umile amore ". Se tu
prendi questa risoluzione una volta per sempre, potrai vincere tutto il
mondo. L'umiltà nell'amore è una forza senza eguale ».
L'amore di Dio e del prossimo è la ragione del voto di verginità, ne è la forza e la protezione migliore.
L'esercizio
della carità è tutto il cristianesimo; porta con sé il dono mirabile ed
unico della gioia e della pace, lasciatoci da Gesú. « Una sola è la
scuola ascetica - scrive don Giovanni Rossi - che può condurre il
cristiano alla santità e all'apostolato: la scuola di Gesú Cristo. Il
cristiano che crede, ama ed imita Gesú in modo perfetto, diviene via,
verità e vita di molti fratelli. L'uomo fatto santo, l'uomo che ama, è
necessariamente un salvatore di anime, come la lucerna che, ardendo,
illumina.
« La vita di Gesù in noi è interiormente Santità,
esteriormente apostolato. Con la sua rivelazione fa libero l'uomo nella
mente e nel cuore, è capace di trasformare in gioia ogni sofferenza;
nell'orazione, nella carità fraterna, l'eleva a vivere la sua stessa
vita, formando di lui una creatura nuova.
« E il cristiano,
confortato dalla grazia di Gesù, forte nell'amore, supera eroicamente
i dolori, le difficoltà, gli ostacoli, le tentazioni inevitabili del
suo itinerario verso la perfezione, e con certezza sospira la sua
eterna unione con Gesú ».
L'esercizio della carità, il suo voto
di consacrarsi vergine al Signore, il desiderio di soffrire per Lui, ci
mostrano di quale ottima lega fosse il « nodo santo di tenero e forte
amore » con cui Elena si legò al Crocifisso, « fin dai piú teneri anni
della sua fanciullezza », e a cui si mantenne « fedelissima fino
all'estremo anelito ».
Elena era già pronta per i disegni che il
Signore aveva formulato su di lei. « Imperocché i meriti non si
misurano da questo; cioè, se alcuno abbia molte visioni e consolazioni,
o sia perito nelle Scritture, o trovisi in piú alto grado: ma invece,
se sia fondato in vera umiltà, e ripieno di carità divina; se cerchi
sempre l'onor di Dio puramente e intieramente; se reputi un nulla se
stesso, e si disprezzi davvero; e anche degli altri piú goda d'essere
disprezzato e umiliato, che ricolmo di onori »
E noi vedremo
divenir continuo, intensificarsi, essere la ragione medesima della sua
esistenza, questo esercizio della carità; e perpetuarsi oltre la tomba,
nell'opera mirabile di amorevole assistenza a un numero sempre
crescente di bambine.