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SANTA GEMMA GALGANI
Biografia di Suor
Gesualda Saldi
CAPITOLO I. -
UNA CONFESSIONE
Io conobbi di vista Gemma Galgani; più volte mi trovai accanto a lei
nelle lunghe attese al confessionale di monsignor Volpi, ma non
m'ispirò simpatia.
Non la conobbi mai personalmente, né le parlai, perché le nostre
famiglie non erano in relazione. Sapevo che era una povera figlia
accolta per carità dalla famiglia Giannini, che aveva ricevuto una
grazia dalla beata Margherita Maria.
Un' amica mi disse un giorno di lei: «E’un pollino freddo. Se si mette
qui, sta qui; se si mette là, sta là», e ciò non accrebbe le mie
simpatie.
Un giorno, per caso, la vidi sorridere: l'incanto di quel sorriso mi
colpì; l'ho sempre nella mente e nel cuore. Ecco tutto ciò che di lei
mi rimase, tutto ciò che allora seppi di lei.
Chi invece m'ispirava vivissima simpatia erano le due sorelle: Annetta
ed Eufemia Giannini. Incontrandoci, pur senza conoscerci, ci facevamo
dei saluti amichevoli. Per me, era una gioia quando vedevo spuntar da
lontano quel gruppetto, e qualsiasi irritazione, o turbamento interno
che provassi, si calmava come per incanto a quell'incontro. Lo
attribuivo alla vista di quelle due dolci creature, non alla santa che
era con loro. Capisco ora che quella pace era lei, invece, a infonderla
in me.
Dopo la morte di Gemma, mi parlarono di lei come di una santa, e la
notizia mi commosse.
Poi le opinioni più varie vennero a frastornarmi; ma il tracollo lo
dette una persona che avrebbe voluto e dovuto farmela amare. Questa,
per un cumulo di circostanze, m'ispirò tanta contrarietà che mi fece
provare per Gemma una vera avversione; non credevo più a nulla di ciò
che si diceva di lei,
e l'avversione era tale da farmi pensare: «E come faccio, se poi la
beatificano?».
Tutto, di lei, mi disturbava, e comunicavo anche ad altri la mia
incredulità e avversione. E ciò per venticinque anni circa.
Da più parti mi si facevano pressioni perché ne scrivessi la vita, ma
la mia risposta era invariabile: «Impossibile, come volare. Come si può
scrivere di chi non si ama e a cui non si crede?».
Abituata alle estasi sublimi della mia santa madre, Maria Maddalena de'
Pazzi, quelle di Gemma mi parevano scialbe e scolorite.
Ne sentivo lodare le lettere: aprivo il libro, lo richiudevo:
quel modo di scrivere non mi andava. Aprivo la vita, e mi capitava
qualcosa che mi dava disgusto. Insomma la mia contrarietà per Gemma non
cedeva.
Mesi or sono, stretta al muro, e, quasi o senza quasi, costretta a
metter mano a questa biografia, mi rivolsi a Gemma e le dissi: «Se vuoi
quest'ossequio da me, fatti amare». Come per incanto, la mia avversione
cedette, cambiandosi in amore ardentissimo, e ciò prima ancora di
leggerne la vita. Poi mi misi a leggerla, e fin dalle prime pagine la
dolce ed eroica figura di Gemma ne balzò fuori bella, luminosa, santa.
Rimasi stupita di una virtù così eroica, così costante, così sublime.
Sentii pena di non avere la capacità per trattar Gemma quale
contemplativa, con la dottrina dei mistici alla mano, e mi limitai a
scrivere queste poche pagine, nelle quali avrei voluto mettere tutto il
mio amore per riparare con esse le mie incredulità e contrarietà
passate: sentite in me o comunicate agli altri.
Questo mio istantaneo mutamento di cuore mi portò a non più sopportare
e neppure a comprendere i contraddittori di Gemma e a desiderare
ardentemente che Dio cambiasse il loro cuore come cambiò il mio, e
concedesse presto la beatificazione di questa santa creatura.
Questa la confessione, questa la relazione di una vera grazia, per
comprendere la portata della quale bisognerebbe poter leggere nel mio
cuore e averne provato i sentimenti.
CAPITOLO II. -
IL PRIMO RACCONTO
A Lucca, oltre cent'anni fa, nella famiglia Galgani si
ripeteva una di quelle scene tanto comuni nei tempi di fede.
Una giovane madre, preso tra mano un crocifisso e sulle ginocchia la
sua piccina, glielo additava dicendo: «Vedi, Gemma, questo caro Gesù è
morto in croce per noi!». Poi, con la sua voce insinuante, con la soave
eloquenza del cuore e della fede, con quel dono che ha la madre di
adattarsi alla capacità dei suoi piccini, le narrava la storia della
passione. Le diceva come «il caro Gesù», che amava tanto gli uomini,
fosse stato battuto, schernito, vilipeso, ridotto tutto una piaga, poi
crocifisso, e proprio dai suoi beneficati!
Gemma ascoltava... I suoi occhi luminosi si empivano di lacrime,
portandosi dal crocifisso al volto materno, da questo al crocifisso.
Posando poi con amore indicibile le labbra innocenti su quelle piaghe,
vi stampava i primi baci di riparazione, promettendo d'essere buona, di
non far mai soffrire Gesù, di non negargli mai nulla.
Quando la madre taceva: «Ancora, mamma, ancora; mi parli ancora di
Gesù?», ripeteva la piccola Gemma, e queste parole «ancora, mamma,
ancora», che rivelavano la sua sete di soprannaturale, le erano sempre
sul labbro sia che la madre parlasse, o che, stringendosela al cuore,
la facesse pregare.
Questa frase che, da piccola, Gemma ripeteva alla mamma, la ripeterà
poi in seguito a Gesù fino all'ultimo giorno, nella sua sete di amore e
di dolore: «Che la mia vita, o Gesù, sia un continuo sacrificio, che tu
accresca i miei dolori, che tu accresca le mie umiliazioni... Voglio
soffrire con te. No, Gesù, non voglio morire, voglio vivere sempre, per
patire tanto e per amarti tanto.. .».
Gemma non era nata a Lucca, ma a Camigliano, grazioso paesello di
quella provincia.
Era nata il 12 marzo 1878, e la famiglia l'aveva accolta con una festa,
con una gioia non provata per la nascita dei tre maschietti che
l'avevano preceduta.
Ventiquattr'ore dopo, riceveva il battesimo nella chiesa di Camigliano.
Riguardo al nome da imporle, vi fu un po' di contrasto fra la mamma e
il cognato, capitano-medico. Questi voleva chiamarla Gemma, ma la madre
non voleva saperne.
A risolvere la questione intervenne un ottimo sacerdote, il parroco di
Gragnano: «Ma perché» disse alla signora Galgani, «non vuole mettere
alla bambina il nome di Gemma, come desidera suo cognato?». L’angelica
signora espresse allora un dubbio ingenuo, penoso però per lei, che
solo aveva l'occhio alla felicità eterna dei suoi figlioli: «Ma... in
Paradiso ci può andare lo stesso, la bambina, non essendovi alcuna
santa col nome di Gemma?». «Le gemme sono in Paradiso» rispose il
sacerdote; «speriamo che questa bambina sia una Gemma di Paradiso».
I fatti dettero presto ragione allo zio.
La piccina, fin dai quattro anni, si mostrò straordinariamente
inclinata alla pietà.
Affidata per qualche giorno alla nonna paterna, questa la teneva a
dormire in un lettino accanto al suo. Ora, una volta che la buona
signora voleva entrare in camera, rimase immobile sulla soglia e poi,
piano piano, invitò il figlio a venire a vedere una gran bella cosa.
Gemma, una graziosa creaturina rosea e fresca, era in ginocchio dinanzi
a un'immagine del sacro cuore di Maria, con le manine giunte, gli occhi
in alto e pareva uno di quei bei putti in adorazione che si ammirano
negli affreschi e nei quadri dei nostri grandi artisti.
Lo zio, come la nonna, ristette a contemplarla con amore; poi, rompendo
il silenzio: «Che fai Gemma?», domandò. «Dico l'Ave Maria» rispose la
piccola. «Vai, vai, che io prego».
Rispettando il suo desiderio di solitudine, i due si ritirarono: «Che
peccato» disse il buon capitano. «Se avessi avuto la macchina
fotografica, le avrei fatto una foto».
Quest'attrattiva per la preghiera, ispiratale da Gesù stesso e dalla
mamma, andò sempre aumentando.
Ed era commoventissimo vedere inginocchiate accanto, madre e figlia,
fuse in una stessa preghiera; vedere strette insieme queste due vite,
una che sta per spegnersi, l'altra che sorge quale alba radiosa.
Sì, una vita che sta per spegnersi. La signora Aurelia Galgani, minata
da una lenta tisi, dopo cinque anni, giungeva alla tomba.
«Ho pregato tanto» dice accarezzando la sua Gemma «perché Gesù mi desse
una bimba; mi ha consolato, è vero, ma troppo tardi! Sono malata, e
presto ti dovrò lasciare: approfitta delle lezioni della mamma». Quanta
tristezza in queste parole! Quanta sollecitudine per l'anima della sua
bambina! E che martirio quel lento sorseggiare la morte prossima, con
la terribile prospettiva di doversi separare da sette creature ancor
tanto bisognose di lei! Tale visione che le stava sempre dinanzi
rendeva quella madre cristiana eloquentissima nel parlare delle vanità
di tutte le cose terrene, della deformità della colpa, dei pregi
dell'anima, della grandezza di Dio, della bellezza del cielo.
La piccola Teresa di Lisieux, nei suoi trasporti d'amore, augurava il
Paradiso alla mamma, al babbo, a tutti. Qui è la mamma ad augurare, in
un certo modo, il Paradiso alla sua bimba: «Gemma, se potessi condurti
dove Gesù mi chiama, verresti con me?». «E dove?», domandava Gemma. «In
Paradiso con Gesù e con gli Angeli». Pare di vederla, la cara bambina,
battere le mani, abbandonarsi a vivi trasporti di gioia. Da quel
giorno, il cielo fu il suo continuo sospiro. «Fu, dunque, la mamma mia
che da piccina mi fece desiderare il Paradiso» dirà poi Gemma, sedici
anni dopo, quando le fu proibito di chiedere a Dio di morire. «E ora,
se desidero ancora il Paradiso e voglio andarvi, ho delle belle
gridate, e mi sento rispondere un no. Alla mamma mia risposi di sì; e
per avermi ripetuta questa cosa del Paradiso, non volevo mai
distaccarmi da lei, e non uscivo più dalla sua camera».
Anche questo particolare quanto è caro! Gemma non voleva più
distaccarsi dalla mamma, non più uscire dalla camera di lei, per non
perdere il momento della partenza, per timore che la sua mamma volasse
sola in cielo. E le saliva sul letto, le cerchiava amorosamente il
collo e la baciava e ribaciava senza fine.
Ma prima di spiccare il volo per la patria eterna, questa piccola
amante del crocifisso doveva divenirne una copia vivente; doveva
risentire in sé, nel cuore, nella sua anima, nelle sue membra, tutte le
angosce, tutte le sofferenze del suo Gesù. «Signor mio» doveva
esclamare, «quando le mie labbra si avvicineranno alle tue per
baciarti, fammi sentire il tuo fiele. Quando le mie spalle si
appoggeranno alle tue, fammi sentire i tuoi flagelli. Quando la carne
tua si comunicherà alla mia, fammi sentire la tua passione. Quando la
mia testa si avvicinerà alla tua, fammi sentire le tue spine. Quando il
mio costato si avvicinerà al tuo, fammi sentire la tua lancia..
Poi, dal calvario al cielo!
CAPITOLO III. -
IL CROCIFISSO
La devozione a Gesù crocifisso fu per secoli e secoli la grande e quasi
unica devozione delle anime cristiane. Dinanzi al crocifisso, si
prostravano i re e i guerrieri, i grandi e gli umili, affratellandosi
in colui che dette il sangue e la vita indistintamente per tutti.
L’immagine del crocifisso si trovava in tutte le case, dalla reggia al
povero tugurio, attorno ad essa si riuniva la famiglia, chiedendo e
ottenendo benedizione e grazia, forza e rassegnazione, pentimento e
perdono.
Il bambino si abituava a quella vista fin dalla più tenera età. La
storia della passione di Cristo era uno dei primi racconti da lui
uditi, e sui quali piangeva. Imprimendosi profondamente nell'anima sua,
gli faceva trarre dall'intelligenza dell'infinito dolore di un
Dio-umanato il sentimento del valore dell'anima, e, rafforzando la
fede, la speranza e l'amore, lo spingeva spesso, in seguito, ai grandi
eroismi.
Infatti, i nostri antichi santi, veri giganti di virtù, divennero tali
contemplando a lungo il crocifisso. Gesù, dalla sua croce, come da
cattedra, si fece loro maestro, ed essi l'ascoltarono; come da trono
regnò su loro, ed essi lo seguirono; come da talamo nuziale si sposò
dalla croce con le anime loro assetate d'amore, avide di dolore e di
sacrificio, ed esse s'immolarono per lui.
Ma pian piano, la fede si affievolì: il crocifisso venne bandito dalla
società, il gelo entrò nel mondo, e con esso la ribellione e
l'ingiustizia. Le anime incominciarono a languire e si spensero gli
eroismi degli antichi tempi. Tra le stesse anime pie, molte parvero
trascurare il crocifisso.
Ma Cristo è re e vuole regnare; è amore e vuole il nostro ricambio; ha
sofferto, ha versato tutto il suo sangue, e vuole che questo sangue da
noi sia raccolto, sia venerato, sia adorato; che il suo dolore sia
compreso da quelli per i quali lo ha sofferto. Il crocifisso, col capo
piegato, quasi a dare alle anime nostre il bacio del perdono e
dell'amore, con le braccia aperte, per abbracciare tutti, col costato
ferito per additarci la via nel suo cuore, non vuole più rimanere quasi
un estraneo per le sue creature: «Quando sarò elevato da terra,
attirerò tutti a me», diss'egli, e vuole che questo suo desiderio si
compia.
Ci vuole tutti nel suo amplesso.
Ed ecco, infatti, il crocifisso tornare in onore. I nostri bambini
italiani lo rivedono nelle scuole e nelle famiglie. Le anime riprendono
la via del calvario dietro gli apostoli della via crucis. Le sante
piaghe tornano in venerazione, e il compatimento dei dolori di Cristo
ricomincia a farsi più intenso.
Santa Teresa di Gesù Bambino divenne apostola contemplando una mano
piagata del crocifisso; e negli abissi di umiliazione e di dolore
celati nel segreto del sacro volto, e da essa compresi, attinse tesori
d'umiltà e di dolore.
Quasi contemporaneamente, nel monastero della visitazione di Chambéry;
Gesù si mostra a un'umile conversa, suor Maria Marta Chambon, le intima
di ricondurre le anime a lui, piagato e crocifisso; di esprimere al
mondo i suoi voleri, i suoi lamenti, le sue promesse: «Voi non
contemplate abbastanza» le dice «il sole nel suo meriggio. Gli stessi
miei sacerdoti non tengono bastantemente l'occhio al crocifisso: e io
voglio essere onorato tutto. Figlia mia, vieni a me, e io ti darò
un'acqua che ti disseterà. Nel crocifisso, tutto si trova, e per tutte
le.... Ho molti santi in cielo che ebbero gran devozione alle mie sante
piaghe; ma quaggiù quasi vi sono delle anime le quali ritengono la
devozione alle mie piaghe come spregevole e quasi sconveniente... per
questo, essa cade in oblio... Eppure le mie sante piaghe sostengono il
mondo e ne sono il tesoro... La devozione ad esse è il rimedio a questo
tempo d'iniquità... Le mie piaghe ripareranno le vostre... non vi sarà
morte per l'anima che spira nelle mie piaghe... esse dànno la vera
vita».
Mentre suor Maria Marta riceveva da Dio in modo esplicito la missione
di ridestare nel mondo la devozione alle sante piaghe di Gesù e
ricondurre le anime al crocifisso, a Lucca, che è per eccellenza la
città del crocifisso, detta per antonomasia città del volto santo,
Cristo faceva di Gemma Galgani «un frutto della sua passione, un
germoglio delle sue piaghe».
«Se l'affetto che tante
volte hai detto di serbarmi nel tuo cuore è vero» egli le
dice, «io voglio che tu
porti in te stessa scolpita la mia immagine».
«Guardami, mi vedrai
trafitto, deriso da tutti, morto in croce; invito te pure a morire in
croce per me». E le si fa vedere tutto coperto di piaghe,
l'avvicina a sé, ed essa, a una a una, amorosamente gliele bacia,
invitando poi tutte le anime ad amare «l'amore non amato», a
nascondersi in quelle piaghe e in quel cuore.
«Venite tutti, ma tutti» ella esclama, «a compatire Gesù! ... Tutti
adoriamo la passione di Gesù, tutti... Andiamo tutti a Gesù in croce!
... Via, venite... Andiamo a raccogliere il sangue di lui, che tanto ne
ha sparso».
«Oh, se tutti i peccatori venissero al tuo cuore! ... Venite,
peccatori, non temete, che la spada della giustizia qua dentro non
arriva.
Ma perché, Gesù, il tuo cuore così buono, così santo, ha da essere il
più tormentato di tutti?... Oh, è pur bello il tuo cuore!... Io vorrei
che la mia voce arrivasse ai confini del mondo... chiamerei tutti i
peccatori, direi che entrassero tutti nel tuo cuore».
Il voto di Gemma si è realizzato. La sua voce, così debole un tempo, si
fa udire per tempo, si fa udire per tutto il mondo e giunge ai lontani
confini. La sua vita, tradotta in molte lingue, si è diffusa con
rapidità sorprendente: voce che scuote, che converte, che stimola: che
stringe le anime al crocifisso: ne fa amare le piaghe, ne fa
raccogliere il sangue e ne dischiude il cuore.
Abbiamo detto che Lucca è chiamata la città del volto santo, e forse
per questo la devozione al crocifisso non vi si è raffreddata.
La vetusta città longobarda resa così caratteristica dalle alte mura
che la cingono, e che, sormontate da alberi frondosi, sembrano
incoronarla a perenne memoria delle antiche sue glorie, è fedele alle
sue tradizioni, ai suoi usi antichi, a tutto ciò che è locale.
Il vero lucchese è attaccatissimo al prezioso simulacro nel quale i
padri suoi riconobbero un insigne dono di Dio; né mai ha potuto
dimenticare che nell'epoca dei Comuni, con meravigliosa solennità, la
piccola repubblica elesse il crocifisso a suo re, facendo della sua
festa la festa dello Stato, dell'omaggio al volto santo il tributo di
vassallaggio allo Stato, dell'impronta del volto santo il conio delle
sue monete e dei suoi sigilli; né v'era quasi circostanza della vita
sociale e politica di Lucca in cui non si professasse ossequio e
venerazione all'augusto simulacro.
Ora, dopo secoli, ogni buon lucchese ne ha sempre l'immagine in casa e
scolpita nel cuore. Quando, poi, il simulacro racchiuso nel
meraviglioso tempietto, opera del Civitali, viene scoperto alla
pubblica venerazione, una fiumana di gente, dalla città e dalla
campagna, accorre a venerarlo. Ciò si ripete più di una volta all'anno.
Gemma Galgani non avrà mancato di recarvisi, prima con la mamma, poi
con gli altri di famiglia. Silenziosa com’era, abituata a tenere chiusi
in cuore i suoi profondi sentimenti, né facile ai grandi entusiasmi,
non ci ha lasciato il ricordo di ciò che avrà provato negli istanti
trascorsi a quella presenza. Ma dinanzi alla taumaturga immagine, che a
guisa del crocifisso di Limpias è maestosa e terribile agli empi, dolce
e amabile ai buoni, Gemma avrà certo provato ciò che provano altre
anime candide e amanti. Dagli occhi scintillanti e profondi del volto
santo parve scendere ad esse un raggio che valse ad illuminarle
sull'infinita misericordia di Cristo, accende i cuori all'amore e alla
riparazione.
Gemma, in tutta la vita, si mostrò figlia, sposa, amante appassionata
del crocifisso, ed ha in una lettera rivolto un invito ad un'amica di
Roma perché venga a venerare il volto santo, il che prova il suo amore;
e fa pensare alle parole di santa Caterina da Siena, la quale ai piedi
del volto santo aveva lasciato il suo cuore: «Andate a quella
dolcissima croce, e troverete Cristo e me».
CAPITOLO IV. - «GEMMA, ME LA VUOI DARE LA MAMMA?»
Fin dai primissimi anni era condotta a inginocchiarsi ai piedi del
volto santo, a giungere le sue mani in una calda preghiera; e certo il
Signore avrà lasciato cadere su quella dolce creatura una di quelle
grazie che formano i santi, uno di quegli sguardi che sublimano le
anime.
Ben presto, infatti, nella cara bambina s'intravide la santa. Ve
l'intravidero il babbo e la mamma, e ve l'intravidero le maestre di una
piccola scuola, ove Gemma passava qualche ora del giorno.
Sveglia e intelligente, imparava presto e bene tutto ciò che le veniva
insegnato, sia in fatto di lavoro che di studio; anzi, a cinque anni,
pare cosa incredibile, leggeva correttamente l'ufficio dei morti e
quello della Madonna, e teneva tanto volentieri il breviario tra le
mani, sapendolo intessuto di lodi a Dio.
La mamma aveva per essa una predilezione, ma ben regolata e diretta a
condurla al cielo; quella del babbo invece era eccessiva, e a Gemma,
per quanto volesse un gran bene a suo padre, non faceva piacere. Ne
soffriva in vista dei fratellini che potevano divenire gelosi.
Questo padre di otto figli soleva dire infatti: «Io non ho che due
figli: Gemma e Gino»; e lo mostrava in pratica. Tornando a casa, la sua
prima domanda era sempre questa: «Gemma dov'è... Dov'è Gemma?...».
Quando andava fuori, sia in città che in campagna, la sola Gemma doveva
accompagnarlo. I vestitini per essa dovevano uscire dai magazzini
migliori, e trovandosi fuori con lei all'ora del pranzo, la conduceva
nei primi alberghi.Come santa Teresa di Lisieux per il signor Martin,
Gemma era per il signor Galgani reginetta del suo cuore! Ma quando,
prendendola in braccio o sulle ginocchia, la copriva di baci e di
carezze senza fine, Gemma, a differenza della cara Teresina,
svincolandosi dalle braccia paterne, diceva quasi piangendo: «Babbo,
non mi tocchi». «Ma pure sono tuo padre». «Sì, babbo, ma non voglio
esser toccata da nessuno».
Il babbo non se ne offendeva. Subito la lasciava, perché non la poteva
veder piangere; ma a lui pure salivano le lacrime agli occhi e si
domandava allontanandosi: «Che ne sarà mai di questa bambina?». Già
essa gli appariva creatura più angelica che terrena.
Tale, del resto, la stimavano tutti. il suo riserbo era quasi
eccessivo. Una volta un cugino, fermatosi a cavallo dinanzi alla porta
di casa, chiese della roba. Gemma, che aveva allora sei o sette anni,
corse a prenderla e gliela porse con molta bontà. Ammiratissimo, il
ragazzo stese la mano per farle una carezza; ma capitò male, ché la
bambina, respingendola con impeto, fece perdere l'equilibrio al poco
cauto cavaliere che andò a cascare dalla parte opposta e si fece male.
Ma la scontò anche la povera Gemma, alla quale la zia, per castigo,
tenne le mani legate dietro un giorno intero.
Questa bambina, che piangeva per le troppe carezze del babbo, doveva
presto piangere, e con lacrime amare, la perdita della tenerezza della
mamma di cui si era fatta piccola e amorosa infermiera, per quanto non
mancasse all'inferma vera e assidua assistenza.
Quando i medici, riconosciuta la malattia della signora Galgani,
ordinarono che i bambini venissero allontanati, la povera Gemma pianse
tanto, tanto supplicò dicendo tra i singhiozzi: «E ora lontana dalla
mamma, chi mi stimolerà a pregare e baciare Gesù?», che per lei fu
fatta un'eccezione. In seguito, quando l'assoluto e pieno abbandono
alla volontà di Dio sarà l'unica regola della sua vita, essa si pentirà
di questa fermezza nel volere, come di una disobbedienza o d'un
capriccio; invece era amore: amore di Dio e della mamma, bisogno
dell'anima e del cuore.
Infatti, che faceva Gemma accanto a quel letto? «Andavo da lei» dice,
«m'inginocchiavo al suo capezzale, e si pregava».
Quella madre era una santa. Fino a che le fu possibile, nonostante la
febbre alta e la tosse che le lacerava il petto, si recò ogni mattina
in chiesa a fare la comunione, traendo da essa forza e coraggio per
sopportare i suoi dolori e disporsi al grande sacrificio.
Fino a che le fu possibile, ogni sabato, ella condusse i suoi bambini
in chiesa, volendo che i più grandicelli si confessassero prima ancora
dei sette anni. E nel vedere i sentimenti coi quali la sua Gemma si
accostava al sacramento della misericordia e del perdono ne piangeva di
commozione.
Resa incapace di condurveli, questa vera madre cristiana ne incaricò
una persona di sua grande fiducia.
Ormai poco le restava di vita, quando le venne l'idea luminosa di
affidare la sua Gemma allo Spirito Santo. «Venendo io a mancare» ella
pensava, «saprò a chi l'ho lasciata».
Ogni sera, una delle maestre della dottrina cristiana veniva in casa a
completare l'istruzione religiosa già incominciata dalla madre, e il 26
maggio del 1885 lo Spirito Santo prese possesso di quell'anima
purissima.
Durante la Messa di ringraziamento che le sue accompagnatrici vollero
ascoltare dopo la cerimonia, Gemma, che pregava per la mamma, udì per
la prima volta una voce interna parlarle al cuore: «Gemma, me la vuoi
dare la mamma?». «Si, ma purché prendiate anche me». «No, dammela
volentieri... Tu, per ora, devi restare col babbo. Te la condurrò in
Paradiso». «Ma anch'io in Paradiso con la mamma». «Si, più tardi». «Fui
costretta a rispondere di sì» narra Gemma; «e, finita la messa, corsi
in casa. Mio Dio! Guardavo la mamma e piangevo; non potevo
trattenermi». La mamma era agli estremi.
La povera bambina, buttandosi in ginocchio accanto al letto, dette in
un pianto dirotto e si mise a pregare con tutte le forze. Inutile
volerla allontanare. Gemma vuol raccogliere l'ultimo respiro della
mamma e spera ancora di poterla seguire in Paradiso, nonostante la voce
udita e il sacrificio accettato.
Un lieve, brevissimo miglioramento riaprì il cuore alla speranza. Seguì
un peggioramento: l'ultimo. La vista di quella bambina amorosamente
fissa a quel letto di agonia raddoppiava lo strazio del povero babbo.
Un giorno però si fa coraggio, la chiama fuori di camera, e l'affida
alla cognata della morente, perché la conduca al villaggio di san
Gennaro e ve la tenga fino a nuovo ordine.
Gemma obbedisce senza fiatare; ma che strazio in quel piccolo cuore!
Era il sacrificio completo, il più doloroso fiat!
E la mamma morì il 17 settembre 1886. Morì da santa. Non aveva che
trentanove anni.
Le ultime sue parole furono queste: «Offro a Dio volentieri la mia
vita, per ottenere la grazia di rivedere e rigodere tutti i miei otto
figli con me in Paradiso».
CAPITOLO V. - «DATEMI GESÙ»
Verso Natale, il signor Enrico Galgani riunì attorno a se tutti i suoi
figli, e Gemma tornò da san Gennaro, dove aveva provato un vuoto
immenso, e comprese ancor meglio ciò che vuol dire perdere la mamma.
La zia cedette a malincuore. Aveva fatto pressione al padre perché
gliela lasciasse per sempre. Egli lottava... Se ne accorse il fratello
Gino, già stanco dell'assenza della sorellina, e vi si oppose.
In due battute, tutto fu risolto: Gemma sarebbe tornata in famiglia.
Ma che incontro! che ritorno! quante lacrime!... Oh quel primo pranzo
di Natale al quale mancava la mamma! Quel caro posto ormai vuoto per
sempre alla tavola di famiglia! Gemma, però, faceva coraggio a tutti:
«Perché piangere?... La mamma è in Paradiso, non soffre più: soffriva
tanto! »
Passate le feste, Gemma fu affidata, quale esterna, alle suore di santa
Zita (o meglio, Oblate dello Spirito Santo), le quali avevano in Lucca
un educandato e un esternato; e vi andò felice, raggiante...
L’accolse con tenerezza di madre la fondatrice stessa dell'Istituto:
suor Elena Guerra.
Quella piccola donna celava in sé la bellezza del genio, la vastità
delle vedute, la virilità dei propositi e la santità di una vita, tutta
trascorsa tra le luci e le fiamme dello Spirito di luce e di amore.
«Senza che nessuno me l'avesse raccomandata» ella scrive, «senza
letture che me l'avessero messa in onore, insomma senza quei mezzi che
si adoprano per insinuare e propagare le altre devozioni, quella allo
Spirito Santo è stata sempre piuttosto ardente nel mio cuore. Anche da
fanciulletta di pochi anni, quando mi trovavo in chiesa per la novena
di Pentecoste, sembravami essere in Paradiso. Ho sempre provato grande
afflizione vedendo che questa importantissima devozione, già sì ben
praticata dai nostri avi, è ora così dimenticata. In quel ristretto
cerchio d'azione apertomi poi dalla Provvidenza ho sempre procurato di
diffonderla... l'ho in vari momenti propagata e raccomandata».
Suor Elena Guerra scrisse moltissimo, e scrisse bene. Lo Spirito Santo
che è luce e amore le dette sollecitudini materne per ogni classe di
persone, e brame ardenti di condurle tutte al focolare della luce e
dell'amore. I suoi scritti sono pieni di celeste unzione, di sapienza e
di scienza.
Intorno a sé, in chi avrebbe dovuto aiutarla, non incontrava però che
freddezza, e doveva contenere le fiamme divampanti di un ardentissimo
zelo che di continuo la sospingeva. Ma chi la comprese, chi la secondò
fu Leone XIII.
Ella sentiva il bisogno di giungere al Papa, ma non trovava chi ve la
guidasse. Finalmente, nel novembre del 1893,in modo arcano Dio le
rivelò essere suo volere che parlasse al Pontefice... Ella gli fece
giungere allora una copia della sua novena alla festa di Pentecoste,
intitolata: «il nuovo cenacolo». Il Papa la gradi, l'ammirò, la benedì.
Suor Elena scrisse al Pontefice. La sua lettera fu accolta benissimo.
Anzi: «Se la suora ha altre cose da manifestare» aveva detto il Papa,
«scriva». A distanza di tempo, suor Elena gli scrisse dieci lettere.
Dopo la prima, Leone XIII emise un «Breve», raccomandando la novena di
Pentecoste e concedendo nuove indulgenze.
Dopo la terza, pubblicò l'enciclica: «Divinum illud munus» diretta a
tutti i vescovi del mondo cattolico, per accendere nel cuore di tutti i
credenti la più fervida devozione allo Spirito Santo.
Poi egli volle parlare con questa creatura privilegiata, e l'invitò a
una privatissima udienza che durò due ore.
Il santo Padre fu per essa di una bontà inarrivabile. «È impossibile
dir tutto...» affidò suor Elena al suo manoscritto. La sua commozione,
la sua gioia era al colmo. Il santo Padre le ricordò l'Enciclica e le
disse che gli scrivesse pure quando avesse creduto bene.
Nella sua nuova lettera suor Elena chiese al Papa che il nuovo secolo
incominciasse con un solenne Veni Creator, cantato al principio della
messa di mezzanotte. E il Papa ne emanò l'ordine.
A pie' del letto, quest'anima cara teneva sempre una bianca colomba
circondata da raggi di luce e da lingue di fuoco, dipinta da una delle
sue suore. Ora, quando la bianca colomba piombò su di lei per farla sua
preda e immergerla nell'eterna luce, la trovò nella più completa
abiezione.
Una sequela di dolori e di prove, nella quale rifulse la sua
tranquillità imperturbabile, la sua vera e profonda umiltà, la sua
serenità, la gettò nell'ultimo luogo della congregazione da lei
fondata, sostenuta e guidata a prezzo di tanti sacrifici. Di più, il
Signore le faceva provare vivo il sentimento e la convinzione della sua
inutilità. Faceva tenerezza vederla seduta in un cantuccio con la sua
calzetta in mano, passare le sue ore solitarie, estranea a tutto,
disinteressata di tutto, solo ripetendo il suo ardentissimo: Veni
Sancte Spiritus.
Quando il suggello del dolore s'infranse per lei, e si eternò l'amore,
come alla morte di Gemma, le campane suonavano l'Alleluia.
Le due tombe si trovarono per qualche tempo vicine.
Questa la madre che accolse Gemma al suo ingresso nell'Istituto.
A nove anni, Gemma ne mostrava sei, tanto era piccolina e delicata; e
non essendo ancora prevalso l'uso di ammettere i bambini alla prima
comunione, invano si struggeva di desiderio.
Non tra le sue maestre, ma tra quelli di famiglia la contrarietà era
grande, e si restava sordi all'insistente preghiera della poverina:
«Datemi Gesù, vedrete che sarò buona... non sarò più quella di prima:
datemelo, ché mi sento struggere, e non ne posso più».
Finalmente, il confessore di Gemma, e direttore spirituale
dell'Istituto Monsignor Giovanni Volpi, pose al signor Galgani questo
dilemma: o dare alla bambina il sospirato permesso, o vederla morir di
dolore. il permesso venne subito.
Allora, ella ne volle anche un altro, e l'ottenne con le lacrime. Ormai
lo sapeva: tutti i no del babbo si cambiavano in sì appena la vedeva
piangere. Ma questo sì costò immensamente al povero babbo, per il quale
era un sacrificio enorme lo stare anche un solo giorno senza la sua
Gemma. Pure, consentì che durante gli esercizi preparatori si
trattenesse all'Istituto anche la notte, né mai in quel tempo andò a
trovarla, per non turbare il suo bisogno di raccoglimento e di silenzio.
Udiamo lei stessa dirci la sua gioia.
«La sera, ottenni il permesso, e la mattina, subito andai in convento e
mi trattenni dieci giorni. In questo tempo, non vidi mai nessuno di
famiglia; ma come stavo bene! Che paradiso!... Appena fui in convento e
mi trovai contenta, corsi a ringraziare Gesù nella chiesina, e lo
pregai caldamente di prepararmi bene alla santa comunione».
Si sentì nascere allora nel cuore un gran desiderio di sapere per filo
e per segno tutta la vita di Gesù e la sua passione, per sempre meglio
conoscere colui che doveva divenire sposo dell'anima sua.
Lo espresse alla maestra ed ella, giorno per giorno, lo appagò. Ma
quando si giunse alla coronazione di spine e alla crocifissione, quella
buona suora dipinse tali scene così al vivo, che il gracile e
sensibilissimo organismo di Gemma non resse alla dolorosa impressione.
Assalita dalla febbre, dovette starsene a letto anche il giorno
seguente.
Dopo ciò, le lezioni vennero sospese.
Furono proprio le vive pitture della maestra a impressionada così, o
non piuttosto Gesù stesso, volendola preparare al dono della sua corona
di spine, dei suoi flagelli, della sua croce, e bramandola un giorno
crocifissa con sé? Sì, Gesù l'innamorava della sua passione, perché
quel dolore sentito così al vivo accendesse in lei il bisogno di
associarvisi, di ricambiarlo, di rendere amore all'amore.
Un'altra cosa che impressionò Gemma in quel ritiro fu la parola ogni
giorno ripetuta dal predicatore: «Chi si ciba di Gesù, vivrà della sua
vita». Dunque, «quando Gesù sarà con me» ella pensava, «io non vivrò
più in me, perché in me vivrà Gesù!». E moriva dal desiderio di
arrivare a poter dire presto queste parole: «Gesù vive in me».
Qualche volta, nel meditarle, passava le notti intere consumandosi dal
desiderio.
Queste parole le comprese però appieno il 17 giugno 1887 quando spuntò
finalmente il giorno tanto bramato, ed ella corse a Gesù per la prima
volta... In tal giorno ricorreva quell'anno la festa del sacro Cuore.
«Furono alla fine appagati i miei sospiri» ella dice. «Intesi allora la
promessa di Gesù: "Chi si ciba di me, vivrà della mia vita',..». «Ciò
che passò tra me e lui in quel momento, non so esprimerlo. Egli si fece
sentire forte forte alla misera anima mia. Capii che le delizie del
cielo non sono come quelle della terra. Mi sentii presa dal desiderio
di rendere continua quell'unione con il mio Dio. Mi sentivo sempre più
staccata dal mondo e sempre più disposta al raccoglimento»
L’impressione di quel giorno fu incancellabile... vi tornava sovente;
la rinnovava ogni anno, associandosi al ritiro delle comunicande, come
se ella stessa dovesse fare la prima comunione, e scrivendo al suo
direttore, ricordava spesso quella data d'amore. Chiamava la festa del
sacro Cuore, la sua festa, giorno di Paradiso, dicendosi lieta d'averlo
passato sempre con Gesù, sempre parlando di Gesù, godendo e piangendo
con lui, nel più intimo raccoglimento interno; aborrendo più del solito
i freddi pensieri del mondo, le sue massime, gli ostacoli da lui posti
all'unione.
Spesso, ella rivive la gioia del bel giorno della prima comunione,
rigusta il Paradiso.
Quando, il 16 giugno, il babbo ricevette dalla sua Gemma la cara
letterina seguente, avrà pianto di gioia.
«Caro babbo, siamo alla vigilia del giorno della prima comunione: un
giorno per me di contentezza infinita. Le scrivo questa riga sola per
assicurarla del mio affetto e perché preghi Gesù, affinché la prima
volta che viene in me, mi trovi disposta a ricevere tutte quelle grazie
che mi ha preparato. Le chiedo perdono di tante disobbedienze e di
tutti i disgusti che le ho recato: e la prego questa sera a volere
tutto dimenticare e domandandole la sua benedizione mi dico aff.ma
figlia Gemma».
CAPITOLO VI. - I PRIMI PASSI
I primi passi di Gemma nella via della perfezione non furono
contrassegnati da una grande disinvoltura.
Tutto in lei tradiva una soverchia tensione e un certo sforzo. In
seguito, ella saprà meravigliosamente accordare le naturali
inclinazioni al raccoglimento e al silenzio con le esigenze della
carità più delicata e squisita; ma sulle prime no.
Vi fu chi la ritenne di carattere alquanto chiuso, di parlare conciso,
di fare risoluto e qualche volta apparentemente sgarbato. Alcuni la
dichiararono altera e superba. I più benevoli la ritennero timida; i
meno, poco meno che stupida.
Gemma sorrideva all'accusa di superba. «Che vuol dire superba?»
rispondeva; «neppure ci penso; non rispondo, perché non so che dire: e
poi, non so se rispondo male o bene, e perciò mi sto zitta e addio».
«Per lei, il sì era sì, il no era no» dice il suo direttore spirituale;
«bianco il bianco, e nero il nero».
Complimenti non seppe mai farne, né desiderò di piacere alle creature:
«O che ho da piacere alla gente io?» diceva. «Stupida sono, purtroppo:
e che fa se la gente mi tiene per quel modo che sono? Del resto, a me
non importa». Questa risposta, sotto forma un po' rude, rivela umiltà,
superiorità d'animo, noncuranza delle dicerie degli uomini, e nessuna
brama di apparire ai loro sguardi.
Ciò che, pur facendola sorridere, la conduceva a ben esaminare se
stessa, era l'accusa di superba.
La prima volta che fu tacciata di superbia, lo fu dalla superiora,
forse dopo qualche rapporto di una suora che non comprendeva affatto la
bambina.
Tornata a casa, Gemma disse alla zia: «Mi ha detto la superiora:
Gemmina, Gemmina, hai fatto stamane un atto superbo. Zia, come sono
fatti gli atti superbi?... me lo spieghi lei cosa vuol dire fare un
atto di superbia; io non lo conosco questo peccato». «Fattelo spiegare
dalla superiora», disse la zia. Gemma obbedì. Alle spiegazioni della
superiora: «Madre» domandò stupita, «ma io l'ho fatto questo atto di
superbia?».
Dinanzi a tanto candore e a tale ingenuità, la superiora comprese
tutto: la rassicurò, e alla zia poi disse: «No, no, l'ho fatto apposta,
Gemma non ha commesso nulla. Viene a scuola, è buona, studia bene».
La sera, tornando in famiglia tutta contenta, Gemma disse: «No, no, non
ho commesso niente, però sono contenta di conoscere anche questo
peccato».
Per comprendere Gemma, bisogna conoscerla, cercare in quel cuore il
perché dei suoi silenzi, delle sue risposte brevi e concise, del suo
quasi eccessivo riserbo.
Chi la conobbe e comprese a meraviglia fu suor Giulia Sestini, anima di
grande spirito d'orazione e molto cara a Gemma.
Suor Giulia era succeduta nella confidenza della bambina a suor Camilla
Vagliesi, una delle prime compagne della fondatrice: quella suora che,
narrandole la passione, l'aveva tanto commossa e, riprese le lezioni
interrotte, ben spesso confondeva le sue lacrime con quelle di Gemma,
al pensiero dell'amore dimostratoci da Gesù nel patire tanto per noi.
«Gesù è contento di te» soleva dirle; «ma hai bisogno di tanto aiuto!
La meditazione sulla sua passione deve essere per te la cosa più cara.
Oh, se ti potessi aver sempre con me!». Quella cara suora pareva aver
intuito la vita di dolore di Gemma, le grazie singolari di cui Dio
l'avrebbe arricchita, e parve lasciare in eredità a suor Giulia il suo
affetto, la sua materna sollecitudine.
Questa teneramente seguì la bambina, la studiò, l'aiutò:
«Gemma, Gemma» le diceva talvolta, «se non ti leggessi negli occhi, non
ti conoscerei e penserei anch'io come le altre». Non fermandosi alle
sole apparenze, ella comprese che Gemma era un anima molto cara a Dio,
un'anima nascosta che accoppiava all'ingenuità infantile una soda
pietà, una grande attrattiva per la meditazione e per la parola di Dio
in generale.
La vedeva, infatti, stare in cappella come un angelo, senza
ostentazioni, ma con un contegno sempre uguale, tutta assorta in Dio.
Mai che girasse la testa di qua e di là o bisbigliasse con le compagne.
Ciò che Gemma dirà in seguito, avrebbe potuto dirlo fin da quell'età:
«Per me, in questo mondo non c’è che Dio; a me basta che sia contento
lui». «Le sue aspirazioni, il suo contegno, la facevano sempre unita
con Dio» afferma suor Giulia, «e tutto ciò che diceva, faceva o
pensava, tutto era di Dio». «Oh com'è brutto quaggiù» esclamava spesso
alzando gli occhi al cielo; «com'è bello lassù!».
Sì, com'è brutto quaggiù. E su questa povera terra, ella quasi non
posava il piede per timore d'infangarlo. Sant'Agnese, san Luigi, santo
Stanislao, sant'Antonio che soleva chiamare «l'amico di Dio», le erano
tra i più cari.
Tutto in lei spirava purezza. Mai uscì da quelle labbra di bambina o di
giovinetta una parola leggera o che potesse offendere o ledere anche
minimamente una così cara virtù.
Se suor Giulia rifuggiva dal credere Gemma superba, era perché l'aveva
vista alla prova.
Come accade tra bambine, a volte qualcuna, per scansare un castigo,
incolpava Gemma d'inconvenienti accaduti in classe. Ne seguivano
minacce e castighi. Senza una parola di scusa o di difesa, ella
lasciava fare, contenta di aver qualcosa di ignorato dagli uomini da
offrire a Dio.
«Ma perché non ti giustifichi?» le diceva talora suor Giulia, che
soffriva al vederla ingiustamente punita. «Perché non lo dici alla
maestra di lavoro?». «Lasci correre» rispondeva
Gemma, «è meglio così». Non avrebbe agito diversamente, se fosse stata
superba?
Così pure non godeva dei suoi piccoli trionfi (belle votazioni,
magnifici esami); se vedeva che altre non erano promosse: «Avrei voluto
che fossero promosse tutte! Allora sarei stata contenta anch'io» diceva.
Inoltre, ella non commise mai una disobbedienza, e bastava un cenno per
richiamarla al dovere.
Durante il carnevale, ella pure prendeva parte alle commedie; ma lo
faceva solo perché lo voleva l'obbedienza, non perché vi avesse
attrattiva. Recitava con modestia, ma con grazia e disinvoltura.
Suor Giulia narra, a questo proposito, un episodio commovente. Un
giorno, si facevano le prove per le rappresentazioni, quando ad un
tratto arriva la superiora e, accostandosi ad essa, le dice di pregare
tanto per una persona che, negli ultimi istanti della sua vita,
rifiutava i sacramenti. Che contrasto tra quella notizia dolorosa e la
lieta spensieratezza di quelle fanciulle.
Suor Giulia, impressionata, sospende la prova, le fa tutte
inginocchiare e le mette in preghiera. Gemma la colpisce col suo
profondo raccoglimento. Finita la preghiera, questa si rizza, s'accosta
alla suora, e piangendo le dice all'orecchio: «La grazia è ottenuta».
La sera stessa, giunse la notizia della sincera conversione di
quell'anima, spirata con tutti i conforti religiosi.
La cosa ha dello straordinario?
Quando si trattava di fare dei «fioretti» in preparazione a qualche
festa, Gemma vi poneva un ardore da destare l'ammirazione delle stesse
compagne, specialmente quando si doveva onorare la Madonna, che ella
chiamava «Mamma del Paradiso».
A volte la maestra proponeva qualche atto di mortificazione alle
alunne, spiegando loro quanto potessero acquistare moltiplicando questi
atti. «Oh che ricchezza! che ricchezza!» diceva Gemma. «Possiamo andare
in Paradiso ricche sfondate...», e soggiungeva: «Gemma non è buona a
nulla; ma Gemma con Gesù può tutto» e così s'animava a superare ogni
ostacolo. Grande ardore poneva pure nell'adornare l'altare della
cappella e delle classi.
Durante la Quaresima, nell'Istituto di santa Zita, si soleva fare alle
bambine la spiegazione della passione di Gesù. Gemma ne era
insaziabile, e più volte suor Giulia la vide piangere. Un giorno,
alzandosi in piedi con un'altra bambina: «Dove legge queste cose?»
domandò; vorremmo procurarci il libro per studiarcele e meditarcele di
più».
Un giorno, suor Giulia consigliò alle bambine cinque minuti di
meditazione la mattina e cinque di esame la sera; ma da un sorrisino,
che sfiorò le labbra di Gemma, capì che quei cinque minuti le erano
sembrati troppo pochi. Infatti, interrogandola poi, comprese che nella
meditazione lei si tratteneva molto di più.
Come santa Teresina, alla maestra che le domandava: «E che fai in tutte
quelle ore che passi in camera?», Gemma avrebbe potuto rispondere:
«Signora, io penso!». Ed era questo bisogno di pensare e di pensare al
cielo, che nelle ricreazioni le faceva preferire al chiasso delle
compagne la solitudine e il passeggiare tranquillamente, ascoltando la
maestra o qualche compagna maggiore parlare di Dio.
A volte però, anzi spesso, le bambine la chiamavano: «Ma che fai,
Gemma? Vieni con noi», e suor Giulia le diceva: «Vai, non renderti
singolare». E Gemma andava contenta; ma gli sguardi frequenti,
frequentissimi, che dalla porta della cappella spesso socchiusa
lanciava verso il tabernacolo, rivelavano chiaramente dove fosse il suo
cuore. E se la porta era chiusa «con la fede si sfonda tutto»,
esclamava, «e con l'amore si sta incatenati con Gesù».
Un giorno, suor Giulia fece tirare a sorte con gli stecchini a chi
delle bambine toccasse farsi santa: lo stecchino più lungo toccò a
Gemma che dalla gioia fece un salto dicendo:
«Sì, mi farò santa!». E santa veramente si fece.
CAPITOLO VII. - BUIO E SERENO
Fino ad allora, le relazioni tra Gesù e l'anima di Gemma erano state
tutte relazioni d'amore, di dolcissimo, vicendevole amore, senza
oscurità, senza nubi. Nell'anima di Gemma sempre sereno, mai tempesta.
Ma non è questa la via abitualmente tenuta dal Signore, almeno con le
anime a lui più care e da lui destinate a gran santità. La gioia
costante, la costante dolcezza spirituale non può essere retaggio degli
uomini di un Dio crocifisso, e delle spose di uno sposo di sangue.
Gesù nel Getsemani e sulla croce provò tutte le ripugnanze della
natura, tutte le stanchezze, le noie, i timori, tutte le agonie dello
spirito, del cuore, del corpo. Chi veramente lo ama, deve seguirlo per
questa via.
Per lo più, l'ora della prova suona improvvisa. L’anima piomba come nel
buio. Gesù, vera luce, unica vera luce, si nasconde:
l'anima si sente sola; la lotta si fa intensa.
Questo penosissimo stato, per Gemma, durò un anno intero.
Ma Gemma sta salda e trionfa. La meditazione e la preghiera non hanno
più per lei la minima attrattiva. Ma che importa? Pur soffrendo, si
pone come sempre a meditare e pregare, senza abbreviare tali esercizi.
Durante questa lotta, spiccano meravigliosamente in Gemma la fede e
l'amore, e in lei si manifesta chiara una volontà ferrea, una
generosissima fedeltà. Ella procede tranquilla per la via del dovere,
senza gusti, senza conforti, malgrado tutto ciò che esternamente
avrebbe potuto giustificare in lei un diverso modo d'agire.
Quando, dopo un anno, il cielo buio tornò a farsi sereno, e Dio tornò a
inondarla della sua luce e degli ardori della sua carità, l'anima di
lei gustò veramente l'unione. Ella si sentì ancora più di Dio, e tutto
parve aver acquistato in lei nuova energia.
Anche in casa, le cose cambiarono. Circostanze speciali vi condussero
due zie, anime buone e devote che l'accompagnavano volentieri in
chiesa, parlavano volentieri con lei di cose sante, sicché, per un po'
di tempo, Gemma poté credersi tornata ai bei tempi in cui viveva la
mamma.
Seguì allora gli esercizi spirituali all'Istituto di santa Zita,
traendo dalle prediche molta luce.
Non si creda però che una vita spirituale e interiore così intensa le
ostacolasse il progresso negli studi. I premi riportati da Gemma ogni
anno, il gran premio d'oro in religione, ottenuto nell'anno scolastico
1893-1894; e i componimenti in versi, in prosa, i saggi di aritmetica e
di francese che le facevano esporre nelle mostre dei lavori, stavano a
dimostrarlo chiaramente.
Tredici anni dopo che Gemma ebbe abbandonato l'Istituto, la fondatrice
così scrisse a padre Germano di santo Stanislao: «Il mio povero cuore,
quantunque oppresso da molte angustie, esulta sapendo che la P. V.
Rev.ma lavora per dar gloria a una mia santa alunna, Gemma Galgani.
L'ebbi per circa due anni nella classe della quale mi occupavo allora e
posso attestare che non ebbi mai occasione di lamentarmi della sua
condotta. Era molto silenziosa e molto obbediente».
CAPITOLO VIII. - «SÌ, HO SOFFERTO MOLTO»
Nel 1894, il fratello Gino aveva 18 anni. Chiamato al sacerdozio, già
aveva ricevuto gli Ordini minori, e tutto faceva prevedere che sarebbe
divenuto un ottimo sacerdote. Tra Gemma e lui, comprensione perfetta,
perché le loro aspirazioni erano le stesse: non volevano che Dio, non
amavano che Dio, non cercavano e non chiedevano che l'estensione del
suo regno d'amore.
Ma i progetti di Dio sono diversi da quelli degli uomini! Nel giovane
in cui gli uomini vedevano un sacerdote futuro, Dio vide una vittima
che gli avrebbe dato più gloria col profumo del suo olocausto, che non
col suo zelo apostolico. Come tale, quindi, l'accolse nel bel fiore dei
suoi diciotto anni... Egli aveva purtroppo ereditato la malattia della
madre.
Gemma era la sua inseparabile compagna.
Quando la sapeva in casa, l'infermo non voleva che lei accanto al suo
letto.
Noncurante del pericolo, ella vi passava i giorni e le notti, senza
badare a stanchezza e a fatica, pur di vederlo contento e di sostenerlo
nel grande passaggio.
Fosse conseguenza dell'immenso dolore (ella stessa lo disse: «Sì, ho
sofferto molto»), o del grande strapazzo, Gemma si ammalò e stette
malata tre mesi, rasentando la tomba.
Si vide allora il povero padre, che nulla risparmiava pur di averla
salva, piangere desolatamente offrendo a Dio la sua vita in cambio di
quella dell'amata figliola.
Ma, povero padre! Dio lo destinava a nuove terribili croci! Padre di
una figlia crocifissa, doveva a sua volta essere crocifisso nel cuore e
nell'anima.
Vide Gemma guarita, e questa fu per lui una grande consolazione; ma lo
fu pure per Gemma? Udiamo lei stessa: «Dal momento che la mamma
m'ispirò il desiderio del Paradiso, l'ho sempre desiderato; e se Dio
avesse lasciato a me la scelta, avrei preferito di sciogliermi dal
corpo, e volarmene al cielo. Ogni volta che mi sentivo male, era per me
una consolazione, ma era anche un gran dolore, quando sentivo crescermi
le forze. Anzi, un giorno, dopo la comunione domandai a Gesù perché non
mi prendesse in Paradiso. "Figlia"
mi rispose, "perché nel
tempo della tua vita ti darò tante occasioni di merito maggiore,
raddoppiando in te il desiderio del cielo, dandoti la grazia di
sopportare con pazienza anche la vita" ».
Infatti, sempre anelando al cielo, Gemma doveva provare tutti i dolori
della terra, doveva associarsi a quelli di Cristo, sperimentare che
questo mondo è un esilio, una valle di lacrime, e che le anime sono
prezzo d'infinito dolore.
Per quanto guarita, Gemma rimase così debole, che i medici le fecero
interrompere gli studi e lasciare l'Istituto con suo gran dispiacere.
In casa, l'attendeva la missione di educatrice delle sorelle e di
angelo dei fratelli. Vi si dette con amore avvalorandolo con la
preghiera. Non fu senza molte spine, ma questa cara espressione del
fratello maggiore dice tutto:
«Gemma portò sempre il ramoscello d'olivo».
Quando poi usciva di casa, era un correrle incontro di poverelli che
lei chiamava «i suoi cari amici». Essi sapevano per esperienza che mai
si ricorreva invano a quella cara giovanetta dall'abito dimesso e dal
volto angelico.
Infatti, dava tutto, e se non le avessero messo un freno, se non fosse
venuta l'obbedienza a intimare: «Fin qui e basta!», Gemma avrebbe dato
fondo anche al guardaroba.
Ma venne presto un giorno in cui il babbo non le dette più nulla per i
suoi poveri. Gemma ancora non lo sapeva; ma anche lui era divenuto
povero, o almeno lottava tra difficoltà, ma invano, per non divenirlo
del tutto. Gemma, allora, soffrendo di non aver nulla da dare ai
poveri, dava loro le sue lacrime, ed essi egualmente la benedicevano,
perché era insolito che qualcuno piangesse sulle loro miserie.
CAPITOLO IX. - UN ANNO DI DOLORE ECCEZIONALE
Al tramontare del 1895 Gemma guarda in faccia l'anno che sta per
sorgere... Lo sente velato di mistero e scrive: «Che mi accadrà in
quest'anno? Non lo so. Mi abbandono in voi, o mio Dio: tutte le mie
speranze ed i miei affetti saranno per voi. Mi sento debole, o Gesù, ma
nel vostro aiuto spero, e risolvo di vivere in altro modo, cioè a voi
più vicina».
Il nuovo anno arrivava, infatti, carico di dolori. Dopo le piccole
croci dell'infanzia, erano venute le grandi con la morte del fratello e
con la sua malattia: ora verranno le grandissime.
Prima di tutto, una terribile necrosi o carie dell'osso che le dava
sofferenze atroci a un piede. Volle sulle prime sopportare
silenziosamente quel male; ma oltre il diffondersi della carie, accadde
un'altra cosa imprevista che glielo rese impossibile. Un giorno una
panca di legno le cadde sul piede malato, schiacciando un ascesso che
vi si era formato. Fu necessario l'intervento chirurgico col profondo
raschiamento dell'osso. Gemma non volle essere addormentata. Tutti
rabbrividirono: essa sola mantenne la sua meravigliosa tranquillità.
Tenendo gli occhi al crocifisso che aveva dinanzi, traeva forza da
quella vista. Solo nel punto più doloroso dell'operazione le sfuggì
qualche gemito, del quale tosto chiedeva perdono moltiplicando gli atti
di amore. Aveva tanto chiesto di patire, e si sentiva felice di vedersi
esaudita. I medici non poterono celare la loro ammirazione.
A ciò tenne dietro un dolore d'altro genere.
Il babbo di Gemma era farmacista. Per lunghi anni, la benedizione di
Dio sugli interessi di lui fu evidentissima; ma venne l'ora della
prova. Il signor Galgani, che era tanto buono, si fidava di tutti,
tutti misurando a sé. Come avrebbe supposto l'inganno? Ma la malafede
c'era purtroppo, ed egli ne fu vittima. Di più, le lunghe malattie
della moglie, dei figli, ed altre sventure avevano molto assottigliato
il patrimonio. Venne la volta della scadenza delle cambiali non pagate.
Egli dovette assistere al sequestro di tutti i suoi beni, mobili e
immobili... e veder la famiglia nella miseria.
Che ne sarebbe stato di quell'uomo, se non avesse avuto a sostegno la
fede?. Che ore d'angoscia, che doloroso avvilimento! È terribile il
solo pensarlo.
Poco dopo, egli si ammalò di un cancro alla gola. Gemma, ancora
convalescente, era quasi sempre al suo letto, animandolo,
incoraggiandolo, disponendolo a ben morire e a ricevere gli ultimi
sacramenti; ma guardando tutto con occhio soprannaturale, era la sola
che restasse tranquilla in tale sbigottimento e fra tante lacrime; era
la sola che potesse rianimare i cuori abbattuti, e tutti confortare nel
buio della prova. L’eroismo che mostrò in tale circostanza fu sublime,
per quanto volesse celarlo.
«Entrammo nel 1897, anno tanto doloroso per tutta la famiglia» ella
scrive; «io sola, senza cuore, rimanevo indifferente a tante disgrazie.
La cosa che maggiormente rattristava gli altri fu il restare privi di
tutti i mezzi, e per giunta la grave malattia del babbo. Capii una
mattina la grandezza del sacrificio che voleva presto Gesù; piansi
assai; ma egli, in quei giorni di dolore, si faceva tanto sentire
nell'anima mia, e anche dal vedere il babbo tanto rassegnato a morire
trassi forza sì grande, che sopportai l'acerba disgrazia assai
tranquilla».
Quando il padre spirò, Gemma non era presente. Il dottore di casa, uomo
di gran cuore, andò in camera e le disse:
«Gemma, ho da darti una notizia». «Come sta il babbo?», domandò questa
trepidante. «Il babbo è in Paradiso», rispose il dottore. Gemma svenne
a queste parole.
Riavutasi, versò molte lacrime; ma il Signore che la voleva eroica, le
proibì di perdersi in pianti inutili, ce lo dice ella stessa, e quel
giorno lo passò pregando e assai rassegnata al santissimo volere di
Dio, che in quell'istante prendeva le veci di padre celeste e terreno.
«Dopo la morte del padre» conclude «ci trovammo senza niente, non
avevamo di che vivere!...»
Gemma, sempre sobria nelle sue descrizioni, non dice ciò che avvenne
appena suo padre, di soli cinquantasette anni, ebbe chiuso gli occhi
alla vita, lasciando nel pianto sette figli e due sorelle: ma quell'ora
tragica, in cui i creditori fecero correre agenti a chiudere la
farmacia e sequestrare in casa i pochi mobili che ancor rimanevano,
frugando anche in tasca a Gemma per portare via le due lire che aveva,
lasciò in lei un'impressione così tremenda, che, nelle terribili
allucinazioni e negli incubi con i quali furono provati i suoi ultimi
giorni, ella credette di rivivere quelle ore, di rivedere quei ceffi
senza cuore, oppressori di mestiere, aggirarsi per la casa noncuranti
del dolore che li circondava.
CAPITOLO X. - «SORELLA MIA»
Gemma aveva allora diciannove anni e mezzo.
Una zia, la signora Lencioni, persona agiata di Camaiore, volendo
toglierla da quel dolorosissimo ambiente e da tanta miseria, la
condusse con sé.
Per quanto circondata, nella nuova famiglia, dal massimo affetto,
tuttavia il cuore di Gemma era volto al suo povero babbo, alla
desolazione della sua casa, e tanto più soffriva, nell'intimo del
cuore, della poca libertà che aveva di darsi ai suoi quotidiani
esercizi di pietà, quanto più allora doppiamente ne sentiva il bisogno.
Inoltre, lei così silenziosa, così ritirata, così bisognosa di parlare
di Dio, doveva adattarsi alla futilità delle conversazioni di questo
povero mondo, vedere gente, fare visite, ecc.
Gemma non era molto a1ta né molto slanciata, ma graziosissima,
attraente, con tratti fini, occhi grandi e luminosi, un sorriso
incantevole, un'espressione di volto dolcissima e una soave carnagione.
Piaceva.
A Lucca fu pedinata e chiesta da un giovane ufficiale di cavalleria; ma
appena lo seppe, non volle più passare per le strade dove poteva
incontrarlo. A Camaiore, destò le simpatie di due giovani, uno dei
quali di buona famiglia, e questo parve un partito provvidenziale.
Tutti le facevano pressione, lei ne fu disperata. La zia non era in
grado di comprendere i motivi del suo rifiuto, e Gemma si rivolse a Dio
perché la togliesse di là. Dio l'esaudì.
Improvvisamente assalita da forti dolori ai reni ed alla spina dorsale,
chiese di essere ricondotta a casa. La zia non voleva. Mandarla a
soffrire la fame in una famiglia desolata?
Ma Gemma insisté con lacrime, e fu esaudita. Tutti quelli di casa
piansero vedendola partire, persino lo zio, uomo rude e difficile a
commuoversi. Lei tanto buona e cara aveva il dono di spargere attorno
un soffio di pace che non è terrena.
Giunta a casa, il male si aggravò. Tentò di dissimularlo ma presto
dovette darsi per vinta.
Ai dolori vennero pian piano ad aggiungersi l'incurvamento della
colonna vertebrale, spaventosi disturbi di meningite, poi perdita
totale dell'udito, caduta di tutti i capelli e, finalmente, paralisi
delle membra.
Le preoccupazioni di Gemma non erano però le grandi sofferenze né ciò
che poteva derivarne: non temeva che le visite mediche. Da piccola
aveva sentito dire che il nostro corpo è tempio dello Spirito Santo, e
come tale va rispettato. Queste parole l'avevano talmente innamorata
della purezza da spingere all'ultimo limite le sue precauzioni. Mai,
nelle sue tante sofferenze, volle rendersi conto da che provenissero; e
ora, mettersi nelle mani dei medici le ripugnava moltissimo. Cedette
però al comando espresso delle zie, e fece dono a Dio del sacrificio.
Il medico curante di Gemma, nella prima visita, trovò un grande ascesso
nella regione lombare, e pareva comunicasse con uno dei reni. Volle un
consulto. La diagnosi: tabe spinale di natura assai grave e
difficilmente curabile. Al primo ascesso, ne succedette un secondo. I
medici fecero ad essi ripetute aperture e iniezioni con glicerina
iodoformica, e il medico curante dichiarò che Gemma aveva sopportato
tutto con molta pazienza.
Frattanto, i rimedi ne peggioravano lo stato. Incapace del minimo
movimento, giaceva sempre nella stessa posizione, fino a che qualche
anima buona non le venisse in soccorso.
Questa terribile infermità durò circa un anno. Quanti sacrifici in
quella povera famiglia, per assistere, curare, aiutare l'inferma!
Quanti debiti!... Si giunse presto al punto che nessuno voleva più dare
in prestito neppure un soldo; e non di rado accadeva che non si potesse
apprestare all'inferma neppure il più comune dei cibi. Molte persone
venivano a visitarla: buone e ricche signore, religiose, compagne di
scuola; tutta gente che, avendo udito parlare dell'eroica giovane,
voleva edificarsi ai suoi esempi. Sarebbe bastata una parola. Ma, tra
le miserie, la più dolorosa è la cosiddetta miseria dorata; i più
miserabili, i più da compiangere sono i poveri vergognosi, che, un
tempo benestanti, non sanno, non osano tendere la mano ed esporre le
loro miserie. Nessuno supponeva che in quella casa regnasse la povertà
più squallida, e quindi nessuno aiutava.
Gemma soffriva e si preoccupava molto del suo stato, non per sé, ma per
le sofferenze dei suoi, per i terribili disagi che loro procurava la
sua lunga malattia.
Il Signore, volendola distaccata anche da questo sentimento umano, per
quanto giusto, venendo a lei nella comunione, una mattina la rimproverò
severamente: «Se tu fossi
morta a te stessa, non ti turberesti così». Da quel
momento Gemma rimase indifferente a quanto le accadeva intorno.
Ma il demonio non se ne stava ozioso, e un giorno che la povera
figliola languiva sola soletta, l'assali con pensieri di sconforto e di
cupa malinconia, che le fecero apparire la vita insopportabile.
Oppressa, turbata, agitata, sentì il nemico avvicinarlesi al cuore con
le sue perfide suggestioni: «Se
darai ascolto a me, ti toglierò da tante pene, ti guarirò certamente, e
ti farò felice». Lo sconvolgimento interno, non mai
provato fino a quel giorno, avvertì la giovane che si trattava di
suggestione diabolica; si ricordò di san Gabriele dell'Addolorata,
passionista di cui, poco tempo prima, una signora le aveva prestato la
biografia, e che i suoi di casa pregavano per lei. Lo invocò
fervorosamente, e, per opporsi alla tentazione, gridò forte: «Prima
l'anima poi il corpo».
Si ripeté la tentazione: di nuovo Gemma invocò il giovane santo, si
armò del segno della croce, e la calma tornò perfetta, anzi lei si
trovò più di prima unita con Dio.
Sperimentata l'efficacia della protezione del santo, Gemma si ricordò
della sua biografia, accolta con poco entusiasmo e riposta sotto il
capezzale; la prese, la lesse, la rilesse, fu presa da tanta fiducia e
meraviglioso trasporto verso il santo giovane, col quale l'anima sua
aveva molti punti di contatto, che la sera non poteva addormentarsi se
non ne aveva l'immagine sotto il capezzale. Non solo; ma incominciò a
sentirselo sempre vicino, e qualunque cosa facesse, san Gabriele le
tornava alla mente.
La signora che le aveva prestato il libro venne a riprenderlo; ma
vedendo spuntare a Gemma le lacrime, glielo lasciò ancora per un poco.
Finalmente, lo rivolle. Per la povera inferma fu un vero sacrificio. In
compenso, la notte stessa, il santo le apparve in sogno, le domandò
perché avesse pianto, e poi amorevolmente le disse: «Sii buona, ché tornerò a vederti».
Gemma rimase con un ardentissimo desiderio del cielo.
Tra le più assidue a visitarla, v'erano le sue care educatrici, le
suore di santa Zita, e le suore di san Camillo de' Lellis, o ministre
degli infermi, conosciute a Lucca sotto il nome di «Barbantine» dal
cognome della loro fondatrice. Queste buone suore conducevano spesso da
Gemma or l'una or l'altra delle loro novizie, pensando, e con ragione,
che dovesse loro giovare il vedere come soffrono i santi.
La vigilia dell'Immacolata del 1898, ecco venire una probanda, che non
aveva ancora potuto rivestirsi del santo abito, perché troppo giovane.
Gemma nel vederla si commosse: forse le parve vedere un angelo, e
quella vista le accese vivo in cuore il desiderio di seguirla. Lo disse
a suor Leonilda, maestra delle novizie, ed ella promise che, appena
guarita, l'avrebbe accolta e vestita insieme a quella novizia.
Gemma ne fu felice. Ne parlò a monsignor Volpi, venuto il giorno stesso
a riconciliarla, e non solo ne ottenne il consenso, ma, con somma
facilità, anche quello mai ottenuto fino allora, di emettere il voto di
verginità. Quella sera stessa nelle mani di lui lo emise in perpetuo.
«Finalmente, aveva toccato il colmo dei suoi desideri» dice padre
Germano di santo Stanislao, suo primo biografo. «Una calma dolce e
soave le posava sull'animo quella sera, e col desiderio acceso
precorreva l'ora del mattino, in cui, nella comunione, si sarebbe unita
a Gesù e avrebbe fatto alla madre celeste la bella promessa di entrare
in convento. Con tali pensieri nell'anima, un placido sopore le invade
le addolorate membra, ed ecco farsele innanzi il caro suo protettore
san Gabriele dell'Addolorata e dirle così: "Gemma fai pure volentieri
il voto d'essere religiosa, ma non vi aggiungere altro"». Gemma ne
domandò il perché, e il santo si limitò a risponderle: «Sorella mia!».
Questo titolo diceva tutto. Gemma non lo comprese.
In segno di riconoscenza, gli baciò l'abito, ed egli, togliendosi il
simbolico cuore che i passionisti tengono sul petto e posandolo sul
cuore di lei: «Sorella mia» ripeté, e sparì. Era tutto il mistero della
vita di Gemma, espresso in questa parola e in questo gesto. Gemma,
passionista nel desiderio non potendolo essere in effetti per cause
indipendenti dalla sua volontà, fu veramente sorella del santo; e la
passione di Cristo fu l'unico palpito del suo cuore, vita della sua
vita. La comunione che seguì quel sogno profetico, l'emissione del
voto, furono per Gemma una festa di cielo.
Il 4 gennaio del 1899, i medici tentarono un'ultima prova:
l'operazione dell'ascesso ai reni, e l'applicazione di dodici bottoni
di fuoco alla colonna spinale. Anche questa volta, però, Gemma non
volle farsi addormentare, perché contenta di soffrire, e per poter
vegliare da sé alla custodia del suo corpo il male non cedette, anzi si
accrebbe, essendosi aggiunto un tumore al capo che procurava
all'inferma dolori spasmodici. Lo stato di estrema debolezza di Gemma
non permetteva un intervento chirurgico. I medici videro il caso
disperato.
Il 2 febbraio Gemma si confessò, si comunicò, e tranquillamente aspettò
la morte. Credendo che più non capisse, i medici dissero che non
sarebbe arrivata a mezzanotte. Invece, quel debole soffio di vita
doveva prolungarsi ancora. Gemma doveva guarire.
CAPITOLO XI. - «VUOI GUARIRE? PREGA CON FEDE IL CUORE DI GESÙ»
Un medico straordinario aveva giudicato la spinite di Gemma paralisi
isterica, e naturalmente si riprometteva di guarirla col mezzo
dell'autosuggestione. Bisognava tentare. Era necessaria a ciò una
persona che godesse la piena fiducia di Gemma, e avesse su di lei
grande ascendente. Fu presto trovata: monsignor Volpi, al quale Gemma
obbediva come un agnellino, e che ne aveva tutta l'anima nelle mani.
L’ordine formale di una novena di preghiere, con la certa promessa, o,
meglio, con l'assicurazione che l'ultimo giorno di essa sarebbe
guarita, era proprio quello che ci voleva. Egli pensava così.
Ma chi conosce monsignor Volpi, sa che il suo fascino egli lo limita ad
attrarre a Dio le anime per la via dell'amore; non tenta d'imporsi ad
esse, di soggiogarle, d'impadronirsi della loro volontà per sostituirvi
la sua.
Infatti, «accettai la proposta del medico» egli depone, «ma non
interamente convinto che si potesse ottenere l'effetto da lui sperato;
e piuttosto, nel mio interno, mi proposi di ottenere un miracolo per
intercessione della beata Margherita Alacoque, della quale desideravo
la canonizzazione».
Questa disposizione d'animo va tenuta ben presente in tutto lo
svolgimento dell'episodio, come pure quest'altra di Gemma dichiarata da
un testimone degno di fede: «Ella mi diceva che di guarire non gliene
importava; ma che se Gesù era contento che guarisse, era contenta anche
lei».
Per l'autosuggestione sono indispensabili, tanto in chi suggestiona
quanto in chi deve lasciarsi suggestionare, convinzione profonda e
volontà ardente. Ora, queste disposizioni mancano a Monsignore e a
Gemma. Sono due anime che non contano sui mezzi umani, ma guardano il
cielo: l'uno per desiderare la glorificazione di una santa e chiedere
un miracolo per intercessione di quella; l'altra per non cercare che il
volere di Dio e a quello abbandonarsi, senza bramare né una cosa né
l'altra.
Ebbene, il 19 febbraio, ecco Monsignore venire da Gemma, e dirle
d'incominciare una novena in onore della beata Margherita Maria,
chiedendo al sacro Cuore, per intercessione della sua prediletta
discepola, la grazia di guarire, assicurandola, certo a fior di labbra,
che alla fine di essa l'avrebbe ottenuta. Gemma non si commosse molto a
questa prospettiva. Piuttosto la speranza del cielo, che il pensiero di
restare quaggiù sulla terra, era atto a far vibrare quell'anima tutta
di Dio. Restare quaggiù, lo subiva; andare in cielo, lo desiderava
ardentemente.
Più che dalle parole di Monsignore, si sarà sentita commossa da quelle
di una sua antica maestra, suor Giulia Sestini, venuta, non si sa se
prima o dopo di lui, a raccomandarle la stessa novena, concludendo che
la beata senza dubbio le avrebbe fatta la grazia o di guarire
perfettamente, ovvero, appena spirata, di volare subito in cielo.
Questa seconda prospettiva sarebbe stata capace di affievolire in Gemma
anche il più forte desiderio di guarigione, tanto più che sapeva che
suor Giulia era venuta più che altro per dirle: «Arrivederci in
Paradiso».
Ma, a questo punto, la volontà di Gemma era languidissima, e ciò è
provato dal fatto che, il secondo giorno della novena, dimenticò di
farne le preghiere. Le ricominciò il terzo per dimenticarle il quarto.
Stabilì di ricominciarle il sesto giorno, il 27 febbraio; ma la notte
era inoltrata, e ancora non le aveva recitate. Non agisce così chi
vuole veramente guarire.
Il Signore stesso s'incaricò però della cosa.
Mancano pochi minuti alla mezzanotte, e Gemma sente dimenare una
corona, poi una mano lievemente posarsi sulla fronte, e una voce
celeste intonare per nove volte consecutive il Padre nostro e l'Ave
Maria.
Gemma, sfinita dal male, appena risponde.
«Vuoi guarire?
» interroga la voce. Ma, sempre coerente a se stessa, Gemma, con quella
semplicità tutta propria delle anime abbandonate in Dio, dice: «E’
stesso».
«Si, guarirai: prega con
fede il cuore santissimo di Gesù» soggiunse il celeste
interlocutore. «Ogni sera
fino a che non sarà terminata la novena, io verrò qui da te e
pregheremo insieme il cuore di Gesù». «E la beata Margherita?»
domandò Gemma. «Aggiungi
pure tre Gloria Patri in suo onore».
Era san Gabriele passionista. «Egli seguitò infatti a venire ogni sera»
dice Gemma, «e mi posava al solito la mano sulla fronte e si recitava
insieme il Padre nostro al cuore di Gesù, facendomi aggiungere tre
Gloria alla beata Margherita. Terminava appunto la novena il primo
venerdì di marzo. La vigilia, chiamai il confessore dal quale mi
confessai; la mattina seguente feci, sempre inchiodata in letto, la
comunione. Oh, che momenti felici passai con Gesù!».
«Egli pure mi ripeteva: "Gemma,
vuoi guarire?". La commozione fu tanto grande, che non
potei rispondere. Risposi col cuore: "Gesù, come volete voi". Povero
Gesù!, la grazia era fatta: ero guarita. Dopo due ore mi alzai».
«Quelli di casa piangevano per l'allegrezza. Io pure ero contenta, non
per la salute riacquistata ma perché Gesù mi aveva eletta per sua
figlia. Infatti, prima di lasciarmi, quella mattina mi aveva detto
forte forte al cuore: "Figlia,
alla grazia che ti ho fatto stamattina, ne seguiranno ancora molte
maggiori. Io sarò sempre con te, ti farò da padre, e la mamma tua sarà
quella". E m'indicava Maria santissima addolorata. "Mai può mancare la paterna
assistenza a chi si mette nelle mie mani, niente dunque mancherà a te,
sebbene io t'abbia tolto ogni consolazione e appoggio su questa terra"».
Per quanto Gemma fosse rimasta assai debole, nessuno poteva negare che
la guarigione fosse stata istantanea e completa, e Lucca si commosse
alla notizia del miracolo, o, almeno, della grazia prodigiosa. Se ne
parlò per un pezzo. Anzi, per alcuni, Gemma rimase sempre «la ragazzina
della grazia», né la chiamavano altrimenti.
Riguardo alla spinite di Gemma, il medico curante disse:
«Sono malattie dalle quali difficilmente si guarisce e tanto più
difficile è il ritorno dell'uso degli arti, che in Gemma tornò
perfetto».
Riguardo all'otite, lo specialista dottor Tommasi, che l'operò la
vigilia della guarigione, dichiara essersi trattato di un otite
purulenta acuta con partecipazione della mastoide. Egli constatò pure
la perforazione e l'arrossamento della membrana timpanica; e ci narra
dell'inferma questo tratto edificante:
«Feci l'operazione. L’ammalata non disse mai niente, non parlò mai,
poteva muovere il capo, ma non tentò mai di sottrarsi né si mosse in
nessun modo, neppure istintivamente, tanto che mi pareva d'operare
sopra un cadavere. Eppure, doveva aver sofferto molto. Io le domandai:
"Hai sofferto?". Rispose sorridendo e movendo leggermente il capo,
quasi a dire: una cosa da nulla. E ricordo bene che non avevo fatto uso
neppure della cocaina in forte soluzione per anestesia locale».
In ogni dolorosa circostanza, Gemma si dimostrò sempre semplice ed
eroica. Quando, dopo i bottoni di fuoco, la zia le aveva domandato:
«Hai sofferto molto?», tranquilla e sorridente aveva risposto: «Avrà
sofferto più lei», alludendo al patema d'animo con cui, in una stanza
vicina, ella attendeva la fine dell'operazione.
Ora, alla domanda del dottor Tommasi, risponde con un sorriso e un
lieve cenno negativo del capo. Non meraviglia che quell'ottimo dottore,
udita la guarigione istantanea e recatosi a constatarla, dicesse nel
congedarsi dalla santa figliola: «Gemma, prega per me».
La guarigione fu preceduta, accompagnata e seguita da comunicazioni
celesti. Nel punto in cui avvenne, uno splendore di cielo inondò la
camera dell'inferma. Colei che l'assisteva, impressionata, era corsa a
chiamare un altro testimone, perché a sua volta godesse del
meraviglioso splendore.
«Chi legge queste righe» scrisse la santa figliola nella relazione del
miracolo, «sappia che ho ottenuto la guarigione dell'anima e del corpo,
non per merito mio, ma per le preghiere di tante buone persone che
avevano pietà di me. Io non potevo ottenere niente...».
CAPITOLO XII. - «LA MAMMA TUA SARÀ QUELLA»
Nel pronunziare queste parole, Gesù accennava a una statuetta
dell'Addolorata posta sotto una campana di vetro sopra un piccolo
tavolo in faccia al letto di Gemma, in maniera che di giorno e di notte
lei potesse Vederla.
Quella Madonna le era carissima, perché carissima alla sua povera
mamma. Gliela regalò ella stessa, morendo, oppure le fu data come
ricordo di lei, perché là, dinanzi a quell'immagine, aveva imparato a
pregare, a compatirne i dolori, compatendo quelli di Cristo? Sia come
si voglia, quella Madonnina era l'unica sua ricchezza, e le parlava
forte al cuore della cara scomparsa. Questa infatti l'aveva rivestita
con le sue mani; quei capelli lunghi e fluenti sotto il nero velo erano
quelli del suo caro Gino, e la mamma stessa li aveva disposti così come
ora si vedono. Quanti ricordi in uno!
Già prima che questa morisse, la bambina aveva detto: «Da qui in
avanti, la mia mamma sarà la Madonna». E avvenuta la disgrazia, tutta
si era affidata a Maria, nascondendosi sotto il suo manto e non
chiamandola più se non coi nomi dolci di «la cara mamma mia»; e nel
pronunziare queste parole il suo accento esprimeva la profonda
tenerezza del cuore. Qualche volta, nei momenti di maggior dolore, la
invocava pure sotto il dolce titolo di Mater orphanorum, ricordando
alla Madonna che, non avendo più né mamma né babbo, aveva doppio
diritto alla sua protezione.
«Oh se mi facessi degna di portare il nome di figlia sua! Quante volte
il cuore di questa buona mamma non guardò ai miei peccati, quante volte
mi fu madre amorosa... Se Gesù si allontana, voglio la mamma mia,
voglio che mi ascolti almeno lei; se Gesù più non mi vuole, se devo
vivere senza Gesù, senza la mamma, no!...».
E quando un giorno Gesù si celerà al suo amore immergendola nel buio,
lo cercherà con desiderio intenso, lo chiamerà con tutte le forze
dell'animo, concludendo con una di queste ingenuità così care, che ne
rivelano tanto bene il candore e la inarrivabile semplicità:
«Continuando Gesù in questo modo, e andando sempre più lontano, io
morirò e più non resterò. Oh bene, morirò! ... E così, se la mamma mia
mi condurrà in cielo, Gesù sarà costretto a non scappare».
«Mamma mia, pensateci voi a Gesù», le diceva altra volta; «che si degni
perdonarmi tutti i miei peccati, e se ciò mi venisse negato per i miei
demeriti, dovete dirgli che lo faccia per il grande amore che portava a
voi. Ho paura, mamma mia, senza voi, a cercare Gesù... E’
misericordioso; ma so di aver commesso tanti peccati, e so ancora che
Gesù nel castigo è giusto. Vi chiedo una cosa grossa, è vero, mamma
mia? Ma come fare, se ciò che ho perduto per i miei peccati, non lo
ritrovo per mezzo vostro? E poi, è poco quello che vi chiedo io, in
confronto a quello che mi potete dare voi...».
E a lei pareva talvolta di aver presente la Madonna, come allora che,
stese le braccia, accoglieva nel suo grembo Gesù deposto dalla croce e
le pareva di vederne lo sguardo posato su di lei; e udire queste
parole: «Sei stata tu a ridurlo in questo stato». Ciò aumentava il suo
odio per la minima mancanza e il minimo difetto.
«Oh che dolore grande dovette essere mai per la Madonna dopo che fu
nato Gesù, il pensare che dovevano poi crocifiggerlo! Quale spasimo
dovette aver sempre nel cuore; quanti sospiri dovette mandare, e quante
volte dovette piangere! E mai si lamentava. Povera mamma! Quando poi se
lo vide crocifiggere, era trafitta... perché so bene che qualunque male
fatto al figlio in presenza del padre e della madre, ferisce egualmente
il figlio e i genitori. Dunque, la mamma mia fu crocifissa insieme con
Gesù. E mai si lamentava. Dopo queste riflessioni, ho fatto il
proposito di non lamentarmi del mio modo di vivere». Le feste della
Madonna, della quale più volte le fu dato contemplare la gloria, erano
le sue feste. «Si, si, l'ho provato più volte: la festa della mamma mia
è pur sempre un giorno di pace maggiore, di amore più grande e di
santificazione per tutti; è il giorno più bello fra tutti i giorni
dell'anno. L'anima, in quel giorno, si consola di serena pace, e
dimentica le tempestose vicende del mondo; in quel giorno, tutti, anche
i cattivi, si ricordano che abbiamo in cielo una mamma tutta
sollecitudine e tenerezza per noi, e che noi siamo suoi figli. In quei
giorni, non è vero?, si sentono più forti gli stimoli della fede, e il
bisogno ancora di onorare Maria con maggior ossequio».
«La mamma mia è bella come non si può dire! ... L’eterno suo Padre
l'incoronò con la corona del santo amore, con la corona della sapienza.
Le gemme di questa corona sono le virtù.. l'adornò dei più eletti
splendori... Io l'amo tanto questa mamma, e se non l'amo abbastanza, mi
deve dare essa un cuore più infiammato, e poi mi deve condurre presto
da Gesù in Paradiso. Se devo ancora vivere un altro poco, non voglio
star lontano da loro. E domani, voglio una grazia dalla mamma... Mi
deve dare una croce, una croce grossa grossa, questo è il regalo che le
chiedo; ma ben grossa, che possa con quella seguire il mio Gesù
crocifisso. Non sono buona a patir bene, ma insieme con la croce voglio
anche la pazienza».
«Quanto è bella la comunione fatta con la mamma del Paradiso! La feci
ieri, 8 maggio. In che consistevano tutti gli slanci del mio cuore in
quel prezioso momento? In queste sole parole: Mamma, mamma mia, quanto
godo nel chiamarti mamma!... Ed ella mi ripeté: "Tu godi nel chiamarmi mamma, ed
io godo nel chiamarti figlia". Furono momenti di Paradiso
quelli in cui sentivo parlarmi con quelle dolci parole! Ma a chi le
rivolgeva... Non occorre che mi metta a far di nuovo la mia storia...
Il numero infinito delle mie colpe e difetti, che vanno ogni giorno
crescendo... Eppure, la mamma mi vuol bene!».
Veramente sì... e poteva volerglielo.
Il padre redentorista Schrijvers, nel suo bellissimo libro intitolato:
«Ma mère», narra una visione della santa e la definisce «deliziosa».
Un giorno, Gemma si vede sulle braccia della madre divina in atto di
posare la testa sul cuore di lei. La santa Vergine dolcemente le
domanda: «Gemma, non ami
che me?». E Gemma risponde: «Oh, no, prima di te amo
un'altra persona». A queste parole, la Madonna, stringendola ancor più
al cuore:
«Dimmi chi è».
«No, non te lo dico» risponde Gemma quasi scherzando con colei che
pareva a sua volta scherzare. «Se
tu fossi venuta ier l'altro, di sera, l'avresti saputo, soggiunse. Egli
ti somiglia tutto per bellezza; i suoi capelli hanno il colore dei
tuoi...».
La santissima Vergine, che pareva compiacersi di sentirglielo ripetere,
insisté ancora, e Gemma rispose: «È Gesù, figlio tuo, oh, l'amo tanto!».
A queste parole, nuovamente la Madonna la strinse a sé e disse: «Oh sì, amalo pure, amalo tanto,
ma ama lui solo». E la visione disparve.
CAPITOLO XIII. - «SIGNORE, CHE VOLETE DA ME?»
Guarita prodigiosamente, Gemma dichiarò ai parenti la sua vocazione.
Non trovò contrarietà, tanto erano sicuri che il suo sogno non si
sarebbe si presto avverato. Gemma era invece sicurissima del contrario,
perché, appena guarita, una voce misteriosa le aveva detto: «Rinnova a Gesù tutte le tue
promesse, e aggiungi che, nel mese di giugno, a lui consacrato, andrai
anche tu a consacrarti a lui».
Non potendo neppur lontanamente supporre quale fosse la consacrazione
cui alludeva la voce misteriosa, credette, nella sua riconoscenza, che
la beata Margherita la chiamasse alla Visitazione, e decise di
ritirarsi per un corso di esercizi.
Frattanto, la notizia della guarigione, ottenuta da Gemma per
intercessione della beata Margherita Maria, era giunta alle Visitandine
che vollero vedere la miracolata, parlarle, udire da lei stessa
com'erano andate le cose.
Gemma andò e fu accolta con la soave cordialità tutta propria delle
Figlie di san Francesco di Sales. Esse si mostrarono liete di poterla
un giorno abbracciare quale sorella, e poiché a Gemma costava aspettare
fino al primo di giugno, la superiora promise che avrebbe anticipato,
facendola entrare in monastero ai primi di maggio. Nel corso degli
esercizi spirituali, la divina volontà si sarebbe ancor più chiaramente
manifestata.
Si era a marzo. Gemma contava le settimane, poi i giorni, poi le ore.
Venne il sospirato momento, ed entrò in monastero, raccomandando ai
suoi di non andarla a trovare, perché quei giorni, come diceva, erano
tutti di Gesù.
Suo desiderio sarebbe stato quello di passarli solitaria e nascosta, ma
ben diversamente pensava la superiora.
Monsignor Volpi, direttore spirituale del monastero, aveva presentato
Gemma quale anima privilegiata e le monache volevano edificarsi al suo
contatto.
Affidata alla maestra delle novizie, doveva seguire la comunità in
tutti i suoi esercizi, al coro, in refettorio, ecc... Anzi, in
refettorio la superiora la voleva accanto a sé e spesso, nel corso
della giornata, la chiamava per intrattenersi con lei in santi discorsi.
Gemma trovava quella vita troppo mite per le sue aspirazioni, e anche
il Signore pareva andarle ripetendo: «Per te ci vuole una regola più
austera». Ad ogni modo era sempre un monastero, un santo monastero, e
Gemma tremava alla sola prospettiva di dover tornare nel mondo.
Inoltre, Gesù in quei giorni pareva riversarle nell'anima tutto il
Paradiso.
Occorreva, per la definitiva accettazione, il consenso dell'Arcivescovo
che era allora monsignor Ghilardi, uomo di rara prudenza; ma egli non
fu pronto nel concedere. Aveva sentito parlare di Gemma, ma non la
conosceva affatto. Sapeva che, per quanto guarita, era rimasta
debolissima e teneva ancora il busto di ferro che le avevano messo
all'inizio della malattia. Ciò lo preoccupava.
La superiora intimò a Gemma, per obbedienza, di levarselo subito. Ella
lo fece, né più lo rimise, non provando per ciò il minimo incomodo.
Riferita la cosa all'Arcivescovo, egli, da Dio ispirato come lo
provarono i fatti, rimase fermo nel suo diniego, e cedette solo al
desiderio delle monache di trattenerla fino al 20 maggio, perché
potesse assistere alla professione di alcune novizie.
Gemma, ignara di ciò che l'attendeva, se ne stette tutto il tempo della
cerimonia assorta in dolce contemplazione, e pianse molto sentendosi
vivamente commossa.
Ma accadde che le religiose, tutte occupate a far festa alle nuove
professe, non pensassero più a lei, sicché rimase senza colazione e
senza pranzo. Ella non vi pensava affatto tanto stava bene nel suo
cuore a cuore con Dio; ma nel pomeriggio, si sentì venir meno. Le
monache, confuse, ripararono subito alla loro distrazione.
La sera stessa l'aspettava il più doloroso sacrificio che mai potesse
immaginare. Le venne annunziato che, per ordine dell'Arcivescovo, il
giorno seguente sarebbe dovuta tornare in famiglia. Non le dissero:
«per sempre»; ma intanto doveva tornare. Povera Gemma!
«Erano le cinque pomeridiane del 21 maggio 1899» così scrisse, «e
dovetti uscire. Chiesi piangendo la benedizione alla madre superiora,
salutai le monache e uscii. Mio Dio, che dolore!».
Ma Gemma era abituata al sacrificio: sacrificarsi era divenuta una
seconda natura per lei, e, tranquilla e apparentemente serena, riprese
le sue occupazioni.
Nei giorni festivi, sua unica gioia e vero conforto era quello di
prendere per mano la sorellina Giulia, e incamminarsi al cimitero assai
distante dalla città. Pregare sulla tomba del babbo e della mamma che
aveva tanto amati; riposarsi, rifugiarsi nella loro tenerezza, sul loro
cuore che le pareva di sentir ancora palpitare sotto quel freddo marmo;
implorare pace per essi, ecco ciò che la deliziava. Quando era a
Camaiore dalla zia, il non potersi inginocchiare su quelle tombe,
specialmente su quella del babbo, chiusa di fresco, le costava molto, e
vi suppliva andando con una cugina a prostrarsi ai piedi dell'altare
della Vergine benedetta nella chiesa di Badia, e là pregare per l'anima
di lui.
Le ore volavano per lei, quando si trovava al cimitero! Allorché si
chiudevano i cancelli, aspettava che venissero riaperti, restando sulla
pubblica via anche sotto la pioggia e il vento, pur di poter assistere
all'Ufficio dei morti e agli altri pubblici suffragi che si facevano in
quella cappella.
Una buona donna, mossa a compassione delle giovinette, aprì loro il suo
povero casolare. A volte però era assente, e allora Gemma continuava ad
aspettare all'aria aperta.
Al tramonto, lo scampanio della città annunziava la benedizione col
santissimo sacramento; le due fanciulle si avviavano allora a qualche
chiesa, tornando poi a casa con la benedizione dei genitori, e con la
benedizione di Gesù.
Per quanto la Visitazione non corrispondesse appieno all'ideale di
Gemma, lei vi sarebbe tornata volentieri. Quasi ogni giorno si recava
al monastero per domandare se vi fosse il permesso dell'Arcivescovo. Ma
questi voleva almeno quattro certificati medici, difficili da
ottenersi, data la sua recente malattia e la sua debolezza. Inoltre le
suore, che prima non avevano tenuto conto dell'estrema povertà della
giovinetta, parvero in seguito scorgere anche in ciò un ostacolo
insormontabile, e cominciarono a tergiversare.
Era solo un pretesto per togliere a Gemma ogni speranza. Finirono poi
per dichiararglielo apertamente.
Gemma lo capì e si volse a Dio, domandandogli: «Signore, che volete da
me?». E il Signore le fece comprendere di non volerla alla Visitazione:
altri erano i suoi disegni.
CAPITOLO XIV. - UNO SGUARDO ALL’ANIMA
Dio è libero nei suoi doni. Li versa in qualche anima a profusione,
meno in altre, e nessuno ha diritto di domandargliene il perché. Dio
chiama a sé chi vuole. La grazia necessaria e abbondante alla salvezza
e alla santificazione non la nega a nessuno: compie anzi per ogni anima
veri prodigi di misericordia e di grazia, e, dalla sua maggiore o
minore corrispondenza, dipende l'aumento o diminuzione di essa. Oltre
queste, si danno però delle grazie che nessuno può meritare. Dio le dà
gratuitamente, spontaneamente, a chi vuole, e sono quei sublimi favori
di estasi, di rapimenti, di visioni, non necessari affatto alla
santità, e che anzi talora possono esistere senza di questa.
Generalmente, Dio concede tali favori ad anime profondamente umili,
semplici di una divina semplicità, tutte unite con lui, e divenute
quasi incapaci di disgustarlo, dato l'amore che a lui le stringe.
Il cielo favoriva Gemma in modo straordinario. Questi favori andavano
sempre aumentando, ma Gemma mai e poi mai ammise nell'anima sua un
sentimento di vanagloria. «Come» soleva dire, «io invanirmi? E potrebbe
esservi pazzia maggiore di questa?». Sulle prime credeva, nella sua
ingenuità, che tutte le anime provassero ciò che provava lei; anzi,
fino all'ultimo, credette che tutte le anime, stando dinanzi a Gesù
sacramentato, dovessero provare l'ardore delle fiamme che avvampavano e
consumavano il suo cuore. Ma un giorno, Gesù le disse: «Non tutte le
anime mi sono care come la tua». Parole che le dettero un gran senso di
commozione.
Quando poi comprese che quanto le accadeva era singolare favore di Dio,
così si raccomandò al Signore: «Non mi fate cose che non sono da me,
perché io non sono buona a nulla. E poi, a tante grazie che mi fate,
non so come far a corrispondere. Cercate, cercate un'altra persona che
sappia fare più di me». Ma quando Gesù le rispose: «Tu fai quel che puoi, io mi
voglio servire appunto di te, perché sei la più povera peccatrice di
tutte le mie creature», si quietò, e con la consueta sua
semplicità rispose: «Gesù, fate un po' quel che vi pare, che io sono
contenta».
Gemma si credeva piena di peccati, perché più l'anima è in grado di
comprendere l'infinita purità e santità di Dio, e più e in grado di
comprenderne anche le esigenze, sicché ogni atomo di umana polvere
assume per essa proporzioni gigantesche e il difetto le pare iniquità.
Più il santo si eleva, più si abbassa nel proprio nulla e nella propria
miseria.
«Ma sarà poi vero» scriveva Gemma «che Gesù è contento dell'anima mia?
Oh, come spesso divento rossa e tremo nel vedermi così impura davanti a
lui che è la stessa purità! L’ho disconosciuto mille volte, mi sono
ribellata quando mi chiamava. Padre mio, gli chieda ripetutamente
misericordia per l'anima mia: implori da Gesù il perdono dei miei
peccati, dica a Gesù che, per riparare le mie colpe, non mi parranno
tanto mille dolori nel corpo e nell'anima. O mio Dio, il castigo non
sarà mai terribile quanto io lo merito. Castigatemi pure, ma toglietemi
il peso dei miei tanti peccati perché questo peso mi opprime e mi
schiaccia. Guai a me, se un minuto solo perdessi di vista le colpe mie,
le mie iniquità. Oh! quanto disgusto provo di me stessa, o Gesù, da me
disonorato! Soltanto mi conforta un poco, fra tante mie miserie, la
buona volontà che mi pare di sentire!».
E ancora: «Questa sera al solito, mi sono venuti alla mente tutti i
peccati, così enormi, che ho dovuto farmi forza per non piangere forte:
ne sentivo un dolore sì vivo, che mai avevo provato. il numero di essi
sorpassa le mille volte la mia età e capacità. Però, ciò che mi consola
è che ne ho provato grandissimo dolore, che non vorrei che questo
dolore mai si cancellasse dalla mia mente e mai diminuisse: mio Dio,
fino a che giunse la mia malizia!».
E dire che quest'anima cara, a detta déi suoi direttori spirituali, non
commise mai in vita sua peccati veniali pienamente avvertiti e
deliberati! Queste espressioni non sono né esagerazioni né finzioni. Il
santo è l'anima più sincera che possa esistere perché è stabilito nella
verità. Ora, la verità è questa: «Noi siamo il nulla, Dio è il tutto».
Gemma tali parole le udì in un ritiro che fece nell'Istituto delle
Zitine, le comprese, furono il faro della sua vita, e quando, sul letto
di morte, una delle suore assistenti le domandò quale fosse la virtù
più importante e più cara a Dio, rispose:
«L’umiltà, che è il fondamento di tutte le altre».
Tale era la ripugnanza da lei provata per l'ombra sola dell'orgoglio,
che una volta, in cui il suo direttore spirituale, per provarla,
scrivendo la taccio di orgogliosa, ella corse ai piedi del crocifisso,
e, con la fronte a terra, piangendo amare lacrime, gli chiese
ripetutamente perdono, supplicandolo di farla morire piuttosto che
offenderlo con pensieri di superbia. Quali fossero questi pensieri né
lei né il direttore lo sapevano; ma poiché egli così aveva detto, lei
ciecamente lo credeva.
Sapendo che Dio resiste ai superbi e dà la sua grazia agli umili:
«Tremo» scriveva al suo buon padre, «ho paura che Gesù mi castighi... E
sa che castigo temo e lo meriterei?... Di essere condannata a non amar
più lui, il mio Gesù. No, no! Gesù scelga per me altri castighi, ma
questo no. Padre mio» continuava, «se vede che ancora ho dell'orgoglio
non perda tempo, mi faccia morire, faccia ogni altra cosa, ma me lo
tolga presto...»
Il Signore, se da un lato la colmava di favori, dall'altro la manteneva
in una costante umiltà, lasciandole vedere l'anima sua priva di ogni
bellezza. Talora le si mostrava serio e scontento, e a lei pareva di
essere da lui discacciata: «Questo è un vero tormento» diceva; «sono
quasi abbandonata da Gesù per i miei peccati. E che farò? A chi
ricorrerò?».
«Alla fine, si è stancato di me, ma ne ha tanta ragione. Perciò, lo
ringrazio sempre e lo adoro...».
«Preghi e faccia pregare Gesù, affinché mi dia in breve gli aiuti
necessari per riparare la mia tanta miseria, e mi rischiari la mente e
mi faccia conoscere l'orribile buio in cui sono. Preghino per me tutte
le anime sante, affinché quantunque sia confusa e indegna, Gesù sia
glorificato nella povera anima mia».
Si diceva: «Figlia e serva inutile», «vergine stolta», «meschina
creatura», e neppure osava firmarsi Gemma di Gesù. Vi si arrese
soltanto per qualche tempo, avendole fatto comprendere, il suo
direttore, che ciò non voleva dire essere lei degna di Gesù, ma volersi
gloriare nel solo Gesù.
Le recava stupore che la gente si raccomandasse alle sue preghiere;
temeva di essere ingannata e d'ingannare.
«Se mai vedesse, padre, che io fossi in pericolo per l'anima mia, se
mai vedesse che io sono nelle mani del demonio, ci pensi e mi aiuti,
ché l'anima io la voglio salvare a ogni costo».
«Come devo fare per rimediarvi?».
Non amava, né desiderava le cose straordinarie, ma le temeva. «Ho paura
in tutte le cose straordinarie che ogni giorno mi accadono; ho paura
d'ingannarmi e d'ingannare. Questo non vorrei farlo davvero. Preghi
tanto Gesù che mi aiuti, che non inganni gli altri. Ho tanta paura, che
in certi giorni vorrei che nessuno mi vedesse. Vorrei che lei, padre
mio, me lo spiegasse cosa vuol dire inganno, perché io non vorrei
ingannare nessuno». Quale miglior prova di questa, che l'inganno non
esisteva? Anima più candida e semplice dove trovarla?
Viveva distaccata da tutti quei favori soprannaturali così che, quando
Gesù glieli sottraeva, non si turbava. «Faccia Gesù; contento lui,
contenti tutti. E forse le merito le sue consolazioni? Basta che possa
goderlo nell'altra vita; non mi curo di patire quaggiù».
Al suo direttore pare eccessiva la confidenza con cui tratta col cielo,
e le ordina di usare il voi invece del tu parlando con nostro Signore,
con la Vergine, coi suoi santi. Gemma obbedisce. S'imbroglia spesso, si
riprende sempre. Gesù l'attira, lei resiste. Egli vuole che vada a lui,
e gli parli con tutta confidenza: «O Gesù, se io faccio come mi dite»
replica Gemma, «il padre mi sgrida perché non vuole che vi dia tanta
confidenza». E Gesù: «Digli, figlia, che la confidenza la creo da me in
coloro che amo».
Tanto desidera Gesù questa confidenza, che dichiara un giorno a Gemma:
«Vedi, figlia mia, quando io mi mostro un po' disgustato con le persone
è perché esse non hanno in me tutta quella confidenza che io bramerei».
Averla come l'aveva Gemma, e doverla soffocare era un martirio, eppure
obbediva. Ma a lei pareva «che non trattare Gesù con confidenza fosse
fare un torto alla bontà che tante volte in mille modi ci ha
dimostrato. Le pareva, anzi, che avere in Gesù tanta confidenza e
fiducia, fosse fargli come una dolce violenza per versare grazie sopra
di noi».
Un esempio della semplicità di Gemma, che proprio raggiunge il massimo,
è il seguente. Il direttore le aveva proibito ogni manifestazione
esterna di doni straordinari. Ma un giorno che quest'anima benedetta
era in intimo colloquio con il Signore, e sentì benissimo,
dall'attrazione interna, che stava per ricevere una manifestazione
esterna del suo amore, che fece? Fuggi, si occupò in altre cose, poi
tornò in camera per vedere se Gesù ci fosse sempre.
Proprio come un bambino farebbe con la mamma! Puerilità, dirà qualcuno.
Si, ma care puerilità.
«Oh, quanto mi tenta il mio buon Gesù! » diceva ancora Gemma. «Ma io
sto forte nell'obbedienza, benché mi costi molta fatica. O caro
sacrificio! O bella e cara obbedienza!».
Una volta stabilitole dal confessore il tempo di trattenersi con Gesù
quando venisse a visitarla, allo scoccare dell'ora, si trovò in grande
imbarazzo. «Per obbedire, dovevo mandar via Gesù», scrive. «Dammi un segno che fin d'ora
sempre mi obbedirai» le disse allora il Signore. E Gemma
rispose: «Gesù, andate pur via, che or non vi voglio più». Segno
maggiore di vera obbedienza poteva mai darglielo? Mandare via lui.
«Povero Gesù! Quante volte gli ho fatto delle villanie» diceva; «1'ho
scacciato risolutamente per fare l'obbedienza al confessore e lui mi
guardava e sorrideva.
«Che consolazione provo in cuor mio nel fare l'obbedienza, che in me
genera una tale calma che non mi so spiegare! Viva l'obbedienza, da cui
tutta la pace mi procede! ... Metterò sempre in pratica quanto mi viene
comandato col divino aiuto, per far contento Gesù».
E Gesù sempre le ripeteva direttamente o per mezzo dell'Angelo custode:
«Obbedienza, obbedienza cieca, obbedienza perfetta; che tu sia come un
corpo morto: ogni cosa che faranno di te, prontamente eseguisci! Se non
obbedisci fino al sacrificio, ti lascerò sola in mano al tuo nemico»
CAPITOLO XV. - «TI ASPETTO AL CALVARIO»
Abbiamo già dato un rapido sguardo all'anima di Gemma, diamo ora uno
sguardo ai favori di cui Dio arricchì quest'anima cara.
La prima volta che ottenne uno di questi favori, fu la sera del giovedì
santo del 1899.
Durante la malattia, suor Giulia Sestini, l'anima buona che studiava
ogni mezzo per darle conforto, le aveva parlato dell'esercizio dell'ora
santa chiesto dal sacro Cuore a santa Margherita Maria Alacoque, del
manualetto composto in proposito dalla sua madre fondatrice e
intitolato: «Un'ora di orazione con Gesù agonizzante nel Getsemani».
Glielo aveva poi procurato; e Gemma, felice, lo aveva letto. Come
poteva, aveva fatta l'ora santa promettendo però di farla in piena
regola appena fosse guarita.
Infatti, guarita prodigiosamente, mantenne la sua promessa.
Comprendendone l'importanza, volle fare precedere l'inizio di questa
magnifica devozione da una confessione generale. Giunta la sera e l'ora
di condividere l'agonia di Gesù nel Getsemani, Gemma, appena
inginocchiata nella sua cameretta, si senti l'anima pervasa da un
intimo, subitaneo, profondo dolore di tutte le sue colpe.
Gemma pianse. Quelle lacrime parvero darle sollievo. Sentendosi
subitamente pervasa da intimo raccoglimento, foriero delle visite
dall'alto, fece appena in tempo a rizzarsi, chiudere la porta e
rimettersi in ginocchio, che si vide dinanzi Gesù crocifisso, grondante
sangue da tutte le piaghe.
Turbata a quella vista, Gemma si fece il segno della croce.
L’apparizione non si dileguò; si dileguò invece in lei il senso di
turbamento e di timore. Pensando allora che quelle piaghe erano frutto
dei suoi peccati, ella cadde con la fronte a terra, non osando più
alzare ad esse lo sguardo. Ciò che aveva visto era più che bastato.
Quelle piaghe nessuno le poté più cancellare dall'anima sua.
Il giorno seguente, le fu vietato di recarsi alle «tre ore» di agonia.
Sentì al vivo questo diniego. Le vennero le lacrime agli occhi, ma
seppe rintuzzarle, offrendo a Dio il sacrificio. Se non potrà andare in
chiesa, ebbene farà le «tre ore» per conto suo.
Chiusasi in camera, le apparve in visione l'Angelo custode in atto di
rimproverarla per le lacrime versate poco prima. E dopo averle dato
vari consigli sulla generosità che Dio voleva da lei, tenne con lei
compagnia all'appassionato Signore e alla sua santissima Madre.
Per quanto fosse venerdì santo, Gesù venne a lei, si comunicò all'anima
sua in modo così intimo, in una comunione così vera, come ma i per il
passato. Questa comunione, quest'unione la lasciò quasi smarrita. Ne
derivarono però in lei due ardentissimi sentimenti: amare Gesù fino al
sacrificio, e patire qualche cosa per lui che tanto aveva patito per
lei.
Occorsero ripetuti e severi comandi dell'Angelo custode per indurre
quell'umile creatura a tutto rivelare al confessore. A questo domandò
come fare ad amare Gesù come voleva amarlo lei, cioè amarlo fino alla
follia. Ma la risposta di lui non l'appagò. La rivolse al Signore, ed
ecco come rispose.
Comparendole un giorno crocifisso, e mostrandole le cinque piaghe
aperte, le disse: «Guarda,
figlia mia, e impara come si ama. Vedi questa croce, queste spine e
questi chiodi? Vedi queste lividure, questi squarci, queste piaghe?
Sono tutte opere di amore, e di amore infinito. Vedi fino a qual segno
ti ho amata? Mi vuoi amare davvero? Impara prima a soffrire: il
soffrire insegna ad amare». Gemma cadde allora prostrata a
terra, immersa in un mare di dolore e di amore.
Da quel giorno, altro più non volle che Gesù crocifisso: «Il mio
diletto è per me un vasetto di mirra, e altro non voglio vedere in lui,
dacché egli non ha voluto altro per sé. Vada a contemplarlo sul Tabor
chi vuole: io lo contemplerò sul calvario in compagnia della cara mamma
mia addolorata».
Uscita che fu dalle Salesiane, una voce misteriosa l'animava a farsi
coraggio, a tutto dimenticare, ad abbandonarsi a Gesù senza riserva,
amarlo tanto, non opporre nessun ostacolo ai suoi disegni, ché egli le
avrebbe fatto fare tanto cammino senza che quasi se ne avvedesse.
«Non temere di niente»
continuava l'interna voce, «poiché
il cuore di Gesù è il trono di misericordia ove i miserabili sono i
meglio accolti». Ed ella: «O Gesù mio, vi vorrei amare
tanto tanto, ma non so farlo». «Vuoi sempre amare Gesù? Non cessare mai
di soffrire per lui. La croce è il trono dei veri amanti: la croce è il
patrimonio degli eletti in questa vita».
Finalmente, una mattina, dopo la comunione, Gesù stesso le dice: «Gemma, coraggio! Ti aspetto al
calvario, su quel monte a cui sei diretta».
CAPITOLO XVI. - STIMMATIZZATA!
«Gemma, coraggio! Ti
aspetto al calvario». E di coraggio aveva infatti bisogno
la povera Gemma.
Il convegno, al quale invita uno sposo di sangue, non può essere che un
doloroso convegno. Gesù sul calvario non può consacrare che delle
vittime, imprimendo in esse i suoi tratti di dolore e di amore.
Inoltre: «L’ambire di essere messi a parte dei dolori del calvario è
stata sempre la passione generosa che ha agitato il cuore dei santi.
Tutti, più o meno, hanno chiesto a Gesù una parte dei suoi flagelli,
delle spine, del fiele, delle sue lividure, delle sue piaghe. E se
tutti ne hanno più o meno assaporato in spirito, non pochi ne
riportarono visibilmente i sigilli impressi nella loro carne.
«Il poverello d'Assisi, consumato da questo ardente desiderio, portò
nei suoi piedi, nelle sue mani e nel suo costato, scolpiti per tutta la
vita, i segni della redenzione. Così pure santa Chiara da Montefalco,
santa Caterina da Siena e altri. La serafica del Carmelo portò il cuore
trafitto dallo strale di un angelo».
Santa Maria Maddalena de' Pazzi, contemplando un giorno il crocifisso
ne vide partire cinque raggi infuocati che, andando a battere sulle
mani, i piedi, il costato di lei, v'impressero le sacre stimmate.
Ottenne per grazia, da Dio, che non fossero visibili ad altri che a
lei; ma ad attestare la verità della cosa, il costato della sublime
amante del crocifisso porta sempre sul corpo incorrotto la traccia
dell'amorosa ferita.
Gemma fu a sua volta una stimmatizzata.
Era l'8 giugno del 1899, vigilia della festa del sacro Cuore. Dopo la
comunione, il Signore le fece sentire che le preparava per la sera
stessa una singolarissima grazia. Quale? Ella lo ignorava, ma corse ad
avvertire il confessore e chiedergli una assoluzione generale. Tornò a
casa col cuore pieno d'insolita gioia.
Venne la sera. Gemma prima di iniziare l'esercizio dell'ora santa,
provò un vivissimo dolore delle sue colpe. Credette di morirne. Vi
tenne dietro un profondo raccoglimento: «L’intelletto» dice, «non
conosceva che i miei peccati e l'offesa di Dio; la memoria me li
ricordava tutti e mi faceva vedere tutti i tormenti che Gesù aveva
patito per salvarmi; la volontà me li faceva detestare e promettere di
voler tutto soffrire per espiarli. Un mucchio di pensieri mi si
aggiravano nella mente ed erano pensieri di dolore, di amore, di
timore, di speranza, di conforto».
Al raccoglimento successe ben presto il rapimento dei sensi; e Gemma si
trovò dinanzi alla madre celeste e con al fianco il suo buon angelo.
Recitato per ordine di lui l'atto di dolore, ella udì dalle labbra
della Vergine questa duplice assicurazione che le dette palpiti di
amorosa riconoscenza: «Figlia,
in nome di Gesù, ti siano rimessi tutti i peccati... Gesù, mio Figlio,
ti ama tanto. Egli vuol farti una grazia, saprai rendertene degna?».
Che mai rispondere? Gemma tacque. «Io
ti sarò madre» soggiunse Maria, «e tu ti mostrerai mia vera figlia?».
Rispose, la santa giovinetta, o, compresa e confusa, tacque come alla
prima interrogazione? Maria, aperto il manto, amorosamente la coprì con
esso.
Da quel dolce rifugio, Gemma vide venire a sé sofferente il Signore.
Come sempre, tutte le piaghe di lui erano aperte; questa volta, però,
non ne usciva sangue, ma fiamme. Ed ecco quelle fiamme andare a toccare
le mani, i piedi, il costato della fanciulla, che credette di morire di
dolore e di dolcezza; e sarebbe morta veramente, se la Vergine
benedetta non avesse sostenuta la sua debolezza.
Così, appoggiata al suo cuore, coperta del suo manto, Gemma passò
qualche ora. Deposto finalmente un bacio materno sulla fronte della
fanciulla la visione scomparve.
Gemma si trovò inginocchiata in terra; provò un forte dolore alle mani,
ai piedi, al costato. Tentò di alzarsi. Non poteva. Vi riuscì
finalmente con grande difficoltà. Le ferite sanguinavano, le fasciò
alla meglio, e, aiutata dal suo buon angelo, si pose a letto.
La mattina seguente, si alza prestissimo, ma il dolore ai piedi è così
intenso da sentirsi venir meno. Si veste come può, s'infila i guanti
perché le mani sanguinano, e si trascina in chiesa per farvi la
comunione.
Torna a casa perplessa. Come nascondere la cosa? «Ma forse non è una
novità» pensa; «è un dono concesso da Dio a tutte le anime che a lui si
consacrano con voto». E, trepidante, si mette a interrogare questa e
quella se mai per caso non avessero avvertito in loro stesse delle
ferite così così. Non solo non fu compresa, ma le sue domande
provocarono ilarità.
E allora che fare? Non c'era via di scampo. Gemma s’indusse a parlare,
e stendendo a una delle zie le sue mani piagate: «Zia, veda un poco» le
disse col suo ingenuo candore misto a un senso di confusione, «veda un
po' che mi ha fatto Gesù...».
La zia, già da qualche tempo, aveva intuito qualcosa di singolare. A
quella vista, sbalordì, ma non fu in grado di comprendere l'arcano.
Da quel giorno, il fenomeno, diciamo meglio la grazia, si ripeté la
sera di ogni giovedì, verso le otto, durando fino alle tre pomeridiane
del venerdì, ora in cui Gesù spirò sulla croce. Cessò poi negli ultimi
anni di vita della nostra Gemma, avendo ciò intimato l'obbedienza.
CAPITOLO XVII. - LA FAMIGLIA D'ADOZIONE
Come abbiamo visto, l'8 giugno, la santa interiormente avvertita di un
favore singolare che l'attendeva la sera stessa, era corsa ad
annunziarlo a monsignor Volpi, chiedendogli inoltre, per prepararvisi,
un' assoluzione generale di tutte le sue colpe. Ora, bisognava
rendergli conto. Ma come fare? Come narrare a Monsignore l'accaduto? E
poi lei, povera figliola che si riteneva carica di peccati! Mai avrebbe
taciuto una mancanza, una debolezza, un rimprovero, a un'umiliazione;
ma quando si trattava di rivelare i divini favori, nell'anima sua si
scatenava la lotta.
Così tutto il mese di giugno, malgrado i frequenti rimproveri del suo
buon angelo che la stimolava a parlare.
Difficoltà da lei indipendenti parevano, in certo modo, non solo
scusare, ma anche giustificare la sua condotta. Il confessionale di
Monsignore, nella basilica di san Michele, era infatti sempre
assediato, godendo egli fama di secondo san Francesco di Sales nella
direzione delle anime.
Quale ausiliare dell'Arcivescovo di Lucca, era inoltre occupatissimo,
il che gli rendeva assolutamente impossibile contentare tutti. A Gemma,
invece, sarebbe occorso in tali casi parecchio tempo. Poteva
scrivergli, è vero, e così faceva spesso, ma poi la risposta doveva
andarla a prendere a voce, in confessionale, con quella ressa di gente.
Dunque le difficoltà esterne non mancavano. La massima però, Gemma
l'aveva in sé, e anche questo non senza mistero. Forse, anzi senza
forse, celava un disegno provvidenziale, una volontà divina. Lo vedremo
subito.
Agli ultimi di giugno, i padri Passionisti avevano iniziato in
cattedrale una sacra missione. Per ordine di papa Leone XIII, in ogni
città si dovevano disporre gli animi, con sacre missioni, al sorgere
del nuovo secolo. La missione di Lucca recò frutti meravigliosi, ma
Gemma non la seguì per intero.
Dal 10 giugno, si recava al mese del sacro Cuore predicato in altra
chiesa, e solo il 10 luglio andò in cattedrale.
Appena vide i Passionisti, il suo cuore ebbe un tuffo. Quei padri, da
lei mai prima veduti, erano vestiti proprio come san Gabriele. «La mia
impressione fu tale» ella dice «che non si può descrivere. Un'affezione
speciale mi prese per essi, e da quel giorno non persi più una predica».
L’ultimo giorno della missione, dopo la comunione generale alla quale
pure aveva partecipato, le parve di sentire in fondo al cuore il suo
Gesù che le domandava se le piacesse l'abito passionista. Oh, se le
piaceva quell'abito benedetto! L'abito di lutto dei figli della
passione, il cuore simbolico così eloquentemente posato sul cuore
umano; l'abito indossato dal suo santo prediletto e più volte da lei
baciato nell'estasi! Il cuore di Gemma accelerò i suoi palpiti. «Ti piacerebbe»
soggiunse l'intima voce «essere
rivestita del medesimo abito?». «Mio Dio!» esclamò Gemma. «Tu sarai una figlia della
passione e una figlia prediletta» replicò Gesù; «uno di questi sarà il tuo padre.
Va', palesa ogni cosa».
Gemma, seguendo alla lettera l'ispirazione, si diresse al confessionale
di uno di quei padri, il padre Ignazio. «Ma per quanto mi sforzassi»
dice «non mi riuscì di parlare delle cose mie». Si rivolse allora ad un
altro padre, e, con somma facilità, gli narrò tutta la storia della sua
vita: i suoi demeriti e le grazie del Signore, le sue ingratitudini e
l'amore di Gesù per lei, accennando ai «segni» comparsi nei piedi,
nelle mani, nel costato, e manifestando la ripugnanza invincibile da
lei provata a parlarne al confessore ordinario.
Quel padre ascoltava senza fiatare. La semplicità, la tranquillità,
l'innocenza, l'umiltà di quella figliola non ammettevano dubbi: si
trovava innanzi ad una predestinata, ad una creatura più celeste che
terrena.
Le raccomandò umiltà, gratitudine; le disse che, prima di pronunciarsi,
avrebbe voluto riflettere molto. Presto, tornando a Lucca, l'avrebbe
ascoltata di nuovo. Frattanto, rivelasse tutto al confessore ordinario.
Le concesse di emettere, per via privata devozione (dal 15 luglio all'8
settembre), i voti di povertà e d'obbedienza da lei ardentemente
bramati; ma con meno facilità si piegò ai suoi desideri di penitenze
speciali. Già abbastanza gliene dava il Signore.
Gemma era tanto felice da sembrarle quasi di essere già religiosa.
L’emettere i voti fu per lei una delle maggiori consolazioni, perché a
lungo desiderata.
Il padre che ascoltò Gemma Galgani fu padre Gaetano di Gesù Bambino,
bravo missionario, uomo ricco di belle qualità. Dio lo pose sul cammino
di Gemma quale strumento di santificazione per i dolori che le procurò
e i calici amari che le porse. Ma nel primo momento, parve strumento di
benedizione, e lo fu di fatto, come lo provarono gli avvenimenti.
Pochi giorni dopo il primo incontro con la santa figliola, eccolo di
nuovo a Lucca, diretto, secondo il solito, a una casa di piazza di
santa Maria della Rosa, dove l'attendeva la più calda accoglienza.
Di chi era quella casa? Era l'abitazione della famiglia Giannini,
famiglia profondamente cristiana, raccolta di anime sante, tale da
richiamare alla mente le antiche famiglie patriarcali. Ne era capo il
cavalier Matteo Giannini, bella figura d'uomo. Alto, dignitoso, con
lunga barba bianca, e con una dolce bontà diffusa nel volto. Anima
leale, retta, piissima.
Non meno pia era la moglie di lui, intelligente e solerte madre di
famiglia.
Gli undici figli formavano poi, a quell'epoca, una lunga scala, dallo
studente di università prossimo a discutere la tesi, al piccino ancora
in fasce e alla beniamina di due o tre anni che, a passeggio, quasi
sempre il babbo teneva per mano.
Completava questo quadro di famiglia una zia, «la zia Cecilia» amata
quale madre, e vera provvidenza per quella casa. Dato che la signora
Giannini era spesso sofferente, «zia Cecilia» riparava tutto, tirando
avanti quella laboriosa e non facile azienda, e trovando tempo anche
per opere buone di carità e di zelo.
Bastava vederla per capire come potesse sbrigare tante cose. Svelta,
energica, buona, aveva nello sguardo una fiamma d'intelligenza maschia
e risoluta. La sua pietà non era all'acqua di rose, ma vera, sentita,
profonda, illuminata. La lealtà le si leggeva in viso. Era anzi sua
speciale caratteristica.
Si trovano pure in quella famiglia un ottimo e piissimo sacerdote, don
Lorenzo Agrimonti, canonico della cattedrale, e alcuni domestici.
Re di quella casa era il Signore. I Giannini non ne facevano mistero.
Dell'agiatezza che loro veniva da una farmacia, una cereria, e vari
possessi in campagna, essi davano larga parte ai poveri, ai religiosi,
alle religiose: nessuno bussava invano a quella porta. Anzi, un locale
della casa era costantemente adibito a ospizio dei padri Passionisti,
sia che scendessero a Lucca dal loro «Ritiro dell'Angelo», o dovessero
dimorare qualche tempo in casa loro; la chiesina e la mensa era
presieduta, come nel loro convento, da un grande crocifisso che pareva
benedire quella piccola comunità, e dove, prima di porsi e di levarsi
da mensa, si benediceva e si ringraziava il Signore.
Dunque, là si fermò padre Gaetano nel suo ritorno a Lucca. Parlò alla
signora Cecilia di Gemma Galgani, della promessa che le aveva fatto,
del desiderio di riparlarle, e la pregò di rintracciarla.
La signora Cecilia non la conosceva che di vista, ma avendola
incontrata tutte le sere nella chiesetta delle Salesiane al mese
predicato del sacro Cuore di Gesù, era rimasta così impressionata della
sua angelica pietà, da non poter fare a meno di domandare chi fosse
quella giovinetta; le fu risposto che era figlia del defunto farmacista
Galgani, e sentì per lei gran tenerezza.
Accolse quindi con gioia l'occasione che le si presentava di conoscerla
anche personalmente, la cercò, la condusse in casa, e si accorse ben
presto di aver trovato una preziosissima «gemma».
Tutti i Giannini, del resto, ne ebbero buona impressione. L’invitarono
a pranzo. Il signor Matteo disse alla sorella di farla tornare spesso,
e la signora Giustina la volle amica delle sue figliole.
Pochi giorni dopo, però, tutti partirono per Viareggio, di dove
passarono ai monti, e a Lucca non rimase che la signora Cecilia.
CAPITOLO XVIII. - INCONTRO PROVVIDENZIALE
Così iniziò questa relazione che doveva assumere tanta importanza nella
vita di Gemma, e, bisogna ben dirlo, fu provvidenziale.
Gemma, figlia della passione, doveva essere guidata nello spirito dai
Passionisti, la cui vita trascorre nel ricordo e nega meditazione dei
dolori di Cristo; doveva trovarsi al sicuro e al riparo in un'oasi di
santità e di pace, che i Passionisti ritenevano quale prolungamento
della loro religiosa famiglia; e doveva avere per madre adottiva una
innamorata del crocifisso.
Questo incontro fu provvidenziale anche da un altro lato. Non tutti i
giovani Galgani erano cresciuti come aveva sognato la mamma di Gemma; e
la povera figliola non solo si trovava a disagio tra loro, ma la vita
era divenuta per lei, dopo la manifestazione delle stimmate, un vero
martirio.
Quanto più avrebbe voluto nascondersi e nascondere le opere di Dio in
lei, anche perché egli voleva che al solo confessore le rendesse note,
meno vi riusciva.
I suoi di casa la pedinavano, la spiavano dalla porta quando era sola
in camera; ridevano di ciò che vedevano, ne chiacchieravano senza fine,
traendone le più strampalate e diverse conclusioni; e quando accadeva
qualcosa di più straordinario, spalancati cielo!
Una volta, per esempio, durante un alterco familiare, uno dei fratelli
di Gemma, accecato dall'ira, vomitò le più orrende bestemmie. La
poverina ne provò così intenso dolore da sudar sangue.
Una delle zie, «quella più buona», scrisse Gemma a monsignor Volpi «e
che mi vuol tanto bene», la sera la seguì in camera addirittura fuori
di sé e le disse: «Stasera ce l'hai, eh! la tua sorella a difenderti.
Fammi vedere di dove ti è uscito quel sangue, se no ti finisco a forza
di botte».
Gemma taceva. il silenzio di lei sempre più inaspriva la zia, che,
postale una mano alla gola, tentava con l'altra, ma inutilmente, di
spogliarla. Fortunatamente, suonò il campanello di casa e la zia
dovette andarsene.
Ma non si dette per vinta. Più tardi, quando Gemma stava per andare a
letto, ricomparve, dichiarandole, irritatissima, che era tempo di
finirla con tutti quei fuffigni, che già abbastanza ne aveva dato ad
intendere alla gente, e se non rivelava di dove era uscito quel sangue,
mai più l'avrebbe mandata fuori sola e in nessun posto.
Questa minaccia abbracciava tutto: la chiesa, il cimitero. Gemma non
resse più; scoppiò in pianto e rivelò l'arcano. «Sono le bestemmie che
dice suo nipote...». «E le bestemmie fanno uscire quel sangue?». «Si,
nel sentire bestemmiare vedo Gesù che soffre tanto, io soffro con lui,
e soffro al cuore e mi esce quel sangue». La zia parve allora calmarsi
alquanto e soggiunse: «Soltanto le bestemmie di tuo fratello ti fanno
male, oppure anche quelle degli altri?».«Tutte... ma c’è una bella
differenza. Quelle di lui, oh! quanto mi fanno soffrire di più».
«Piangevo tanto, tanto» scriveva Gemma a monsignor Volpi; e scusando il
contegno della zia: «Lo permise proprio Gesù» conclude, «perché ella
non me lo avrebbe fatto davvero».
Un'altra volta, tornando dalla chiesa, trovò il fratello furibondo, e
purtroppo anche allora gli uscirono dalle labbra bestemmie terribili.
Gemma avrebbe voluto riprenderlo; non ne ebbe la forza, perché si sentì
venir meno. Tornata in sé, salì in casa. S'imbatté in una delle zie.
Era pallida e aveva il volto chiazzato di sangue. Che è mai successo?
La zia la stringe di domande, le intima di parlare. Gemma si sente
confusa, ma, non sapendo come sottrarsi a tante pressioni, parla fra i
singhiozzi. «Oh che, è la prima volta che senti bestemmiare in questa
nostra infelice città?» dice la zia. «Com'è che oggi soltanto ti fa
codesto effetto?». E Gemma, piangendo: «Non è la prima volta» risponde;
«è sempre, quando non mi riesce scappare o almeno distrarmi». Avrebbe
potuto aggiungere ancora che, a volte (come fu poi ripetutamente
provato), le bestemmie le avevano tratto dagli occhi lacrime di sangue.
Le offese di Dio saranno sempre il massimo suo tormento e ciò fino alla
morte. «Ogni goccia del mio sangue» dirà in seguito, «lo darei, e
tutto, per contentare Gesù, per impedire che tanti poveri cattivi lo
offendano».
Gemma fa compassione: «Monsignore, ho paura... Ho paura che
quest'Angelo custode (l'angelo che a lei appariva sotto umane e
luminose sembianze) lo vedano in casa... Se lo vedesse N.N. chi sa!?..».
E altra volta: «Monsignore, io sono quasi sgomenta... N.N. sa ogni cosa
di me! Stamattina, parlava delle cose mie come se niente fosse, e il
fratello insieme con lei ci scherzava».
«Dalle undici di stamattina fino a ora, che sono le tre, mai mi ha
lasciata sola; dice che vuol vedere ogni cosa; quasi sembra un
diavoletto. Le zie ci ridono, e io ho una gran voglia di piangere...
Fin le sue compagne di scuola ha portato in casa; e dice loro così, ma
per canzonarmi: "Venite, andiamo a vedere Gemma andare in estasi". E
queste parole le ripeteva anche forte, anche sul portico, ieri sera».
Povera Gemma! Sola, senza appoggio, senza comprensione, senza pietà, in
quell'ambiente divenutole da questo lato ostile, tra tante offese di
Dio, tanto sarcasmo, tanta crudele ironia! E che scene continue!
Invano chiede a Dio di cessare dai suoi doni; invano tutto tenta per
occultarli. Sente al vivo il suo stato doloroso. Tutto la trafigge nel
fondo dell'anima: il disgusto di Dio, e il vedere i suoi di casa non
solo accaniti contro di lei (desidera anche vedersi trattata male), ma
di vederli accaniti contro monsignor Volpi, suo direttore. E chi sa
quante volte quella poverina avrà rimpianto il cuore della mamma
(sentiva tanto di essere orfana!) ad appoggio del suo, così debole e
tremante; quel cuore al quale avrebbe potuto confidare tutto senza
paura, e che l'avrebbe illuminata e protetta.
Ciò che è amabile, è la dolce e costante tranquillità di Gemma. Mai fu
vista turbata; mai sulle labbra il più piccolo risentimento; mai una
piccola ribellione, uno sfogo qualsiasi, una giustificazione, un'aria
di stanchezza. Tutti sono unanimi nell'attestarlo. E sì che le
occasioni non mancavano! Una sera, per esempio, uno dei fratelli voleva
andare al teatro, ma non avendo quattrini, s’irritava moltissimo. Gemma
cercò di calmarlo, ma ebbe l'infelice idea di dirgli: «Dove ti
confondi! ». Di rimbalzo, sentì arrivarsi un violentissimo pugno in un
occhio, che glielo lasciò tutto livido e pesto. Gemma non si scompose,
e recatasi il giorno seguente dalle Mantellate, alle loro domande
rispose sorridendo: «Me lo sono meritato», né aggiunse altro.
Un'altra volta, lo stesso fratello le sferrò uno schiaffo altrettanto
violento che le lasciò un segno per parecchi giorni.
E un giorno, avendo ammonita una delle sorelle di non stare alla
finestra, questa, voltandosi di scatto e tutta indispettita, prese
Gemma per i capelli. Accorse una zia, rimproverando e minacciando di
accusare la colpevole al fratello maggiore, ma Gemma s'interpose
dicendo: «Non è nulla, non è nulla», e ottenne che la zia non parlasse
dell'accaduto.
Tutto questo non è eroico? Tanto più che certe trafitture le sentiva al
vivo, come ce lo ha rivelato anche la lettera a Monsignore. La sua
tranquillità non era quindi frutto di natura, ma di virtù.
La signora Cecilia Giannini fu veramente, in tali circostanze, l'angelo
mandato da Dio.
Gemma non disse nulla, non chiese nulla; la signora Cecilia intuì,
comprese tutto.
Approfittando della partenza della sua famiglia per Viareggio,
incominciò a chiedere alle zie di Gemma la compagnia di quella santa
giovinetta per qualche ora al giorno; poi chiese di trattenerla con sé
anche la notte. Le zie, che non potevano non amare la nipote, lo
concessero per qualche notte, di quando in quando, e Gemma ne
approfittava dal giovedì al venerdì.
Sulle prime, la signora Cecilia rimase un po' perplessa dinanzi a quei
fenomeni straordinari, ma, intelligente e prudente com'era, non se ne
fece accorgere, e si limitò a osservare di continuo la buona Gemma, a
spiarne ogni minimo movimento, e quando avvenivano quelle cose, che
tanto affliggevano l'umiltà della giovane, si mostrava indifferente,
non se ne scomponeva affatto.
CAPITOLO XIX. - IN CASA GIANNINI
Ma la famiglia Giannini stava per tornare da Viareggio: che fare? Il
fratello e la cognata avrebbero consentito che Gemma, figlia di madre
tisica, convivesse coi loro figlioli? E non consentendolo, come
rimandarla a casa? La signora Cecilia non ne aveva il coraggio.
Ogni maltrattamento per Gemma era nulla: non ne parlava, non vi
annetteva importanza. L’unica spina per lei era non poter occultare i
doni di Dio, vederli pubblicati e messi in derisione.
Ma il buon cuore della signora Cecilia, che annetteva importanza alle
prime cose e alle seconde, non voleva assolutamente rimandarla in
famiglia. Si fece quindi animo e, al ritorno dei suoi da Viareggio,
andò loro incontro dicendo: «Iddio mi ha posto nelle mani quest'angelo:
non potrebbe rimanere con noi? Abbiamo undici figli in casa; che sarà
uno in più?». «Gemma sia la benvenuta» rispose l'ottimo cavalier
Giannini. «Sarà la dodicesima dei figli che Dio ci ha dato:
ognuno onori questa nuova figliola; le donne di casa la riveriscano, e
nulla le si lasci mancare». Questi erano anche i sentimenti della
moglie di lui. I figli facevano festa per l'acquisto di una nuova
sorella. Don Lorenzo Agrimonti, tenuto da tutti come secondo padre, ne
era commosso, e perfino la gente di servizio non celò la sua gioia.
La signora Cecilia corse dalle zie di Gemma per ottenere di tener
sempre con sé quella santa creatura. Solo in parte anche allora si vide
esaudita, ma finalmente, nel 1900, casa Giannini divenne stabile dimora
di Gemma, e tale rimase fino alla sera del 24 gennaio 1903, quando la
sua ultima infermità fu dichiarata da dieci medici una tubercolosi.
Anticipiamo i fatti.
Per timore del contagio, il padre spirituale di Gemma impose
l'allontanamento dell'inferma da un ambiente troppo ricco di gioventù.
Gli ammirevoli Giannini gli opposero però una lunga, ostinata,
affettuosa resistenza.
Finalmente, dovettero cedere. La zia di Gemma prese in affitto un
quartierino accanto alla casa ospitale, e l'inferma vi fu trasportata
la memoranda sera del 24 gennaio 1903.
Secondo il solito, l'angelica creatura compì questo, per lei,
dolorosissimo sacrificio, con molta semplicità e serenità, dando, anche
nei giorni seguenti, segni non dubbi di un grande distacco; tanto che
«zia Cecilia» se ne sorprese, e le parve ingratitudine.
Non sapeva la cara zia che nell'anima pienamente abbandonata,
totalmente dimentica di sé, vi è sempre pace profonda. Quel cuore non
ha più palpiti che per la volontà di Dio; non ha rimpianti; non cerca
più nulla, non brama più nulla, non vuole più nulla; di nulla domanda
il perché e gli stessi suoi affetti sono talmente soprannaturalizzati,
da non aver più nulla a che fare con quelli terreni. Questa
soprannaturalità di affetti Gemma la dette pure a vedere nella morte
(seguita a breve distanza l'una dall'altra) dei suoi carissimi fratelli
Antonio e Giulia. Dio vuole così, egli sia sempre benedetto.
Zia Cecilia seguitava ad assisterla; ma, trovandola quasi indifferente
alla sua vicinanza, un giorno cominciò a rimproverarla, tacciandola
d'ingrata. «Io ti ho fatto poco» le diceva, «ma Dio premia anche un
bicchiere di acqua dato per amor suo e qualche sacrificio l'ho fatto
per te, ecc.». Gemma sempre taceva; finalmente, rompendo il silenzio,
esclamò: «Ma che dice? Se c'è stata persona a cui abbia voluto bene, è
stata lei...». E così dicendo diede in un pianto dirotto.
La signora Cecilia promise di non toccar più quel tasto.
«Dubita la zia che non le voglia bene» scrisse Gemma al suo direttore.
«Ma, padre, dopo la mamma terrena che Gesù mi dette e poi mi tolse, di
nuovo in essa me l'aveva resa, e ora mi ha rilasciata orfana. Due volte
orfana sulla terra».
Queste parole sono una rivelazione del suo profondo sentire; ma,
prossima al tramonto, vedeva tutto dileguarsi dalla scena di questo
mondo, e già le apparivano gli eterni orizzonti. Per quanto
nell'oscurità dello spirito, ella si inoltrava nella luce che non ha
tramonto.
«Ora non mi resta che prepararmi alla morte» disse un giorno, «perché
ho fatto a Dio rinunzia di tutto e di tutti». «Anche di padre Germano?»
domandò la signora Cecilia. «Si, anche di lui».
Aveva chiesto al Signore che non le desse più nulla, che la privasse,
anzi, di ogni conforto umano, e fu esaudita.
Nei giorni delle trattative per procurare a Gemma un nuovo alloggio,
monsignor Paolo Tei, vescovo di Pesaro, per provare le virtù della
santa figliola le disse: «Ma non sai che decidono di mandarti via,
perché dubitano che tu sia tisica?». «Fanno bene» rispose Gemma, «ma
non sono tisica». Ella sola sapeva la natura del suo male misterioso. E
monsignor Tei: «Ma, Gemma, non hai in tasca neppur cinque lire, e come
fai se ti mettono per la strada?». Gemma, con un bel sorriso
tranquillo, dette allora la più sublime risposta che possa mai darsi, e
che tutta la rivela e definisce: «Padre, non c'è Dio anche per le
strade? Dove c'è Dio, c'è tutto».
Per la famiglia Giannini fu un immenso dolore veder uscire per sempre
dalla casa da lei santificata quella creatura di benedizione. Quasi
nulla però fu cambiato riguardo all'assistenza, perché, a gara, le
signore Giannini, le figlie e tutti di casa, si recavano dalla cara
Gemma e vi passavano le ore, provvedendo anche al suo sostentamento.
Era bello vedere gli stessi bambini eludere la sorveglianza, e, zitti
zitti, accodandosi alla zia, alla mamma, alle sorelle maggiori, correre
da Gemma che aveva sempre per essi carezze amorosissime, e che a loro
serbava i dolci portati a lei da persone amiche. Gemma, come tutte le
anime sante, subiva il fascino dell'innocenza.
Lei meritava questo plebiscito d'affetto. «In casa era come se non ci
fosse; non si udiva mai la sua voce, e, posso giurare» attesta la
signora Giustina Giannini «che in tutto il tempo che è stata qui con
noi, io non ho mai avvertito il minimo inconveniente occorso in
famiglia per cagione di lei, siccome non ho mai avvertito in lei
difetto alcuno; dico nessun inconveniente e nessun difetto neppure dei
più leggeri». Così attestano tutti gli altri.
Ammessa nella famiglia, Gemma ricordò sempre di non essere della
famiglia, e si comportò sempre con somma prudenza. Piena di tatto e di
delicatezza, compresa della sua difficile posizione, mai s'intromise
nei discorsi e negli affari domestici, e neppure per curiosità cercava
di sapere o d'ingerirsi in qualunque cosa che non le appartenesse.
Questa sua prudenza non era dettata da motivi umani, né poteva
confondersi con astuzia e furberia, perché, al contrario, era di una
grande semplicità e schiettezza.
Allorché sentiva suonare il campanello, si ritirava, né s'informava di
chi fosse venuto; anzi, se ne sentiva parlare, il suo spirito errava
lontano. Solamente quando chi suonava era un povero (e lo capiva
subito), si lanciava, col permesso della signora Cecilia, a portare in
elemosina gli avanzi di cucina.
Su questo punto, la santa figliola e la madre adottiva andavano poco
d'accordo. La prima, piena di compassione, supplicava di non rimandare
via i poveri a mani vuote, la seconda, piena di diffidenza per gli
accattoni, non avrebbe voluto aprir loro la porta. Cedeva alle
suppliche di Gemma; ma, non vista, spiava da una finestrella delle
scale, temendo sempre che, sotto le apparenze del mendicante,
s'insinuasse in casa qualche persona di malaffare. Di là, assisteva ad
una commoventissima scena. Gemma, seduta accanto al poverello mentre
gli porgeva di che sostentare il corpo, cercava di insinuarsi in
quell'anima per porvi Iddio. Questo lei voleva. La carità materiale era
per lei pretesto a quella spirituale. La classe degli accattoni è la
derelitta, la più moralmente abbandonata, e per questo Gemma l'amava
tanto.
A volte, la signora Cecilia scappava fuori improvvisamente, facendo
finta di rimproverarla, e subito Gemma a difendere i suoi poveri. «Oh,
non sono povera anch'io?» diceva. «Gesù mi ha tolto ogni cosa, ma pure
non mi fa mancare nulla, anzi, sono troppo ben trattata, e gli altri
poveri dovrebbero mancare del necessario?».
Tutta la vita di Gemma in casa Giannini può compendiarsi così: un
incessante dono di sé, spinto fino all'eroismo, ma circondato di pace
profondissima, di assoluta semplicità, di un silenzio e di un
raccoglimento addirittura invidiabili.
Mai che si fosse lagnata; mai dalle sue labbra un rapporto, anche
quando le donne di casa, ingelosite dalla predilezione a lei mostrata
dalla signora Cecilia, in un certo modo se ne vendicavano con maniere
brusche e villane, che rivelavano vero disprezzo.
Se non fosse stato notato da altri, Gemma si sarebbe portata alla tomba
il virtuoso segreto. La più impertinente aveva le sue predilezioni.
Volendo però togliere a quelle poverette la causa della loro
inquietudine, s'ingegnava di dire e di ripetere alla signora Cecilia:
«Abbia pazienza: la ricompenserà il Signore di quello che fa per me;
quello che mi raccomando è che mi tenga nascosta, da parte, non mi
consideri, faccia conto che io non ci sia in casa». Ma tutto era
inutile. La signora Cecilia o non capiva o non voleva capire. «Con
Gemma» diceva «io mi riposo. Al solo vedermela accanto, mi sento più
raccolta, più paziente, mi trovo sollevata e non sento il peso della
fatica, né l'amaro dei dispiaceri. Qual conto dovrò rendere a Dio, se
non saprò apprezzare il dono che egli mi ha fatto col darmi
quest'angelica creatura, e non ne ricavo profitto per l'anima mia»
A una certa ora, «Ora lasciatemi godere la mia cara Gemma», ripeteva. E
la conduceva con sé nel cortile o in un salotto, e là, lavorando, si
abbandonavano alle effusioni della più dolce intimità, parlando di
Gesù, comune oggetto del loro amore. Era quello il tempo in cui
destramente la signora Cecilia, dietro consiglio di monsignor Volpi e
del direttore di lei, strappava a Gemma i suoi segreti e le sue intime
confidenze.
Questa santa creatura era l'edificazione della casa.
Venuta povera, volle restare povera; presa come figlia, si fece quasi
serva; pervasa da un vivo e profondo senso di gratitudine, dette se
stessa: la sua preghiera, i suoi sacrifici, le sue forze, tutta se
stessa per i suoi benefattori. E ciò senza eccessive effusioni, senza
ripetute dichiarazioni di una gratitudine che vivamente sentiva, ma
esternava più coi fatti che con le parole.
Nelle sue giornate, ordine perfetto. Si alzava per tempo, quando tutti
ancora dormivano, e in profondo silenzio andava con zia Cecilia in una
chiesa vicina, il più spesso a quella di Santa Maria della Rosa, per
farvi la comunione, o, come lei diceva, «partecipare alla festa
dell'amore di Gesù».
Abitualmente vi ascoltava due messe: una di preparazione, l'altra di
ringraziamento: «Si tratta di congiungere due estremi» diceva, «Dio che
è tutto e la creatura che è niente. Dio che è luce e la creatura che è
tenebre. Dio che è santità e la creatura che è peccato. Si tratta di
partecipare alla mensa del Signore e vi può essere preparazione che
basti?».
Terminata la seconda messa, al primo cenno della signora Cecilia, Gemma
si alzava e la seguiva. Quando la famiglia si svegliava già le
benedizioni del cielo implorate da quell'angelo, già i meriti infiniti
del sangue di Cristo invocati da Gemma, erano scesi copiosi su tutte
quelle anime. Ed ecco incominciare per lei la sequela dei piccoli
doveri compiuti con fedeltà e amore.
Nella numerosa famiglia, le era stato affidato il noioso ufficio di
calzettaia, e non le mancava lavoro. Ma quell'ufficio lo amava, perché
le lasciava libero il pensiero e le permetteva di stare sempre occupata
anche nell'andare e venire, essendo nemica dell'ozio.
Eccola infatti, tornata dalla messa, prendere in mano la calza e
dirigersi, sferruzzando svelta svelta, alle camere dei bambini, per
sorvegliare la levata. Bisognava vestire i più piccoli, pettinarli,
farli pregare, preparare gli altri per la scuola, e, a volte,
accompagnare le ultime piccole.
Assicurati i bambini, andava a dare una mano alle donne nelle faccende
domestiche: rifare i letti, spazzare, attingere acqua. Nulla le pareva
troppo gravoso: aiutava la cuoca senza udire i lamenti e i rimproveri
della zia Cecilia. Poi, venuta l'ora, apparecchiava la tavola.
Come abbiamo già visto, nel salotto da pranzo di casa Giannini era
appeso al muro un bel crocifisso di grandezza quasi naturale: Gemma lo
venerava moltissimo, e spesso, durante il giorno, gli faceva delle
visitine piene di compassionevole amore.
Ora, accadde più volte che, presa dal vivissimo desiderio di stampare
un ardente bacio sul costato di quel crocifisso, e sentendo la sua
impotenza, si trovasse subitamente sollevata da terra, come una
pagliuzza da un turbine di vento, con le braccia avvinte al crocifisso,
le labbra aderenti al suo costato.
Una volta, nel settembre 1901, mentre apparecchiava e aveva dinanzi a
sé parecchio tempo, ogni tanto si fermava a contemplare il crocifisso.
«Più lo mirava» dice padre Germano «e più il cuore le palpitava nel
petto. Avrebbe voluto slanciarsi per arrivare a lui e più volte ne fece
la prova. Poi gridò: "Gesù, datemi voi di giungervi, che ho sete del
vostro sangue. Mirabile cosa! Come già a san Francesco d'Assisi ed al
mio santo padre Paolo della Croce, il simulacro si trasforma nella
divina persona che rappresenta.
Gesù stacca il suo braccio destro dalla croce, e con un occhiata
amorosa invita la sua fedele sposa a venire a lui. Gemma si slancia e
vi giunge.
Gesù l'abbraccia: applica la bocca di lei sulla piaga del sacro
costato, e Gemma, stringendosi a lui con ambedue le braccia, beve a
larghi tratti e si bea a quella fonte divina, mentre con la persona
rimane diritta in piedi, come se posasse sopra una nube».
Il crocifisso di casa Giannini in via del Seminario, 10 - di cui le
suore Sorelle di Santa Gemma sono le custodi - è tuttora in
venerazione, ed è uno dei ricordi più belli e suggestivi della santa.
CAPITOLO XX. - TUTTA A TUTTI
Tali doni straordinari non erano un peso per quella famiglia, né una
pubblicità. Quando Gemma tornava in sé con un lieve sospiro, dalle sue
estasi, con tutta umiltà e semplicità, come nulla fosse stato,
riprendeva le sue occupazioni, sicché molti in quella casa ignoravano
di trattare con un essere così singolarmente privilegiato.
La caratteristica di Gemma era la compiacenza.
Il cavalier Giannini sente debole nel francese la sua Eufemia, che si
prepara all'esame superiore e l'affida a Gemma per le ripetizioni. Lei
dice: «Farò del mio meglio perché passi» e si accinge all'opera con
molto ardore.
Un giorno, Eufemia le chiede un pensiero da servirle per modello di
calligrafia, e Gemma che, animata d'amore verso Dio, lo lascia
trasparire dalle parole, dagli scritti, e lo trasfonde negli altri, le
suggerisce: «Se tutti gli uomini si studiassero di conoscere e di amare
Dio, questo mondo si cangerebbe in un paradiso».
Piccole cose, piccoli atti di compiacenza, ma che rivelano una dolce
intimità.
E di piccoli atti di compiacenza ne faceva tanti in un giorno, perché
«Gemma qua, Gemma là», tutti ricorrevano a lei, e la sua prontezza era
meravigliosa. I piccoli poi le stavano sempre attorno, avendo forse
compreso che le predilezioni di Gemma erano per loro. Infatti,
desiderava che crescessero buoni, li baloccava, li aiutava a fare i
compiti, se ne cattivava l'attenzione col racconto di esempi di santi,
parlava loro con tanto amore della Madonna e dell'Angelo custode,
inculcando in essi la devozione; insegnava loro il catechismo, e si
piegava con immensa bontà alle loro piccole esigenze. «Sempre buona e
serena» dice un sacerdote che frequentava la casa, «anche quando avesse
dovuto interrompere le sue occupazioni; perché correva sempre lei,
interrompendo il lavoro, il pranzo, anche quando i bambini le facevano
qualche sgarbo; non erano cattivi, ma erano piccoli. E lei, di umore
sempre uguale, e buona e premurosa quando c'era bisogno di fare»
In un caso soltanto Gemma silenziosamente si dileguava, ed era quando
tutti quei ragazzi si mettevano al pianoforte a suonare e cantare,
quando andavano a qualche innocente divertimento o a qualche lieta
scampagnata. Gemma aveva sempre il sorriso sulle labbra, ma non era
allegra nel vero senso della parola, né poteva esserlo. Dinanzi alla
sua mente stavano sempre i dolori del suo Signore sofferente; nel suo
cuore, aveva costante il dolore di qualche traviato affidatole da Dio
per ricondurlo all'ovile.
Gemma faceva distinzione tra pace e gioia. «Oh se sentissero quanta
pace ho qui dentro... Contenta sì, sono tanto contenta; ma più lo sarò
quando avrò deposto questo peccatore...».
Tutto ciò le dava quel magnifico senso di riserbo con le stesse Annetta
ed Eufemia Giannini, che amava teneramente quali sorelle; quel dolce
silenzio che tutta l'avvolgeva, di cui era tutta compenetrata, e che
solo le permetteva di rispondere a chi le avesse rivolta qualche
domanda, e ciò pure brevemente. «Anche delle parole inutili bisogna
rendere conto» diceva. Quando poi le chiedevano un consiglio, Gemma
prendeva dei giorni per riflettere e pregare.
Se doveva dare qualche avvertimento, lo faceva con molta delicatezza.
Un giorno, per esempio, Eufemia usciva a passeggio col babbo. Era tutta
elegante e pareva compiacersene. La santa, col sorriso sul labbro, le
disse scendendo le scale: «Chi cerca di piacere agli uomini, non può
piacere a Gesù», parole che fecero molta impressione alla giovinetta
che le ricordò tutto il tempo della passeggiata.
Ma dove la carità di Gemma rifulge in tutto il suo splendore è con gli
afflitti e con gli infermi.
La signora Cecilia dice che, tra le sue pene, le bastava una parola o
un gesto di Gemma per rinfrancarla. Aveva un dono tutto suo proprio per
rianimare, confortare e sollevare gli spiriti abbattuti.
Scrivendo a un padre cappuccino oppresso da pene di spirito, Gemma
cominciò così la sua lettera: «Il timore si vince con l'amore». Era
questa la sua massima: mettere in tutto l'amore, vincere tutto con
l'amore.
«Se i tribolati e gli afflitti ponessero l'amore nelle loro prove,
molto più facile ne sarebbe per essi il sopportamento».
Chiunque si ammalasse in casa Giannini, aveva Gemma per infermiera.
«Non aveva preferenza» dice la signora Cecilia. «Si ammalasse la mia
cognata, o don Lorenzo, o una donna di servizio o una bambina, era lo
stesso. Stava loro sempre attorno, parlando poco, ma arrivando a tutto.
Noi ci saremmo scordate di molte cose; ma lei era così precisa, così
attenta! ... E tutto questo per amore di Dio».
Sapeva infondere pace e rassegnazione. «Quanto bene abbia fatto al mio
spirito» depone don Lorenzo Agrimonti, «il conversare con quest'anima
privilegiata, lo sa Dio solo. Quale conforto mi abbia arrecato, lo sa
il mio cuore, che sente anche ora e sempre sentirà l'influenza benefica
delle sue maniere angeliche, edificanti, più che mai messe in evidenza
nell'epoca della mia malattia. Io ero meravigliato della sua
accortezza, della sua vigilanza, della sua premura, che avevano qualche
cosa di veramente materno».
Dopo aver avuto lei per infermiera, non si lamentava più, soffriva con
pazienza, con rassegnazione, e diceva: «Tutto lo devo a Gemma».
E la signora Giustina Giannini dichiara: «Gemma amò molto gli infermi:
l'ho sperimentato io stessa. Per quattro mesi che fui ammalata, mi
stette sempre d'intorno con una assistenza premurosa, precisa,
affettuosa da non potersi dire... E ciò dalla mattina alle sette circa,
fino alle dieci di sera. Gemma non mi faceva sentire alcun peso della
sua assistenza. Mi si presentava calma, gioviale, e quando io talvolta
mi ricusa-vo di prendere qualche medicina ingrata, aveva un tal modo di
parlarmi e di porgermela, che non potevo ricusarla, e finivo per
accontentare Gemma. La sua presenza mi era un sollievo materiale, molto
più spirituale ancora».
La santa giovinetta assisteva con intelligenza. Un medico, leggendo la
descrizione storica fatta da Gemma giorno per giorno, della lunga
malattia della signora Giustina, esclamò stupefatto: «Ma pare scritta
da un medico».
Spinse la sua carità e la sua gratitudine anche oltre la pura
assistenza. Vedendo soffrire tanto quella buona signora ne ebbe
compassione e se ne prese il male. Chiedendone il permesso al suo
direttore, diceva che, non potendo far nulla per quella famiglia,
almeno potesse chiedere a Gesù il male di quella donna, rinunziando
anche a qualche anno di vita.
Dio accettò quest'offerta. La signora Giannini cominciò subito
visibilmente a migliorare, e in breve tornò sana. Gemma cominciò a
soffrire orribili dolori con vomito, e durò così per lunghi mesi.
Si ammalò di ulcere ributtanti ad una gamba quella donna gelosa e
bisbetica che tanto faceva soffrire la povera Gemma. Questa colse al
balzo l'occasione per santamente vendicarsi, e si mise a servirla di
tutto punto come se ne fosse stata la serva. Le fasciava e le curava le
piaghe in ginocchio, con somma delicatezza e carità, e un giorno fu
sorpresa mentre, chinata su quelle, vi deponeva un bacio lungo e pieno
di amore: bacio doppiamente eroico, perché quella rispondeva alle sue
premure con ripulsioni, villanie, oltraggi e disprezzi sensibilissimi.
Non solo Gemma ne restava tranquilla, ma serena e felice, e raddoppiava
l'amore. Questa può dirsi veramente peffetta carità.
Dove trovare ospite più ideale di questa? Ma, credendosi di peso e di
aggravio, diceva: «Non vi rincresca di avere un altro po' di pazienza
con me. Per voi ci penserò io con Gesù. Quando sarò con lui, pregherò
sempre per voi».
E rivolta al Signore, diceva nell'estasi: «Giacché non posso far altro
che pregare, pensateci voi... Io non sono buona a dire loro grazie;
sono sì ruvida e ignorante. Pensateci voi, Dio mio, prosperateli,
pagateli a cento tanti». E rivolta alla santissima Vergine: «A te,
mamma mia, raccomando questa casa. Di' a Gesù che l'aiuti nei momenti
di prova. Se mai Gesù dovesse gravare la sua mano sopra di loro, sono
qui io: gravi pur sopra di me. Questa casa te la raccomando... dillo a
Gesù».
CAPITOLO XXI. - IL MAGISTERO DIVINO DEL DOLORE
Abbiamo accennato il ritorno del padre Gaetano a Lucca. Ebbene, egli si
rese ripetutamente conto dei meravigliosi fenomeni che accadevano in
Gemma: la contemplò in estasi, ne vide e ne esaminò le stimmate, e
pensò di aprirle la via parlandone prima a monsignor Volpi.
Fu accolto benissimo: Monsignore approvò la sua linea di condotta
riguardo a Gemma. Sul fatto però delle stimmate, non volle
pronunziarsi, ma prendere tempo, vedere, studiare ed esaminare quei
fenomeni.
La medesima cosa ripete a Gemma quando andò a parlarle dopo il padre
Gaetano.
Prima di partire da Lucca, questo padre volle lasciare a Monsignore
anche una relazione scritta molto chiara ed esplicita di ciò che aveva
veduto.
Tutto questo accadde in luglio.
Nell'agosto, ecco fermarsi a casa Giannini il padre provinciale dei
Passionisti, padre Pietro-Paolo. Una stima universale sia nell'Ordine
che fuori circondava quell'uomo di Dio, un vero Passionista.
Ora, egli aveva sentito parlare di Gemma, ma aveva fermamente creduto
doversi trattare di vera illusione e su per giù ripeté tra sé le parole
di san Tommaso apostolo: «Se non vedo nelle sue mani il foro dei chiodi
e non metto il mio dito nel posto dei chiodi, non credo...».
Arrivò in casa Giannini un martedì.
La signora Cecilia gli parlò di Gemma e gliela presentò.
Egli dice francamente che, nel primo istante, gli parve una mezza
stupida.
Rimasti un momento soli, la santa lo supplicò di volersi occupare per
farla accettare dalle Passioniste di Tarquinia. Il padre, per provarla,
respinse la domanda con disprezzo e con parole umilianti. Non un'ombra
passò su quel volto, non un moto qualsiasi che rivelasse un'interna
commozione: parve anzi godere d'essere trattata così.
Al padre venne allora in mente «che ciò fosse effetto più che di
stupidaggine, di vera e soda virtù», e le disse: «Se volete che mi
occupi di farvi entrare tra le monache passioniste, è necessario che io
conosca se veramente Iddio vi ci chiama. Dite dunque che mi dia quei
segni che io ho chiesto fino da questo momento». I segni erano di poter
vedere in quella creatura il sudore di sangue e le stimmate, ma non lo
disse ad anima viva. Poi, egli uscì tornando per l'ora del pranzo.
Secondo il solito, verso le due e mezzo pomeridiane, Gemma se ne andò
dinanzi ad un crocifisso molto venerato in casa Giannini, per farsi
l'ora santa. Poco dopo, in punta di piedi, la signora Cecilia si
avvicinò alla porta e vide Gemma estatica. Fece cenno al padre di
seguirla. Entrarono. Gemma aveva il volto cadaverico, cosparso di
sudore sanguigno che le spillava dalla fronte, dagli occhi, dal naso,
dalla bocca, dalle orecchie, dalle mani e fino dalle unghie. Quel
sangue subito si aggrumava, ma non le toglieva nulla della sua
bellezza. Sebbene fosse interamente astratta dai sensi, si divincolava
leggermente nella persona, come chi soffra acuti dolori. il sangue
continuò a spillare per circa mezz'ora. Il padre si ritirò vivamente
commosso.
In giornata, Gemma disse alla signora Cecilia: «il padre ha chiesto a
Gesù due segni, e Gesù mi ha detto che uno gliel'ha già dato e l'altro
glielo darà. Che saranno mai questi segni?».
Verso le cinque del giorno stesso, appena tornato a casa, il padre vede
venire a sé tutta ansante la signora Cecilia che gli domanda: «Ma,
padre, l'altro segno che lei ha chiesto, sarebbe forse le stimmate?».
«Perché questa domanda?», rispose il padre stupito. «Glielo domando»
soggiunse la buona signora, «perché ho veduto che nelle mani di Gemma
sono già apparse due macchie assai rosse sopra il dorso e nella palma
delle stesse mani, come appunto avviene il giovedì sera. E tutta
astratta, cerca di nascondere le mani indifferentemente con le maniche
del suo corpetto».
Anche il padre vide Gemma, le rivolse alcune parole tenendo d'occhio le
mani, e in un piccolo movimento che fece, egli pure vide nel dorso
della mano sinistra una macchia rossastra. «Pareva che in quel punto
l'epidermide fosse nuova e rossiccia, come suole accadere quando, dopo
apertasi una piaga, rimarginata che sia, vi si stende sopra una
pellicola nuova. Era lunga circa due centimetri».
A cena, Gemma mangiò ancor meno del solito.
Alla fine, chiese la benedizione del padre, e si ritirò in camera.
La signora Cecilia la tenne d'occhio. Dopo cinque minuti, chiamò il
padre, il quale, seguito da don Agrimonti, entrò in camera.
«Ecco ciò che vidi con i miei propri occhi in quel momento», dice il
padre.
«Il capo di quella creatura era privo di movimento, flessibilissimo. La
faccia aveva di vero cadavere. Le mani erano come attratte, e in mezzo
di esse, tanto nella palma, come sul dorso, vidi delle vere piaghe
della grandezza di un centimetro, in forma ovale.
«Intorno al capo vidi pure apparire diverse stille di sangue,
specialmente sopra le tempie. Lo spettacolo durò circa dieci minuti,
trascorsi i quali osservai nuovamente le mani e vidi che l'epidermide
era tornata allo stato naturale e solo vi rimanevano delle gocce di
sangue. Trascorsi venti minuti, vidi che era cessato quel colore
cadaverico della faccia, e aveva ripreso il colore naturale».
«Gesù mi aveva esaudito» dice il venerato padre, «e io, ringraziandolo,
deposi ogni dubbio sfavorevole, rimanendo fermo a credere che digitus
Dei est hic».
La mattina, egli andò da monsignor Volpi e gli disse le sue
impressioni. Parlarono a lungo, e Monsignore gli dette ogni facoltà di
esaminare la santa giovinetta.
Cinque giorni dopo, da Firenze, scriveva a Monsignore e così chiudeva
la sua relazione: «Io vidi coi miei propri occhi le ferite delle mani,
tanto sotto le palme, quanto sopra; erano veri squarci. Alla fine
dell'estasi, tutto era rimarginato, e solo rimasero le cicatrici. Com'è
possibile che naturalmente si rimargini una ferita in un istante? Non
ardisco dire che l'opera sia effetto di Dio, ma opino molto che così
sia proprio; e questo, perché la giovane è umilissima, obbediente,
innocente, e amante in modo particolare del patire. Insisto pertanto
che l'Eccellenza Vostra Rev.ma, provvisoriamente, la metta in qualche
monastero, per le molte ragioni che sa».
Se per la signora Cecilia il soggiorno a Lucca dei due padri fu un
grande sollievo, potendo chieder loro spiegazioni e consigli e sentendo
approvata la sua prudente riservatezza, non fu così per il povero
monsignor Volpi, il quale si trovò in un oceano di penosissime
perplessità.
Le relazioni erano di persone autorevoli. Conosceva la dottrina e la
santità del padre Pietro-Paolo.
Conosceva Gemma fin da piccola, ne aveva sempre seguita l'anima nel
cammino ascendente, la sapeva così candida, umile, mite e tranquilla,
che rifuggiva dal solo pensarla vittima di qualche illusione diabolica
o di un forte isterismo. Né satana poteva regnare in quell'anima, né in
lei egli riscontrava qualche sintomo, atto a rivelare la presenza
d'isterismo. La cosa però era delicatissima, e se tutti dovevano andare
a rilento nel pronunciarsi, molto più doveva farlo lui, come vescovo e
ausiliare di un più che prudentissimo arcivescovo; egli sentiva tutto
il peso della sua grave responsabilità e ne soffriva.
Monsignore non avrebbe rivelato la prudenza che aveva, se avesse agito
con più precipitazione. Nel fondo, proprio nel fondo del cuore,
anch'egli pensava che l'autore di tali meraviglie fosse Dio; ma allora
non osava, non poteva dirlo. Lo dirà in seguito, e in modo assoluto.
Incominciò dall'ordinare alla santa di cessare da ogni esterna
manifestazione di cose straordinarie, e allora cominciò per lei l'era
delle grandi prove che durò fino al giorno in cui, spegnendosi sulla
croce, potrà dire veramente: «Consummatum est».
Obbedientissima, aderì subito senza rimpianti al comando di Monsignore.
Ma tutto non dipendeva da lei, e dopo un breve periodo in cui credette
e sperò di essere tornata per quella via comune che tanto invidiava
negli altri, il Signore volle comunicarsi con le manifestazioni
straordinarie di un amore di predilezione. Era terribile dover lottare
con Dio, respingere il suo amore, o, meglio, le manifestazioni del suo
amore; sentirsi invincibilmente portata a condividere i dolori di Gesù
e non potere, non dovere.
Di più il dubbio continuo, doloroso, opprimente, di essere ingannata;
il penoso stato d'animo di Monsignore, da lei soprannaturalmente
intuito e anche umanamente compreso... Tutto ciò le era un martirio.
Fin da piccola, egli le era stato padre; l'anima sua gli doveva tanto;
nutriva per lui grande deferenza e filiale affezione; e ora, egli
dubitava di lei, la pensava trastullo di satana o di morbose
illusioni?! Povera Gemma!
«Queste cose» scriveva a Monsignore «sembrano impossibili anche a me,
come sembrano a lei... Ma mi raccomando, non mi rimproveri per questo.
Io non so che fare; vorrei essere buona e altro; ma mi prendono...
Anzi, sono costretta a inquietarmi con Gesù e dire: "Vedete, Gesù mio,
se vi foste mostrato meno amabile con me, e se non mi aveste fatto
conoscere che mi volevate tanto bene, io vi avrei amato meno. Avete
fatto così; io ora non posso stare senza di voi". Ho detto a Gesù che
se è lui veramente, faccia vedere tutto; se fosse la mia testa, non la
sopporterei più».
Nonostante tutto, però, nonostante il dubbio e l'intima sofferenza, si
mantiene tranquilla; sente di amare Gesù, sente che Gesù l'ama, che è
lui ad operare in lei, e con giusta ragione può rispondere: «Ma... io
dubito, perché dubitano gli altri», quando egli le dice al cuore: «Tu poi di che temi? Più volte ti
ho fatto conoscere chi sono... A me dispiacciono assai i tuoi dubbi».
«Nonostante tutto, però, nonostante il dubbio e la carità, se sei
proprio Gesù fatti conoscere. Così non possiamo più andare avanti; né
io, né il confessore, né quelli che sanno queste cose».
Come poteva, il Signore, non sentirsi attratto irresistibilmente da
tanto candore e da tanta semplicità? Piangendo, Gemma resisteva alle
amorose, potenti attrattive di lui che, vedendosi tanto glorificato
dall'obbedienza della santa figliola, la metteva di continuo al punto
di dargliene nuove prove.
Ma se questo era per il suo cuore il più dolce olocausto, egli aveva
anche pietà della sua povera creatura. Nella bontà sua, le dette quindi
un segno per riconoscere se le visioni che aveva fossero dal buio dal
demonio: «Quando ti comparirà qualcuno, pronuncia subito queste parole
a voce alta: Sia benedetto Gesù e Maria! Se ti risponde, è segno che
viene da me, altrimenti alzati e distraiti, perché è l'ingannatore.
Obbedisci ciecamente, e non temere. Accetta, o figlia, vivi quieta, io
sarò sempre con te».
Parole consolanti, atte a compensarla di ogni amarezza.
«Nella croce sta il tutto» dice il libro dell'Imitazione di Cristo, «e
tutto consiste nel morirvi. Né v'è altra strada che meni alla vita e
alla vera pace interiore, se non la via della santa croce e della
quotidiana mortificazione».
Gemma di buon'ora s'incamminò per la via della croce; ma sul punto di
inoltrarvela più ancora, il Signore parlò chiaro all'anima sua,
l'iniziò, la educò intimamente al mistero della croce.
Già nel giugno del 1899, alla fine di quell'ora santa, tanto memorabile
per l'apparizione di Gesù crocifisso, lei vide come in un quadro ciò
che le riserbava il futuro, e Gesù le disse che la voleva in tutto
simile a sé.
Le si parò allora innanzi una serie di prove dolorose, di tristezze, di
incomprensioni, di persecuzioni, di calunnie, di abbandoni da parte
delle creature e dello stesso Dio, di profondissime tenebre, solcate
solo di quando in quando da qualche sprazzo di luce. Era l'agonia del
Getsemani e l'agonia del Calvario. Ma anche Gemma avrebbe esclamato
come Gesù:
«Si faccia, o Padre, la tua volontà e non la mia», e dall'alto della
nuda croce avrebbe ripetuto: «Padre, perdona loro, perché non sanno
quello ch'essi fanno». «Sitio!, ho sete: sete di anime, sete di amore».
Gesù l'educò per il martirio. Egli fu l'unico suo maestro. Infatti, se
Gemma, di quando in quando, ascoltava qualche predica, non leggeva però
mai: ciò che seppe, tutto le fu insegnato dal maestro divino.
Raccogliamone qui tutte le lezioni.
Gesù iniziò il suo insegnamento sul dolore offrendole la croce, la sua;
poi il calice, il suo; e la santa sempre ugualmente rispondeva: «Sia
fatta, o Gesù, la tua volontà». Poneva innanzi la sua miseria, le sue
deboli forze, il timore di non reggere, la naturale ripugnanza al
dolore, talvolta vivissima; ma Gesù l'animava sempre alla fiducia. Egli
stesso sarebbe la sua forza.
«Abbraccia la croce,
figlia mia» le diceva, «e
sta' sicura che, mentre ti sazi di patire, sazi il cuor mio; e ricorda
che, quanto più la croce è amara al tuo cuore, allora è più conforme
alla mia.
Io, vedi, ho compassione
della tua debolezza, ti mando a stille l'amaro calice della mia
passione, e ti visitai a volte con una piccola parte del mio patire».
«Non temere: il patire
prende la misura del peso che gli dà la mano di Gesù in proporzione di
quello che vuol farne sentire» le ripeteva al cuore il suo
buon angelo; «e così
ordina le circostanze della cosa, e disporrà il tuo cuore a riceverlo».
«Ma non è mica il dolore» replicava Gemma «che deve conformarsi a noi;
siamo noi che dobbiamo conformarci al dolore; è la nostra volontà che
vi si deve piegare e aderirvi».
Accendendole in cuore il desiderio di soffrire, il Signore l'andava
preparando ad una grande croce, a una nuova forma di dolore. Un giorno,
le raccomandò infatti di dire al suo confessore che le avrebbe mandato
tante croci. Invece di amore, avrebbe ricevuto odio e disprezzo. Gesù
stesso l'avrebbe abbandonata; ma in tale abbandono, invece di anelare
alla fine, avrebbe dovuto prepararsi ad altre croci, e fortemente
sostenerle.
Ma perché Gesù vuol mandare croci ai suoi più cari amici? «Perché
desidera di possederne tutta l'anima; e per questo, la circonda di
croci e la chiude nella tribolazione. Perché non le sfugga di mano,
cosparge le sue cose di spine, di maniera che, non affezionandosi a
nulla, trovi ogni suo contento in lui solo». Questa una delle tante
lezioni di Gesù a Gemma. «Ma,
figlia mia» soggiungeva, «se la croce tu non la sentissi,
non si potrebbe chiamarla col nome di croce. Stai pur sicura che sotto
la croce non ti perderai. Il demonio non ha forza contro quelle anime
che, per amor mio, gemono sotto la croce. O figlia mia, quanti mi
avrebbero abbandonato, se non li avessi crocifissi! La croce è un dono
prezioso e da esso si apprendono molte virtù».
E quando la croce le faceva tanto sentire tutto il suo peso, Gemma,
piegandosi sotto, esclamava: «Gesù mio, non ne posso più!». Gesù,
rivelandole la sua missione, il perché del suo tanto soffrire,
l'animava, ponendo a paragone ai dolori di lei i suoi: «Figlia mia, anch'io non ne posso
più dei cattivi trattamenti che ricevo dagli empi. Tu, col tuo
soffrire, trattieni il castigo che il Padre mio ha preparato per tanti
poveri peccatori. E non lo fai volentieri?... Non temere. Io ti farò
soffrire, ma te ne darò anche la forza. O figlia mia, tu non te ne
avvedi, ma ti aiuto più ora che prima. Oh! quanto sei più cara ai miei
occhi in questi momenti, di quando ti trovi in consolazioni!... Guarda
in che modo mi trattano oggi le persone del mondo. Io sono fortemente
sdegnato con quelli che mi offendono».
L'amore non si prova che col dolore, e a Gemma che vuole una cosa sola:
amarlo, amarlo tanto il suo Gesù, questi dice:
«O anima a me cara, se
veramente vuoi amarmi, eccoti il mio calice: Vuoi berlo fino all'ultima
stilla?.. - A quel medesimo calice ho posto le mie labbra, e tu stessa
voglio che vi beva.
«Questa croce che ti ho
mandato, non l'hai tanto cara, anzi è contraria al tuo cuore, e quanto
più è contraria, tanto più è simile alla mia. Non ti parrebbe cosa
orrenda vedere un padre tra i dolori e la figlia tra i godimenti?
«Quando sarò tuo sposo di
sangue, ti vorrò crocifissa. Mostra tu l'amore tuo verso di me come io
l'ho mostrato verso di te; e sai come? Soffrendo pene e croci senza
numero. Devi però tenerti onorata se ti tratto così e se ti conduco per
vie aspre e dolorose; se permetto che ti tormenti il demonio, che ti
disgusti il mondo, che ti affliggano le persone a te più care, e con
quotidiano e occulto martirio permetto che l'anima tua sia purificata e
provata. E tu, figlia mia, pensa solo in questo tempo ad esercitare
grandi virtù, ché questo è il momento: corri per le vie del divino
volere, umiliati, e sta' sicura che se ti tengo in croce, ti amo»
Per le vie aspre e dolorose per le quali Dio vuole condurla, lei deve
trovare la sua gioia. «Ti sembra che ti manchi sotto i piedi la terra,
dinanzi agli occhi il cielo, ma tu non mancare di fede, di amore, di
speranza. Attendi solo a guadagnare meriti con l'esercizio della virtù.
Disprezza le dicerie del mondo, e, a dispetto dei tuoi nemici, cammina
per le vie del divino volere, stringiti forte a me, umiliati innanzi a
me, ricorri in tutti i momenti alla mia infinita bontà, e sappi
giovarti di questi mezzi che il demonio tenta per rovinarti. Se
veramente mi ami, mi ami ancora tra le tenebre».
«Si delizia, il Signore, a scherzare con le anime a lui più care e
scherza per amore: ora le consola, ora le mette in venerazione presso
gli uomini, ora permette che diventino il ludibrio del mondo, ora le fa
coraggiose contro tutto l'inferno, ora le lascia atterrire da un nulla.
Chi crede di patire, ha poca luce; chi soffre e se ne crede lontano è
illuminato; chi sta sotto terra, è in cielo e vive in croce; chi ha il
primo luogo in terra, ha l'ultimo innanzi a Dio; chi conosce la croce,
la prega; chi non la conosce, la fugge».
CAPITOLO XXII. - «NON VOGLIONO CREDERE»
Monsignor Volpi sempre lottava.
Per dargli una prova che tutto veniva da lui, Gesù gli fece dire che
fino a un suo cenno egli non si sarebbe più fatto vedere né sentire da
Gemma. Lei riferì tutto; ma Monsignore le dichiarò un giorno
apertamente che, se Dio non gli avesse fatto vedere le cose ben chiare,
non avrebbe mai creduto alle sue fantasticherie.
Gemma umilmente tacque: ormai, sapeva che la sua via era quella della
croce.
Dopo aver molto riflettuto, monsignor Volpi, per uscire dalle sue
perplessità, decise di affidarsi alla scienza.
Alla signora Cecilia, andata secondo il solito a rendergli conto di
tutto, disse segretamente che il prossimo venerdì sarebbe andato col
medico X a far esaminare le stimmate di Gemma.
La signora Cecilia ne fu contentissima, né fiatò con anima viva.
Neppure un minimo dubbio si affacciava del resto alla sua mente.
Testimoni autorevolissimi si erano resi ben conto della cosa, e di più
Gemma presentava tutti i contrassegni di una vera santità.
Gli uomini volevano agire a sua insaputa, ma Dio stesso la mise al
corrente, intimandole di scrivere a Monsignore che:
Qualunque segno egli avesse chiesto, lo avrebbe ottenuto, purché fosse
solo; ma in presenza del medico, nulla farebbe di quanto desiderava: si
assicurasse, però, non trattarsi di una malattia come avevano creduto.
Rapita in estasi: «Gesù, contentami» esclamava frattanto Gemma. «Mi hai
pur sempre detto che qualunque grazia me la facevi?... La voglio questa
grazia... Io ci credo; ma lo sai chi non ci crede... Non mica per me,
ché io sto meglio così... Non credono che tu sia te... Credono che io
sia matta... Ma non sono mica matta; è vero, Gesù?
«Eh! lo so... Me lo dicesti anche ieri sera, chi sa quanti ti
abbandonerebbero se non li tenessi crocifissi! ... Ti ringrazio che,
per amor tuo, mi tieni così in croce. Sono in croce davvero... Hai
fatto tanto, e io per te non ho fatto nulla.
«Più grosso non potrebbe essere questo sacrificio... Quanto più si va
in là, e tanto più sono simile a te. Chi sa se tu non mi tenessi così
in croce, quante volte ti avrei abbandonato!
«Per me è un sacrificio... Bisogna che stia lì... Ma pensaci... Se poi
fanno più di quel che vedono fare, castigali... E buono anche il
dottore; me l'hai detto tu...
«Io dico, dico, ma non mi crede nessuno. Ma quando conosceranno, che
sei te... Tu lo sai meglio di me quante ne sono sortite fuori... (cioè
quante sinistre interpretazioni)».
Anche qui torna la preoccupazione di Gemma per la custodia della sua
purezza. Gesù stesso la tranquillizza riguardo al medico, e le dice che
è buono. Consolante assicurazione quando è uscita dalle labbra
dell'unico buono.
Quale la natura, la durata, l'estensione delle prove che vogliono fare
di lei? Non lo sa. Tremante si raccomanda quindi al Signore: «Pensaci
tu!». Di lui si fida!
Quando Dio emana un ordine, l'uomo, libero, lo accetta o non lo
accetta, perché la volontà di Dio non violenta mai l'umana libertà.
A monsignor Volpi pareva bene di non accettarlo, non potendo ancora
stabilire se veramente gli venisse da Dio; né mutò proposito.
Frattanto, per la povera Gemma così umile e così timida, la prospettiva
di aver lui presente a ciò che le dava tanta confusione e pena,
l'intimidiva, né avrebbe voluto, come il solito, mettersi in orazione
quel venerdì. Vinta però quella naturale ripugnanza, al tocco e mezzo
si ritirò in camera.
Poco dopo entrò in estasi, e il sangue incominciò a spillare dalla
fronte, dalle tempie e dalle ferite aperte delle mani. Così la videro
la signora Cecilia, il cavalier Giannini con la moglie ed altri di casa.
Circa le due, ecco arrivare Monsignore in compagnia del medico. Gli
animi loro erano dominati da due diversi sentimenti. Monsignore,
perplesso, veniva in cerca della verità; il dottore sperava di rendere
a Monsignore la tranquillità perduta, col fargli toccare con mano un
caso di isterismo.
Tutta festosa, la signora Cecilia va loro incontro: «Venga, venga,
Monsignore, che proprio ora è nel punto più bello».
Monsignore entra, seguito dal medico.
Questi guarda, vede qualche macchia rossastra sulla fronte e sulle mani
di Gemma, ma non si scompone. Prende un asciugamano, lo bagna, lava la
fronte e le mani... sparisce il sangue, non torna a spillare, non resta
una minima cicatrice, anzi, neppure si vedono quelle, pur esistenti,
delle stimmate. Lo stesso risultato dà la prova, fatta privatamente, al
costato e ai piedi di Gemma.
«Vedete, vedete» diceva il medico, «è tutto effetto d'isterismo. Hanno
bisogno di far così, in queste malattie. Si bucano con spilli, con
aghi, ecc.». Supporre sia pure lontanamente una simile impostura era
non conoscere affatto l'animo e la natura di Gemma!
«Non ammetto che la serva di Dio fosse capace di ricorrere a simili
mezzi di simulazione», dice energicamente Monsignore.
Immobile, estatica, lontana dalla terra essa non sentiva, non vedeva
nulla di quanto la circondava: né lo scontento, né l'irritazione, né
l'amaro della disillusione, né i commenti così sfavorevoli per lei, né
quei lunghi, opprimenti, dolorosi silenzi che seguivano. Tutta assorta
nella contemplazione del dramma della passione che si svolgeva dinanzi
al suo occhio interiore e al quale si associava, Gemma chiedeva a Gesù
di soffrire, di sacrificarsi, d'immolarsi per lui, e forza per poter
giungere a ciò.
Monsignore era turbato, e credette per un momento di essere nel vero,
non lo fu però senza una interna pena.
E che stato d'animo quello della signora Cecilia! Non credeva a se
stessa! Lei, la madre adottiva di quell'angelo; lei che ne conosceva i
più intimi segreti, che l'amava tanto, che più d'ogni altro aveva
creduto di poter ammirare un'opera divina incessante nella sua
protetta; lei, ingannata così?! Ma no, non poteva essere! Qualche cosa
continuava a dirle in fondo all'anima: Dominus est non temere. Che
lotta in quel cuore!
E i suoi ospiti amorevoli? E don Lorenzo Agrimonti? Si erano illusi di
aver con loro una santa, avevano invece una pazzerella,
un'ingannatrice, una malata? Erano dunque vittime di un inganno? I
fatti parlavano chiaro; il dubbio non era ammissibile.
Gemma, alla fine dell'estasi, sapeva dal suo Gesù che il medico era
venuto, non aveva visto nulla, e una grande croce l'aspettava.
Tornata in sé, capì la realtà della cosa! vide tutto cambiato intorno a
sé. Gelo, freddezza, scontento mal dissimulato; forse anche aperto
rimprovero e risentimento; forse domande umilianti sul suo modo di
agire.
Per colmo di pena, il Signore le faceva vedere i pensieri di tutti
quelli che si erano cambiati a suo riguardo: «Uno pensò fino che fossi
sonnambula» ella dice; «altri credono che io sia malata; altri che i
segni nelle mani e nei piedi sia io che me li faccio».
Ora, che stima, che fiducia, che tranquillità, che affetto poteva
aspettarsi una creatura giudicata così?
Gemma non aspirava alla stima, alla fiducia, all'affetto urnano; ma
pure sentiva il disagio penoso offerto da un ambiente che, per un
motivo in apparenza giusto, diffidava; e quest'ambiente glielo aveva
creato la carità; in esso avrebbe voluto quasi sparire per non
procurare noie, far sorgere difficoltà.
Invece... Ma tutto questo perché? Perché non si era voluto credere al
motivo di Gesù, né si era accettato. Ciò che egli aveva detto, era
accaduto, e perché era accaduto, ci si scagliava contro di lei.
Mettiamoci nei panni di quella poverina, diciamolo pure:
la sua posizione era delle più dolorose! Ma sempre soprannaturale nella
gioia e nel dolore: «Gesù mi ha detto che sono tutte cose che permette
lui; permetterà anche peggio» scrive. «Però, mi ha assicurato che, per
mezzo del padre, persuaderà bene il confessore. Le altre persone vuole
che restino così». E così fu, e così è almeno per alcune.
Verso sera, la signora Cecilia uscì di casa per distrarsi un poco, e
condusse con sé la povera Gemma.
Cammin facendo, questa chiese timidamente: «Mi porti un po'da Gesù? Ho
bisogno di Gesù».
Come sono eloquenti, nella loro semplicità, queste parole! E quanto
amore fiducioso, quanto segreto dolore, quanto tenero abbandono non
celano mai?
Andarono in una chiesa solitaria e deserta. Quei due cuori anche con
Gesù avevano bisogno di solitudine. Circa un'ora durò quel cuore a
cuore. La signora Cecilia teneva d'occhio la santa.
Questa stava nella sua posizione abituale, con gli occhi al
tabernacolo, senza pose, senza sforzo.
Poco prima di uscire, esitante, ella disse alla signora Cecilia: «Avrei
da dirle una cosa, ma mi vergogno tanto!». Aveva ben motivo, infatti,
di provare, dopo l'accaduto, un senso di raddoppiata timidezza!
Invitata a parlare, tirò fuori le mani dalla mantellina, e con quel suo
fare dolcissimo, le porse alla signora Cecilia. Su quelle mani bianche
si vedevano due piccoli squarci, e da essi spillava sangue.
Nuova lotta nell'anima della madre adottiva! «Ebbene, ne giudichi da sé
Monsignore» fu il suo pensiero; non aveva coraggio di condurvela, e,
incontrata, appena uscita di chiesa, una sua buona amica: «Mi fai il
piacere» le disse, accennando a Gemma «di condurla da Monsignore, che
ha bisogno di parlargli?».
Meravigliosa fu la semplicità e l'umiltà della santa figliola. Che
poteva aspettarsi in quel momento da Monsignore, disgustato e
sconcertato dell'accaduto? Una meno virtuosa di lei si sarebbe forse
schernita, avrebbe mostrato un po' di difficoltà.
Gemma, nulla. Seguì l'accompagnatrice senza una parola, senza una
riflessione. Monsignore si trovava a pochi passi, nella scuola serale
Matteo Civitale da lui fondata. Gemma, rimasta sola con lui, gli parlò
e gli mostrò le mani. Monsignore le guardò; non solo vide il sangue che
usciva, ma si rese conto veramente delle ferite dalle quali usciva. Che
provò a quella vista? Non lo disse. Nella sua prudenza, guardò
silenziosamente, non mostrò alcuna meraviglia, e con indifferenza si
affrettò a rimandare Gemma, che tornò dalla signora Cecilia con la
stessa semplicità e umiltà con cui era andata da Monsignore.
Interrogata da lei sull'esito dell'abboccamento, si limitò a rispondere
che aveva parlato con Monsignore, gli aveva fatto vedere tutto, gli
aveva detto tutto.
Questi, essa non lo sapeva, ne rimase colpito e in seguito dirà:
«Confesso che ebbi l'impressione doversi trattare di un fatto non
naturale, considerando che l'indomani, come mi assicurarono, la piaga
era interamente sparita. Oggi, dopo alcuni anni d'esperienza, mi sono
persuaso che tali fatti sono voluti da Dio per dare agli uomini una
prova sensibile ed esterna del movimento interiore e spirituale che
egli produce alcune volte nelle anime privilegiate».
In Gemma, neppure l'ombra di un amor proprio vincitore. «Gesù mi ha
detto» scrisse la sera stessa a Monsignore, con una pace, una
tranquillità che varrebbe da sola a provare la santità di lei, «Gesù mi
ha detto: "Non ti ricordi, figlia mia, che, tempo addietro, ti dissi
che veniva un giorno nel quale nessuno più ti credeva? Ebbene, quel
giorno è appunto oggi. Oh! ma quanto mi sei più accetta così
disprezzata"... Gesù oggi ha voluto che facessi un sacrificio, e l'ho
fatto volentieri: sia pure, come ha detto quel medico, che è isterismo;
appunto perché è così, Gesù mi vuoi più bene. Però, mi ha detto che, in
confronto a quello che devo passare, è nulla».
Ecco l'unico suo sfogo!
«Appunto perché è così, Gesù mi vuoi più bene!».
Si dica, apertis verbis, ad un isterico: tu sei isterico; o
semplicemente a un nervoso che è nervoso, e lo si vedrà impennarsi,
risentirsi, o, se non altro, abbattersi. Più che raro è chi voglia
convenire, e, più che rarissimo poi, chi, anche convinto di esserlo,
accetti di sentirselo dire. Gemma lo sente dire, lo accetta, si rifugia
dal padre, dall'amico, dall'unico vero medico, e senza voler male agli
uomini per questa falsa accusa. Anzi, in una lettera scritta molto
tempo dopo a un Passionista per un affare importantissimo: «Per carità»
dice con la massima umiltà, «quando gli altri padri sentiranno questa
lettera dica pur loro che non prestino fede a tutto ciò, perché è tutto
lavoro (ha detto il medico) d'isterismo. Ma spero che anche senza dirlo
lei, mi conosceranno tutti».
Gli eventi mostrano se il contenuto di quella lettera fosse lavoro
d'isterismo. Ciò che aveva detto Gemma si avverò a puntino. Ma tornando
al periodo della grande prova, alterò in nulla, la cara figliola, il
suo programma di vita? Perse nulla della sua docilità, della sua pietà,
della sua costante obbedienza? Nulla! Mostrò di perdere, sia pure un
istante, malgrado il suo interno martirio, la pace dell'anima,
l'ineffabile serenità, la dolce sua carità? Mai! Chi cerca prove di
virtù eroica, qui le trova in abbondanza.
La lotta contro Gemma partì da Lucca.
Quando nella vita di Gemma scritta dal padre Germano si giunge a questo
punto, si rimane scossi, ma, passato il primo momento, il divino perché
della cosa ci appare nella sua piena evidenza. Si comprende che
l'apparente insuccesso è, invece, uno splendido trionfo dell'infinita
sapienza del signore il quale, traendo da tutto la sua gloria, lo ha
permesso non solo per maggior santificazione di Gemma, ma anche perché,
col sottrarre in tal modo l'opera sua al vano controllo della scienza
umana, la gemma del suo cuore restasse fulgida e bella, per poter un
giorno brillare nella meravigliosa pleiade di santi che ne circonda
l'umanità santissima.
Il dottore non vide nulla. Doveva essere così; non poteva non essere
così; il Signore l'aveva detto. Ma anche se avesse veduto, avrebbe
creduto? Dal vedere al credere, il divario è immenso. Se avesse veduto,
avrebbe saputo spiegare? No, il soprannaturale non si spiega. Se avesse
veduto e si fosse sentito inclinato a credere, non fidandosi di sé,
sarebbe ricorso agli altri medici, questi ad altri, e le opere di Dio,
portate di bocca in bocca, sarebbero venute probabilmente oggetto di
scherno e forse, da qualche incredulo, sarebbero state trascinate nel
fango.
Ma Dio non permise che passasse oltre e neppure che si effettuasse il
progetto di mettere in mano di uno specialista gli scritti di Gemma.
Ella intuisce nell'estasi questo nuovo pericolo e supplica Gesù che ciò
non avvenga. Non per sé lo chiede, ma per lui che metterebbero in
ridicolo. E per l'onore di lui, con la sua confidenza inarrivabile,
chiede un prodigio: «Se il manoscritto dovesse finire nelle mani di
quello specialista, fai, o Signore, che veda solo carta bianca».
Il manoscritto non fu consegnato.
Se si trovò il modo di scagliarsi velenosamente contro santa Teresa di
Gesù Bambino (la cui vita fu tutta semplicità e amore), tentando di
denigrarla anche dopo canonizzata; se la sua rapidissima glorificazione
costò indicibili dolori alla sua sorella, la madre Agnese, come
sorprendersi che qualche nemico lo conti anche Gemma?
CAPITOLO XXIII. - SETE DIVINA E UMANO SGOMENTO DEL DOLORE
Il medico curante della santa fa di lei questo bell'elogio: «Quello che
posso dire si è che l'ho dovuta riconoscere come una fanciulla
piissima, modesta molto, riservata e di poche parole; l'ho sempre
trovata di animo molto mite, che si sottometteva volentieri alle cure
prescritte, ancorché dolorose, e le sopportava con molta rassegnazione»
Questa rassegnazione, questa tranquillità, Gemma la manterrà sempre
anche tra le prove morali. Allo scatenarsi della tempesta dopo
l'infruttuosa visita medica, accettò in silenzio non la materiale, ma
la morale e irrisoria divisa di pazzia, senza opporre resistenza a chi,
malmenandola, la diceva figlia di satana e impostora. «Questi patimenti
li abbraccio tutti volentieri» dice, «perché sono i patimenti stessi di
Gesù.
«Se, per misericordia di Dio, provo dei momenti felici, è quando mi
vedo disprezzata e umiliata.
«No, non basta aver sotto gli occhi la croce, averla addosso; bisogna
averla in mezzo al cuore. Non la ricuso, perché, se ricuso la croce,
ricuso anche Gesù. Ormai il mio amore è tutto alla croce. L’amo, perché
so che prima l'hai amata tu e perché sono certa che tu vuoi bene quando
fai soffrire».
Che cosa la sostiene nel dolore? Unicamente l'amore:
«L'amore di Gesù mi dà forza di patire». E se l'amore la sostiene nel
dolore, il dolore la rafforza nell'amore. «A tutela del mio amore, fa'
ch'io ricordi, o Gesù, che a me è dovuto il dolore». Non soffre sola,
ma con Gesù.
Si soffre bene quando si soffre insieme. «Nella tua vita, ti vedo
sempre nutrito di dolori, o Gesù, e io voglio sempre patire con te.
Appunto nella tua croce ho riposto tutta la mia forza. O croce santa,
lascia che ti possa abbracciare!».
Da ciò nasce la riconoscenza. «Ti ringrazio, o Gesù, che mi tieni così
in croce! Crescano pure i patimenti miei. Sarebbe tutta misericordia
tua, se tu accumulassi pene ed afflizioni. Ne meriterei tante di più!
Se me ne vuoi aggiungere bacerò sempre la tua mano».
Gemma non ignora il prezzo del dolore. «I momenti più dolorosi sono i
momenti più preziosi... Se io dovessi stare nel mondo senza soffrire,
ti direi: "Fammi morire ora"».
Questi i motivi addotti da Gemma per spiegare la sua sete di dolore;
questo il suo linguaggio, tutto soprannaturale e santo. Ma questa sete
di dolore, questo amore alla croce risiede in lei, come in tutti i
santi del resto, nella sola parte superiore dell'anima. La povera
natura umana, che naturalmente ripugna al dolore, in lei vi ripugna
moltissimo. Alcuni santi questa ripugnanza seppero talmente occultarla
da sembrare che tutto in loro fosse slancio e ardore; altri, come santa
Teresina di Lisieux, seppero forse più velarla di sorriso e di gioia. E
per quanto anche dagli scritti di santa Teresina s'intravedano delle
lacrime e delle tristezze, pure nelle lettere di Gemma al suo direttore
e nelle sue estasi, questa lotta, questi gemiti, queste apprensioni
sono assai più palesi. Anche le sue sofferenze sono però più grandi e
numerose.
«Alla vista della croce s'intimoriscono tutti i miei sensi» scrive,
«(questo non è peccato, mi dice il confessore) pure, con tanta
ripugnanza, il mio cuore abbraccia le sue pene e in esse ripone ogni
sua delizia».
«Gesù avrà compassione di me» dice altrove, «perché vede il mio cuore,
sa le disposizioni in cui sono di soffrire tutto e di far tutto. Vedrà
ancora il dolore che provo di vederlo così indegnamente trattato... Col
cuore pentito, mi porrò davanti a Gesù, pronta a ricevere dalla sua
mano tutto ciò che gli piacerà esigere da me per la riparazione di
tanti oltraggi che riceve. Batta, batta pure, Gesù. Benedirò un milione
di volte quella mano che esercita sopra di me un così troppo giusto
castigo».
«Lo so, non dovrei piangere, dovrei invece rallegrarmi. Vuoi che ripeta
le parole di san Paolo: Mi glorio, Gesù, nelle tribolazioni... Eppure,
tante volte mi abbatto e piango... il mio spirito è pronto, ma il mio
corpo è debole».
«Il dolore mi sbalordisce», ella dice, e trema dinanzi alla prospettiva
della croce; ma ne trionfa ed esclama: «Non ti curare, o Gesù, del mio
pianto. Crocifiggimi pure, la mia somma gloria è di piacere a te. Sono
contenta che le tue spine penetrino nell'anima mia. Sì, chiedo, domando
a Gesù di patire e patire tanto».
Questa preghiera torna sul labbro incessantemente, e non è questo
eroismo? E appunto nella terribile lotta tra la debolezza umana e la
forza divina del dolore, dove l'anima fa risplendere l'eroismo,
l'energia di una volontà tutta di Dio e la forza dell'amore.
Gemma, pur soffrendo immensamente nell'anima e nel corpo, sempre
sorride e ci dà il segreto della sua gioia: «Il mio cuore possiede
Gesù, e possedendo Gesù sento che posso sorridere anche in mezzo a
tante lacrime, sì, sento di essere felice anche in mezzo a tanti
sconforti».
«Due cose sento in me d'infinita dolcezza: nell'amore, sei tu che
diletti l'anima mia, e nel dolore, sono io che diletto l'anima tua...».
Né sono vane parole, le sue. Ciò che è magnifico, è vederla con la
semplicità della bambina tutto lasciar fare intorno a sé: non
interroga, non s'informa, non si preoccupa. Facciano di lei, con lei,
per lei ciò che vogliono; sarà sempre Gesù a permettere, a ordinare, a
volere.
Non si scusa, non si ritira, non si schermisce, non parla, non tenta di
gettare luce sulle fitte ombre che la circondano.
Le costa enormemente manifestare per obbedienza alla madre adottiva
tutto ciò che Dio le comunica e doverle tutto sottoporre; ma lo fa con
tranquillità e semplicità. Le sue rivelazioni sono sempre o quasi
sempre accolte con apparente incredulità, con apparente disprezzo o con
rimproveri (così doveva fare la signora Cecilia), ma Gemma rimane
sempre eguale, sempre tranquilla, ed è questo il più bel carattere
dell'infanzia spirituale.
Una sola cosa momentaneamente la preoccupa: lo stato d'animo di
Monsignore, il timore di perdere, nella sua guida illuminata, l'unico
appoggio e l'unico conforto che abbia quaggiù.
Ma il Signore le dice che non deve affliggersi di perderlo senza sua
colpa, dato che egli, Gesù, sempre le sarebbe rimasto. Bastano queste
parole a rendere a Gemma la pace e staccarla da ogni sentimento umano.
CAPITOLO XXIV. - NUOVE TESTIMONIANZE
Come bene osserva padre Germano, «la scienza non può avere la pretesa
di darci la spiegazione del soprannaturale, ma solo ne potrà accertare
i fatti. Ora, perché un fatto sia ammesso, non è punto indispensabile
che sia veduto dagli scienziati: chiunque ha occhi per vedere, mani per
toccare, può attestarne la verità. E siccome, nel caso nostro, il
fenomeno non è costante, ma si manifesta a date riprese, lo scienziato
si potrà solo limitare a dirci che, nel momento della sua ispezione,
non si mostrò. Per mostrarlo, deve bastare che testimoni degnissimi di
fede attestino di averlo veduto certissimamente e più volte».
Ora, tra queste persone degnissime di fede che si accertarono coi
propri occhi dei fatti prodigiosi che avvenivano in Gemma, vi fu padre
Pietro-Paolo, il quale, dopo la morte di lei, in una lunga relazione di
ciò che aveva veduto e udito, disse che, a dichiarare tali fenomeni da
Dio, si basava sulla vita di Gemma e sul suo interno così puro, umile e
santo.
«In lei ho potuto conoscere» egli scrive «una verità veramente
angelica. Non solo mantenne sempre l'innocenza battesimale, ma, per
quanto ho potuto capire, un peccato, pienamente avvertito, non lo aveva
mai commesso in tutto il corso della sua vita.
«La sua umiltà fu profondissima. Non aveva alcuna stima di se stessa;
bramava di essere umiliata e ripresa; e siccome delle umiliazioni,
mortificazioni e riprensioni ne ebbe non poche, come pure si vide
disprezzata da molti, ella non mostro giammai il minimo dispiacere;
anzi, allora mostravasi più che mai contenta e col sorriso sulle
labbra. L’obbedienza fu in lei singolare, e dirò ammirabile. Non si
oppose mai, non dirò ad un comando, ma neppure ad un cenno o desiderio
che le venisse esternato, tanto dal direttore. come da me o da chiunque
altro.
«Obbediva sempre con prontezza, con semplicità e allegramente in tutta
l'estensione della parola, qualunque fosse il comando.
«Dove poi fece maggiormente conoscere la sua eroica obbedienza, fu
nell'esercizio dell'orazione. il Signore l'aveva elevata ad un grado
altissimo di contemplazione, talché bastava che si ponesse a pregare, e
tosto si trovava astratta dai sensi. Ebbene, il suo confessore
ordinario le impose che, nel pregare, dovesse tenere il metodo
ordinario dei principianti. La giovane, a tale ordine, non oppose la
minima resistenza, e faceva continui sforzi per eseguire puntualmente
l'ordine avuto, nonostante che si sentisse di continuo attratta a
contemplare Iddio e i suoi divini attributi. E questa specie di
martirio durò in lei, se non erro, per quasi due anni.
«La mortificazione dei suoi sensi era continua e severissima. Si cibava
così scarsamente, che pareva un miracolo potesse vivere... e questo
poco lo prendeva perché forzata dall'obbedienza, che diversamente,
contenta di avere ricevuto Gesù sacramentato, non si curava di altro
cibo materiale. Per lei poi era tutto buono, tutto era sano. Nel
vestire non ebbe mai ambizione di sorta. Mai cercò un vestito, mai un
divertimento, mai un sollievo, come mai si udì lamentarsi né del
freddo, né del caldo. Pareva insensibile a tutto.
«L’amore al patire, poi, sembrava fosse la sua caratteristica speciale.
Da quella benedetta bocca, nessuno udì mai il minimo lamento, sia nelle
malattie travagliatissime che ebbe a soffrire, sia nelle mortificazioni
ed umiliazioni, a cui andò soggetta, sia nelle desolazioni di spirito e
sia negli attacchi crudeli del demonio. La memoria continua che aveva
di Gesù crocifisso la stimolava a patire sempre, né altro voleva che
patire e ciò che pativa era per lei sempre poco.
«Questa creatura si era offerta vittima al cuore sacratissimo di Gesù
per la conversione dei poveri peccatori e, purché ottenesse che questi
tornassero a Dio, nulla affatto curava le sue pene e i suoi dolori.
Bramava continuamente di soffrire con Gesù sulla croce, di vivere
sempre sulla croce e di morire con Gesù sulla croce, nel vero e nudo
patire. E il divin suo sposo pare che in ciò la contentasse, perché
appunto in vita ed in morte ella soffrì sempre i più crudeli martini
tanto nell'anima come nel corpo.
«Che dirò poi della sua unione con Dio? Io non dubito asserire che
questa, se non fu abituale, fu però quasi abituale. La si vedeva sempre
raccolta e con la mente in Dio. Da ciò ne veniva che la sua voce non si
udiva giammai: rispondeva brevemente alle domande che le venivano fatte
e poi se ne stava in silenzio. Era così immedesimata nel sommo bene,
che pareva piuttosto una creatura celeste che terrena. Ecco in breve»
così conclude la sua lunga relazione «le virtù, certamente non
ordinarie, che fanno abbastanza rilevare in lei un'anima tutta piena
dell'amore di Dio. Ed è per questo che io fondatamente opino che tutti
quei segni esteriori, che si verificarono in lei, siano stati effetti
provenienti non d'altro che dalla grazia di Dio».
Egli mai non si smentì, come pure un altro santo e dotto prelato,
monsignor Paolo Tei dei minori Cappuccini, vescovo di Pesaro.
Nativo di Controne, ove i Giannini avevano una villa, egli conobbe
Gemma intimamente, credette con ogni sicurezza al soprannaturale in
lei, e molto ne stimò la virtù, non esitando a definirla eroica anche
nelle deposizioni del processo.
Chiamato a deporre, disse: «Sono felice di poter dare io a Gemma un
attestato della mia devozione col deporre la verità in suo favore per
vederla un giorno glorificata».
CAPITOLO XXV. - IL DRAMMA CRUENTO
I fenomeni esaminati ripetutamente e a distanza di tempo da padre
Pietro-Paolo, le scene dolorose a cui ebbe la grazia di assistere, non
si limitarono più alle stimmate e al sudore sanguigno.
Gran parte del dramma della passione doveva rinnovarsi sotto i suoi
occhi, dramma di cui Gemma doveva essere la protagonista.
Gesù, contentami» aveva esclamato la santa nell'ardore della sua
carità. «Gesù, contentami. Non è più tempo che tu soffra così... Ora ci
sono io: tocca a me». E ancora: «Basta, Signore, quello che hai patito
per me e per i peccatori. Sì, basta. Alla tua croce subentreranno le
mie spalle».
Gesù la prese in parola. Col Vangelo alla mano, portando lo sguardo da
esso a Gemma, vediamo rinnovarsi quel dramma doloroso che si svolse
millenovecento anni fa nell'ingrata Gerusalemme.
Gesù, durante la sua passione, fu umiliato, deriso, oltraggiato. E
Gemma a sua volta fu umiliata, derisa, oltraggiata.
Gesù tacque dinanzi ai tribunali, e Gemma tacque a sua volta. Non si
difese, non rispose, non si scusò, tacque, pregò, perdonò, amò.
Gesù fu flagellato, coronato di spine, sputacchiato. Gemma a sua volta
fu flagellata e coronata di spine; ma ciò non da mano d'uomo, ma dalla
stessa mano divina, che posò sul capo di lei la sua corona pungente,
che aggravò sulle membra di lei i suoi flagelli, che permise ai monelli
di strada di sputarle in faccia per estremo dileggio.
Gemma ricevette la corona di spine dalle mani di Gesù la sera del 19
luglio del 1900. Già due volte le era stata offerta: la prima dal suo
angelo apparsole in estasi con due corone tra mano, una di gigli e
l'altra di spine, domandando a lei quale volesse. Gemma pronta rispose:
«Dammi quella di Gesù: voglio quella di Gesù».
La seconda fu Gesù stesso a domandarle se volesse la sua corona. Dopo
questa duplice accettazione, Gesù passò al dono.
La sera del 19 luglio, Gemma provò una tale sete di patire con lui e
per lui, che Gesù, togliendosi di capo la corona di spine, la posò sul
capo di lei, premendogliela sulle tempie. «Sono momenti dolorosi, ma
felici», esclama Gemma.
Che Gemma avesse ottenuta la corona di spine del suo Gesù, era chiaro
ed evidente. Ogni giovedì sera, anche scomparse le stimmate, il sangue
spillava dalla fronte e dal capo, rigandole il volto e le vesti, o, se
era a letto, inzuppandole i guanciali. Questo fenomeno cessò solo
quando l'obbedienza lo ingiunse.
Pilato, dice il Vangelo, prese Gesù e lo flagellò.
Il primo venerdì di marzo del 1901, Gemma, contemplando le piaghe del
Salvatore e ripetendo a se stessa: «Tutte sono opera di amore», sentì
il suo cuore accendersi di ardentissima brama di essere a sua volta
piagata con lui.
Già da qualche settimana in lei non si manifestava più nulla di
straordinario. il confessore lo aveva proibito, ma, quella sera,
incominciò a sentirsi molto male. La signora Cecilia a tutt'altro
pensava che all'appressarsi di un fenomeno straordinario.
La mandò a letto più presto del solito, e la tenne d'occhio, temendo
trattarsi di qualche seria indisposizione. Ma quale non fu il suo
stupore quando, in una delle visite che le fece, la trovò in estasi con
grandi strisce sanguigne sulle mani, sulle braccia e attorno al collo!
Vi appressò il fazzoletto e lo ritrasse insanguinato. Pensò allora
potersi trattare della flagellazione, tanto più che Gemma sommessamente
ripeteva: «Ma saranno i colpi tuoi, o Gesù?».
Gesù, per quattro venerdì di marzo di quell'anno e qualche volta anche
dopo, in modo cruento ed in modo incruento, associò Gemma al tormento
della sua flagellazione. Questo tormento, nei quattro venerdì di marzo
del 1901, fu di un crescendo spaventoso. Nel primo, non si trattò che
di strisce rosse; nel secondo, la carne era squarciata; nel terzo, più
squarciata ancora da lasciare quasi l'osso allo scoperto; nel quarto,
una cosa da non dirsi: piaghe dappertutto, profonde anche un centimetro.
Perché tanta differenza dal primo venerdì agli altri? «Perché prima
erano frustate» disse Gemma, «poi flagelli». Quelle piaghe cerchiate di
paonazzo destavano orrore: il sangue ne sgorgava in tanta copia che,
quando era in piedi, cadeva fino a terra, e quando era a letto
inzuppava il materasso.
Che soffrisse atrocemente era palese. Un lieve tremito le scoteva le
braccia, e, voltando l'occhio languido verso la madre adottiva,
implorando aiuto: «Mi raccomandi tanto a Gesù» diceva. «Mamma mia,
eterno divin Padre!». Gli astanti sentivano straziarsi il cuore.
Le ferite si cicatrizzavano e sparivano come per incanto; ma una volta
che la signora Cecilia volle provare a fasciargliene due, queste due
non si rimarginarono, ma vennero a suppurazione facendola molto
soffrire.
Gesù, flagellato, coronato di spine, fu da Pilato presentato al popolo
con queste parole: Ecce homo. Più di una volta anche il volto di Gemma
apparve come quello di un Ecce homo cosparso di sangue, di lividure e
improntato a quella dolorosa maestà che aveva il volto di Cristo
presentato dal giudice all'ingrato suo popolo.
La maestà del volto di Gemma, la sua dolorosa espressione, lasciò in
chi la vide un ricordo indelebile. «Oh se avesse veduto!» esclama un
testimone scrivendo al padre Germano. «Il sangue dagli occhi, dalle
orecchie, dalla fronte, dalle tempie... Ogni capello aveva la sua
goccia... E quel sangue, asterso, tornava a spillare con violenza;
quelle ferite, lavate, tornavano a sanguinare, e sempre daccapo».
Gemma soffrì in sé anche la piaga dolorosa della spalla sinistra,
cagionata a Gesù dal peso della croce; gli stiramenti delle membra, il
dislocamento delle ossa nella crocifissione; l'atrocità della sete che
fece esclamare a Gesù: Sitio; le terribili ore di agonia sul Calvario,
una morte desolata nell'abbandono del cielo e della terra. Nulla mancò
a rendere Gemma una copia perfetta di Gesù appassionato e di Gesù
crocifisso; nulla: neppure la ferita del cuore.
«Uno dei soldati» narra san Giovanni «gli aperse il fianco con la
lancia, e subito ne uscì sangue e acqua. E chi vide l'ha attestato; ed
è vera la sua testimonianza». Qualche cosa di simile accadde a Gemma.
Era già stata deposta dalla sua croce e calata nel sepolcro, quando un
telegramma del padre Germano ricordò alla famiglia Giannini
l'intenzione di farne l'autopsia del cadavere per vedere se nel cuore
di lei, come in quello di altre sante si trovassero segni speciali e
straordinari.
Occorsero vari giorni di pratiche per ottenere l'esumazione, e si
giunse al quattordicesimo della morte. Frattanto, si era voluta la
presenza del padre Germano ad evitare chiacchiere e malintesi.
Il cadavere dissotterrato già presentava lievi indizi di
decomposizione: se ne fece l'autopsia e se ne estrasse il cuore, il
quale si mostrò più largo che alto, come se qualcosa di violento ne
avesse dilatate lateralmente le pareti.
«Presenziavano due monache di san Camillo de Lellis, il cavalier Matteo
Giannini, l'avvocato Giuseppe e due medici» attesta Angelo Grotta; e
dice: «Fui proprio io che misi mano ai ferri per ordine dei medici;
vidi, nel tagliare nel mezzo il cuore, e sentii colpirmi nella mano uno
zampillo vivo e bello, tanto che mi meravigliai come in un cadavere che
da quindici giorni era seppellito ci fosse ancora tanta vita di sangue,
pensando inoltre alla consumazione fisica di Gemma Galgani. il cuore
apparve sempre fresco, vegeto, flessibile, rubicondo e tutto pieno di
sangue, non altrimenti che se fosse vivo, e il sangue contenuto in
ambedue i ventricoli e le orecchiette era ancor vivo, scorrendo
fluidissimo».
La medesima cosa attestano i due signori Giannini e le due suore di san
Camillo. Anzi suor Michelina Rindi dice che di quel sangue ne vide
cadere a terra parecchio.
I dottori dichiararono che il sangue così vivo non doveva esserci e ne
rimasero sorpresi.
Naturalmente, vi fu chi sorrise e scosse la testa. Che meraviglia! Non
dice forse il Vangelo che i farisei, passando sotto la croce di Gesù
Cristo, «scotevano il capo e ridevano di lui»?
CAPITOLO XXVI. - UNA GUIDA DAL CIELO
Ma torniamo alla vita di Gemma, e a ciò che segue la sua prova dolorosa
e umiliante.
Nella sua difficilissima vita, è sola, timida, e senz'appoggio. Ha
sentito, almeno per il momento, anche Monsignore cambiato a suo
riguardo. Egli le ha detto risolutamente: «Io non crederò mai a queste
fantasticherie». E a chi deve confidare, la poverina, tutto ciò che
accade in lei? Piena di fiducia si rivolge a Gesù sacramentato e gli
affida la sua causa.
Fatta questa preghiera, si sente raccogliere internamente. Al
raccoglimento succede il rapimento dei sensi, e si trova dinanzi a
Gesù. Ma egli non è solo: ha accanto a sé un Passionista dai capelli
bianchi, che a mani giunte ardentemente prega.
«Figlia mia, lo conosci?», domanda il Signore a Gemma. La buona
figliola risponde di no. «Quel sacerdote sarà tuo direttore» le dice
Gesù, «e sarà quello che conoscerà in te, misera creatura, l'opera
infinita della mia misericordia».
Gemma, dopo la visione avuta e nella quale le fu rivelato anche il nome
del suo futuro direttore, visse nella ferma certezza che, prima o dopo,
lo avrebbe incontrato e a lui avrebbe affidato l'anima sua.
Ne parlò a Monsignore, e questa rivelazione gli fece piacere, perché a
sua volta egli andava coltivando il desiderio di affidare Gemma a
quella guida illuminata e molto versata nella mistica teologia, per
vedere così divisa la sua responsabilità.
Prima che permettesse a Gemma di scrivere al padre Germano, ci volle
però un pezzetto: voleva prima informarlo direttamente di tutto. Sperò
d'incontrarlo a Roma, ma non gli fu possibile; e iniziò allora con lui
un carteggio che sulle prime non fece che aumentare le sue perplessità.
Diffidentissimo, padre Germano spronava Monsignore a mettere Gemma
nella via comune, poi a provare su di essa l'esorcismo; ma Monsignore,
per tranquillità, ottenne dal Provinciale che padre Germano venisse a
Lucca e si rendesse conto della cosa.
Gemma gli aveva già scritto una lunga lettera il 29 gennaio del 1900,
poi era tornata a scrivere; ma il padre Germano non modificava le sue
idee.
Venne a Lucca, e vi si trattenne a lungo.
«Volendo adempiere il meglio che per me si potesse l'incarico
affidatomi» egli dice «presi a fare sullo stato di Gemma un profondo
studio, e dopo aver cominciato col disprezzo e col dubbio, potei
convincermi che si trattava di opera del dito di Dio.
«Spesse volte, ebbi occasione, per ragioni del mio ufficio, di
ritornare a Lucca alloggiando in casa dei signori Giannini, benefattori
del mio Istituto e per tal modo ebbi agio di meglio conoscere e
trattare quella, per me, santa anima, la quale, per consiglio e con
l'approvazione del suo confessore ordinario, si pose sotto la mia
spirituale direzione».
Il primo incontro tra queste due anime avvenne ai primi di settembre
del 1900, di giovedì.
Gemma, senza nulla sapere dell'arrivo del padre, tosto lo riconobbe e
gli andò incontro tutta festosa, benedicendo Dio. Il padre credette di
trovarsi davanti a un angelo. Andati insieme a inginocchiarsi ai piedi
di un crocifisso, nella cappella domestica, da Gemma custodita con
tanto amore, tutti e due piansero di commozione.
Questo primo loro incontro fu contrassegnato da un grande e
singolarissimo favore.
A metà della cena, Gemma si ritirò in camera e andò in estasi. Chiamato
dalla signora Cecilia, il padre Germano trovò la santa in atto di
lottare con la giustizia divina, per ottenere il trionfo della
misericordia in favore di un 'anima che tanto le stava a cuore, e per
la quale tanto aveva già fatto sia a voce che per iscritto.
Era un forestiero che godeva fama di buon cristiano, ma la cui
coscienza era molto imbrogliata.
Gemma lo nominò nell'estasi e così il padre Germano ne conobbe il nome.
«Giacché sei venuto, Gesù, torno a supplicarti per il mio peccatore»
diceva l'estatica; «è figlio tuo, fratello mio: salvalo, Gesù... Per
un'anima sola hai fatto tanto, tanto, e poi quella non la vuoi salvare?
Salvala, Gesù, salvala. -. Tu non hai misurato il sangue che hai sparso
per i peccatori, e ora vuoi misurare la quantità nei nostri peccati?...
Il sangue lo hai versato per lui come per me.. - ma me salvi e lui no?
Non mi alzerò più da qui! Salvalo!...
«Non cerco la tua giustizia, ma la tua misericordia. O Gesù, tu dici
che gli hai dato molti assalti per convincerlo, ma non l'hai chiamato
mai figli.... Prova adesso; digli che sei suo padre e lui tuo figlio.
Vedrai; vedrai che a questo dolce nome di padre, il suo cuore indurito
si ammollirà».
Gesù mostrò a Gemma che per quell'anima la misura era colma, e gliene
andò enumerando le colpe. Gemma mandò un profondo sospiro.
Sbigottita, lasciò cadere le braccia; ma rianimandosi tosto e tornando
all'assalto: «Lo so, lo so» disse «che te ne ha fatte tante; ma te ne
ho fatto più io! Eppure, mi hai usato misericordia. Lo so, lo so, Gesù,
che ti ha fatto piangere; ma in questo momento, non devi pensare ai
peccati suoi; devi pensare al sangue che hai sparso. Quanta ne hai
anche con me, Gesù, di carità! Tutte quelle finezze di amore che hai
usate per me, te ne prego, usale anche col mio peccatore. Ricordati,
Gesù, che lo voglio salvo. Trionfa, trionfa, te lo chiedo per carità».
Dinanzi all'inflessibilità divina, le balena ad un tratto un'idea. Essa
è peccatrice, lo sa: confessa di non meritare d'essere esaudita; ma gli
presenta un'altra interceditrice e dice a Gesù: «E’ la stessa mamma tua
che ti prega per lui». Oserà mai dirle di no? Oh no! Non potrà
negarglielo. Infatti, poco dopo, tutta lieta: «È salvo, è salvo»
esclama Gemma. «Hai vinto, o Gesù; trionfa sempre, o Gesù!».
Il padre si ritira in camera commosso e assorto in profondi pensieri,
quando sente bussare alla porta e annunziare un signore forestiero che
cerca di lui. Introdotto, questi cade in ginocchio dicendo: «Padre, mi
confessi». E il peccatore di Gemma.
Il padre lo confessa.
Grazie a ciò che aveva precedentemente udito dall'estatica, può
ricordargli una colpa da lui dimenticata.
Tra la commozione, gli narra l'accaduto, lo conforta; gli chiede il
permesso di pubblicare queste meraviglie del Signore; si abbracciano,
si congedano.
«Il fatto parlava da sé» disse padre Germano. «Con la fantasia e con
l'isterismo non si giunge a tanto; e il diavolo è buono a trascinare
all'inferno i peccatori, non mai a convertirli, tanto meno in quel
modo».
Non fermandosi a ciò, si pose seriamente a studiare il caso di Gemma
con la scorta della teologia ascetica e mistica, delle scienze
fisiologiche moderne, non risparmiando prove di ogni genere che mai,
attesta, gli andarono fallite.
Poté quindi concludere e scrivere a Monsignore: «Gemma è una vera gemma
del cuore di Gesù, non vi è ombra possibile sul suo conto. Per
l'addietro non so: oggi è oro puro».
E il 4 marzo 1901: «Quest'anima Dio l'ha affidata a lei e non ad altri.
Non pensi ai medici, no, per quanto bene vuole a Gesù. Le conseguenze,
io le veggo innanzi a Dio: sarebbero funestissime e allo spirito di
Gemma e a vostra Eccellenza. Iddio sta facendo miracoli per tenere
occulta la cosa. In mezzo ad una numerosa famiglia essa passa
inosservata, e noi vogliamo pubblicarla? Il prete lo dirà (in segreto,
senza dubbio) ad un altro prete; il medico alla moglie, e questi lo
porteranno di bocca in bocca, per le piazze, nei caffè... Non si fidi
di nessuno, Monsignore mio. E poi, che bisogno v'è? Le cose di Gemma si
svolgono con tanta calma, perché non lasciarle passare inosservate? Ma
dica, vi sono dei dubbi? Possibile che dubiti ancora? E allora, vada e
veda con gli occhi propri. La miglior regola per giudicare le cose di
Gemma è lo stato del suo interno. I fatti esterni io non li conto per
niente. Quel che ci deve colpire tutti è la semplicità, l'umiltà
profonda, il distacco, l'unione con Dio, l'abbandono, l'uguaglianza di
spirito, il desiderio di patire, l'inconsapevolezza e la disinvoltura
della giovane in mezzo a tante cose straordinarie».
E scrivendo alla signora Cecilia il 1° luglio del 1901, così le dice:
«Per ciò che riguarda codesta anima, stia tranquilla: ormai, è provato
che l'opera è tutta di Dio, e Dio la manderà a compimento ad onta di
tutta l'ignoranza, di tutte le passioni degli uomini e di tutta la
rabbia dei demoni. Da parte nostra, non dobbiamo porvi che la pazienza
a sopportare le contrarietà, la prudenza ad evitarle quanto più è
possibile. Lei intanto, sorella, si rallegri di essere stata scelta da
Dio al bel ministero di custodire e governare un anima a lui sì cara.
Ne sarà largamente ricompensata».
Contro la direzione del padre Germano si scatenò l'inferno,
velenosamente si scagliarono gli uomini.
La guida da Dio destinata a Gemma era il padre Germano, e, a dispetto
dell'inferno e degli uomini, tale rimase.
CAPITOLO XXVII. - INSIDIE
Le relazioni tra monsignor Volpi e padre Germano erano cordialissime:
il demonio, o qualche malevolo, tentò di guastarle, facendo giungere al
primo lettere del secondo, non firmate, e spiranti diffidenza; ma
l'inganno fu però chiarito.
Così pure il demonio tentò di screditare Gemma in tutti i modi e
privarla dell'aiuto del padre Pietro-Paolo e di quello di padre Germano.
Ecco come andò la cosa.
Un giorno, arriva a casa Giannini una cartolina firmata G.V.V., cioè
Giovanni Volpi Vescovo, e così concepita:
«Rev.do padre Provinciale
Conoscendo l'impossibilità di poter di nuovo riparlare con lei prima di
partire, la prego di non occuparsi per nulla dell'affare sciocco di
Gemma, avendo ben conosciuto per parte di Gesù che le cose avvenute
sono tutta opera di arte diabolica. La prego di non occuparsi più di
lei, né ora, né mai, e di questo avviserà il padre Germano.
«Continuando a fare come fanno, corrono pericolo di far perdere l'anima
alla povera figlia. Essa non ha bisogno dei loro aiuti, essendo io ben
assai illuminato su cotesta anima fino ad ora ingannata. Continuando la
strada da me indicata presentemente, potrà presto tornare a Dio. La
saluta un suo amico».
Monsignor Volpi dichiarò quella cartolina assolutamente falsa.
L’orgoglio in essa contenuto diceva chiaro abbastanza da chi
direttamente o indirettamente venisse. Il padre Provinciale non ne fece
conto; solo gli dispiacque lo scandalo che poteva derivarne, dato che
una cartolina può essere letta da tutti.
Pochi giorni dopo, di tre lettere da lui preparate per la posta, ne
vide sparita una indirizzata al padre Germano e che trattava di affari
della Provincia e di qualche piccola cosa riguardante Gemma. Nessuno
l'aveva veduta, nessuno l'aveva presa. Il giorno dopo, sulla sua
valigia, il padre trova una lettera chiusa, indirizzata: «Rev.mo padre
Provinciale», firmata Germano e, più ancora della cartolina, spirante
orgoglio e veleno.
La lettera diceva così:
«Ieri al tocco circa, ricevei la lettera che voleva spedirmi per posta
e invece me la portò l'Angelo custode.
«Senza por tempo, rispondo subito.
«Padre mio, o se le cose si potessero fare due volte!... Pregando il
nostro venerabile, ho potuto capire che... l'ingannata è Gemma. O
padre, non facciamo più sbagli, non occupiamoci più di nessuno, se no
corriamo pericolo di andare all'inferno. Disdica tutto ciò che ha detto
di Gemma. Adesso, non potremmo più toglierle la maschera dell'ipocrisia
che da più anni la ricopre. Ciò che le è accaduto fu tutto inganno e
ipocrisia; tutto, tutto, nulla eccettuato. Essa (lo) conosce ben
chiaro, è nelle mani del diavolo, così bene che non ci riuscirebbe
levarla, e però bisogna lasciarla.
«Se per l'addietro l'ho tenuta in stima, ora l'aborro; faccia lei
altrettanto; o non scriverò né parlerò più di quella ipocrita. Tutta la
trama di ieri fu opera sua, la lettera l'aveva nascosta: ma l'angelo
mio fu lesto.
«Ciò che mi sta a cuore è la signora Cecilia: l'avvisi subito che la
cacci di casa sua, se non vuol mandare in rovina dodici figli angeli.
Il ven. Gabriele mi ha dettato la lettera.
«La lettera che ha nascosto nel canterale l'angelo è impossibile che la
prenda perché era inganno. Essa (Gemma) prendeva i denari in casa, poi
la mandava a impostare. Non credo più a nulla. Le faccia una predica
per farla tornare in sé, poi la saluti per sempre.
«Avvisi tutta la famiglia delle parole che mi sono state suggerite a
loro riguardo dal venerabile e la caccino da loro. Vorrei dire di più,
ma spero mi avrà capito. La mandi dal vescovo e le tolga la comunione.
Germano».
«O era qualcuno che si prendeva gioco di me, ovvero era Chiappino (cioè
il demonio)», scrisse il provinciale. Ma, fosse un trucco del demonio o
di qualcuno al suo servizio, egli c'entrava sempre, perché non può
concepirsi tanto odio e tanta menzogna, se non pensando che la penna
fosse usata da lui o retta da lui in mano d'altri.
Ma non si fermò qui.
Una notte, tutte le lettere del padre Germano e di Gemma, gelosamente
custodite dalla signora Cecilia, furono prese (da chi?) e sparse per la
casa dove si trovarono la mattina seguente.
Gli animi, già scossi dalla cartolina e dalla lettera, si turbarono. Si
pensò che veramente Gemma fosse una ingannatrice e fosse stata lei a
fare questa stranezza. La poverina sentì vivamente il dispetto di
satana, trattandosi di cosa tanto gelosa, e le fu tanto doloroso il
sospetto su di lei e il contegno di quelli di casa.
Ciò si deduce da queste parole da lei scritte al padre Germano: «Gesù
sta ancora esposto sull'altare, ci corra e gli domandi chi fu che prese
tutte le mie lettere (le sue) e le sparse tutte per la casa... Si
sospetta di me, a me sembra di non essere stata. Tutti sono seri con
me... Mi ha inteso, padre? Tutte le lettere furono trovate sparse...
Gesù le spiegherà ogni cosa. L'ho detto al confessore, e mi ha detto
che è il diavoletto. Il diavolo, padre, chi sa che farà ancora?
«Ieri partì quel padre (il padre provinciale) e che vuoto ha lasciato!
Quanto bene mi ha fatto! Quante belle cose mi ha detto! Quanta
rassegnazione mi ha fatto avere di più! Ma era da meravigliarsi che il
diavolo non ci volesse mettere la coda? In questi giorni, ne ha fatte
di tutte le specie, e quante e più ne poteva fare ne ha fatte. Già sono
certa che saprà l'accaduto della cartolina e tutto il resto.
«Sì si, il mostro raddoppierà i suoi sforzi, per privarmi dell'aiuto
del padre mio e del padre provinciale, perché vede che questo aiuto è
per me un gran bene; ma se anche questo accadesse, Gesù, tanto, non
verrà mai meno nel mio cuore. Di tutti posso dubitare; ma del mio Gesù,
no. Si, padre, la comprendo bene la rabbia del maledetto.
«Ma non ho più voglia di parlare con lui, è meglio che parli di Gesù.
Quale allegrezza si trova nell'abbandonarsi nelle braccia di lui! Si
sta tanto bene con Gesù solo. L'anima fedele diventa di Gesù figlia
carissima, gli apre le braccia, se la stringe... Oh, Gesù, ne ho tanto
bisogno della vostra affezione».
Il demonio non riuscì mai nei suoi perfidi intenti, neppure quando
giunse a ispirare a Gemma un passeggero disgusto e un senso di
diffidenza verso il padre Germano, sentimento del quale trionfò.
Proprio il Signore aveva posta nelle mani di lui l'opera di
santificazione di Gemma. Glielo fece dire da lei stessa nel maggio del
1901 con queste parole: «Nelle sue mani (cioè nelle mani di padre
Germano) ho posto già da un po' di tempo un'opera grande, affinché esso
si dia ogni premura di portarla al suo termine. Questa grande opera,
questo grande lavoro esso già lo conosce e deve lavorarvi. A lui affido
ogni cosa. Digli ancora che dopo la comunione mi chieda spiegazione,
che a lui gliela darò, ma a te no».
Quale doveva essere quest'opera, se non la santificazione di
quell'anima privilegiata?
«Gesù mi ha promesso di manifestare a lei la sua volontà a mio
riguardo, purché io glielo chieda con umiltà... In questo modo, io me
ne sto in pace, aspettando che la volontà di Dio si eseguisca su di me»
dice la santa.
I fatti provarono che padre Germano era veramente l'eletto a conoscere
in lei l'opera della divina misericordia.
Sua Santità Pio X lo ammise un giorno ad un'udienza privata dopo che la
biografia di Gemma era già stata lanciata, e, caduto il discorso sulla
serva di Dio, sorridendo gli disse: «Ma è proprio vero tutto ciò che
avete scritto sulla vita di lei?». Ed egli tutto umile: «Santo padre,
quel che ho scritto è ben poco rispetto alla verità».
Questo fatto lo narrò, sorridendo, lo stesso Pontefice.
Il padre Germano fu poi il primo biografo di Gemma, e nel Processo
ordinario di Lucca così depose: «Come già attestai in altre mie
precedenti deposizioni, io scrissi questa vita con scienza e coscienza,
secondo quello che io vidi, e, per così dire, toccai con mano negli
ultimi tre anni che ebbi sotto la mia direzione l'anima della serva di
Dio, dietro studi profondi che ebbi agio di fare dello spirito di lei.
Molte notizie storiche non potrei certamente averle di propria scienza.
Dichiaro però che nel raccoglierle usai sempre ogni scrupolosità,
quantum humana fragilitas, etc. Perciò tutto quello che in questo libro
è scritto posso attestano con giuramento e così l’attesto».
Tra le perfide insinuazioni contenute nella lettera scritta da ignota
mano al padre Pietro-Paolo, ve ne sono alcune riguardanti lettere
mandate per mezzo dell'Angelo custode e contenenti invece un inganno.
Padre Germano, in Lettere ed estasi di Gemma Galgani, fa inoltre questa
dichiarazione: «Si era voluto da taluno fare con soverchia leggerezza
una prova, sequestrando una lettera scritta da Gemma al suo direttore e
aspettando che un angelo del cielo la venisse a rilevare per portarla
all'indirizzo. Come era da aspettarsi, la prova non riuscì, e alla
poverina ne toccò la peggio per parte sì dello sperimentatore e sì di
altri». Tutto questo merita una parola di spiegazione. Prima però ne va
detta una sulla straordinaria devozione e familiarità di Gemma per
l'Angelo custode.
A somiglianza di santa Francesca Romana, si vedeva continuamente al
fianco questo buon angelo, e trattava con lui come amico e fratello.
Andata una volta dalle Mantellate, una di quelle suore le disse:
«Gemma, sei sola?». «No, ho con me la mia sorellina... e poi un'altra
persona». «E chi?». «L’Angelo custode». «Ma io non lo vedo». «L’ho qui
accanto e lo vedo io», rispose Gemma. Così avrebbe potuto dire ad ogni
ora del giorno e della notte: «il mio angelo è sempre con me: lo vedo,
lo ascolto, lo amo, lo seguo, l'obbedisco, lo venero».
Egli mai l'abbandonava, infatti: sia che pregasse, che lavorasse, che
si spendesse per gli altri.
Se commetteva qualche difetto, l'angelo, il cui occhio sempre fisso
nella santità di Dio rimane offuscato da ogni atomo di polvere,
severamente la rimproverava, e tanto severamente, che Gemma temeva che
gli altri pure potessero, vedendolo, provare come un senso di terrore.
Per Gemma, come del resto dovrebbe essere per tutti, l'Angelo custode
non è solo al nostro fianco, sia pure invisibile, per difenderci dai
pericoli, ma anche per aiutarci in tutte le nostre necessità, guidarci
a Dio, ispirarci il bene, coadiuvarci in esso, aiutare in noi l'aumento
della grazia, condurci in Paradiso. Egli è per noi il legame tra la
terra e il cielo, tra il naturale e il soprannaturale.
Gemma, che nella casa del Padre celeste si sentiva quasi una bambina e
come tale tutto si credeva possibile, tutto permesso, tutto sperabile,
aveva la massima confidenza verso l'Angelo custode. Fin dalla culla,
Dio l'aveva posto al suo fianco; egli mai la lasciava né di giorno né
di notte; era quindi il suo amico, il suo confidente, il suo
messaggero, per il cielo e per la terra.
A lui ella confidava le sue commissioni, le sue ambasciate, i suoi
voti, le sue suppliche a Gesù, alla Vergine santissima, ai santi, agli
angeli e a tutto il Paradiso; a lui affidava i messaggi che lanciava
sulla terra ai poveri peccatori, di cui Dio le aveva manifestato le
necessità e affidato la conversione, come pure alle anime sorelle
sparse nel mondo. A lui, con grande semplicità, affidava inoltre,
talvolta, le lettere per il suo direttore spirituale, specialmente
quando non aveva modo d'impostarle, o per giusti motivi voleva farlo
senza che si sapesse. Tutta questione di fiducia, d'umiltà e di amore.
Povera, in una casa ospitale, priva di ogni libertà, desiderosa di non
essere di aggravio a nessuno, nell'impossibilità di procurarsi da sé il
francobollo, bisognosa di luce e di aiuto in cose per lei
importantissime, e ciò frequentemente, pregò un giorno, con la sua
incantevole semplicità, l'Angelo custode di padre Germano d'incaricarsi
della lettera da lei scritta a quel padre. Lo invocò, lo pregò, e
depose la lettera nelle sue mani, senza dubbi e senza incertezza. E
perché averne? Non sono gli angeli messaggeri di bontà, di pace e di
gioia? E la lettera giunse.
La signora Cecilia temette trattarsi di opera diabolica; così anche
monsignor Tei, che suggerì a Gemma di astenersene fino a che non avesse
conosciuto chiaro essere ciò volontà e opera di Dio.
«Ma se è il demonio, lei deve averlo conosciuto» scrive Gemma al padre
Germano. «Me lo dica se è lui, ché allora non le mando più».
A sua volta, la signora Cecilia gli scriveva: «A me sembra di sognare:
così pure a Monsignore. Ma Dio tutto può!».
Questo ricorso di Gemma non era continuo; però delle lettere
fiduciosamente affidate all'angelo, e dette da padre Germano lettere
angeliche, neppure una andò smarrita.
Prima di dirle lettere angeliche, il padre pensò molto, molto titubò e
pregò. Sulle prime, anch'egli credette di vedere in questo fatto
insolito l'intervento di satana. Raccomandò quindi a Gemma di
consegnare chiuse alla signora Cecilia le lettere che desiderava gli
giungessero per mano d'angelo, dicendo poi a questa di tenerle ben
serrate e nascoste ad insaputa di Gemma, perché se il Signore avesse
voluto compiere il prodigio, lo avrebbe compiuto. E quindi incominciò
la serie delle prove irrefragabili delle quali non ne citeremo che due.
Il 12 giugno 1901, Gemma, obbedientissima, consegna la lettera alla
signora Cecilia. Questa, segretamente, la dà a don Lorenzo Agrimonti,
che la chiude a chiave in una cassetta di camera sua, e si mette la
chiave in tasca.
Il giorno seguente, nel pomeriggio, Gemma è nell'orto con l'ultimo
piccolo in braccio, quando chiama la signora Cecilia e le dice che ha
visto l'angelo con la lettera in mano. Vanno a guardare... la lettera
veramente era scomparsa. Si seppe poi che era giunta con ogni esattezza
alla sua destinazione.
Padre Germano, sempre perplesso, chiese con fede e umiltà al Signore,
per una sola volta, un segno che valesse a trarlo dalle sue
perplessità. E il segno era questo: che il suo angelo, per una volta,
gli recasse per via straordinaria la lettera di Gemma, non come sempre
per via ordinaria.
Ebbene, il 22 giugno del 1901, Gemma unì in una stessa busta, per
affidarle all'Angelo custode, due lettere: una per padre Germano,
l'altra per madre Giuseppa, passionista di Tarquinia; ma secondo
l'ordine avuto, le consegnò alla signora Cecilia. Questa, ad insaputa
di Gemma, coadiuvata da don Lorenzo, le nascose ben bene nella camera
di lui, il luogo più impenetrabile della casa, ponendole inoltre fra
due immagini, una di san Gabriele, l'altra di san Paolo della Croce.
Il giorno dopo, verso le due, mentre la signora Cecilia stava parlando
col nipote maggiore nel salotto da pranzo e Gemma era seduta sul divano
della stanza accanto, si sentì da questa chiamare in fretta, per dirle
che la lettera era partita, l'aveva vista in mano all'angelo. Secondo
il solito, la signora Cecilia si mostrò noncurante e indifferente; ma
chiamato don Lorenzo e andata con lui a cercare la lettera, non trovò
che le sole immagini: la lettera era scomparsa. Tutti e due piansero di
commozione.
La lettera giunse, e questa volta padre Germano, come aveva lungamente
chiesto, l'ebbe per mano dell'angelo. Egli lo scrisse alla madre
Giuseppa: «Ambedue (le lettere) la sua e la mia, mi furono portate
dall'Angelo custode».
Come? Padre Germano, gelosissimo di ciò che lo riguardava, non lo disse
mai. Si parlò d'una lettera da lui sentita cadere sul suo scrittoio
quella notte verso la mezzanotte, mentre dal suo giaciglio si univa in
spirito ai confratelli che erano in coro a recitare Mattutino. Ma il
superiore disse invece che, appunto durante il Mattutino, uno
sconosciuto aveva suonato alla portineria del Ritiro di Tarquinia, dove
allora si trovava padre Germano, e aveva chiesto d'urgenza d'essere
introdotto nella cella di lui, avendo da consegnargli un plico.
Il fatto è questo: che da quel giorno, padre Germano più non dubitò, e
dette ampia libertà alla sua figlia spirituale di valersi del suo
angelo.
Questo il prodigio che si parodiava nella lettera d'ignota, o, meglio,
di ben nota sinistra provenienza, giunta al padre provinciale. Contro
questo prodigio si scagliò l'inferno e si scagliarono gli uommi.
Ma alcune persone, non riflettendo che certe grazie, certi privilegi,
Dio li serba solo a chi vuole e a chi non ha in sé cosa che vi si
opponga, scioccamente pretesero, sequestrata una lettera di Gemma al
suo direttore, che l'Angelo custode per fare piacere ad essi andasse a
prenderla e portarla a destinazione. Gemma si valeva del suo angelo
quando ne sentiva l'impulso soprannaturale, non sempre.
Ma lo sperimentatore, invece di rientrare in sé, si scagliò contro la
poverina e le procurò molti dispiaceri anche da altre parti. «Padre
mio» scriveva Gemma a padre Germano, «se vedesse che cose! ... E tutto
perché l'angelo non ha preso la lettera...».
CAPITOLO XXVIII. - «VENDICARMI? NO, GESÙ COL TUO AIUTO!»
Gemma ebbe ed ha dei fieri nemici. Abbiamo visto contro di lei l'odio
di satana, e torneremo sull'argomento: vediamo ora quello degli uomini.
Ben poco però ne potremo dire, perché, su questa pagina che tanto
risalto darebbe all'eroica virtù di Gemma, alla sua longanimità, alla
sua generosità, è stato gettato il fitto velo della carità fraterna.
Gemma e padre Germano, per amor del precetto di Cristo, preferirono
recare nella tomba il loro segreto, fonte di gloria per l'una e per
l'altro.
All'imitazione del crocifisso, non doveva mancare lo strazio del cuore,
il dubbio, la negazione e l'abbandono degli amici; Gemma ne fu satura.
Il primo a cambiare d'opinione a suo riguardo fu padre Gaetano, lo
stesso al quale, per primo, ella aveva confidato tutti i celesti
favori. Gemma disse che solo il giorno del giudizio si sarebbe compreso
il perché di quel voltafaccia, per lei tanto doloroso.
Rimasto profondamente scosso dall'infruttuosa visita medica, e dalle
sconfortanti impressioni di monsignor Volpi, tornato a Lucca il padre
si pose quasi con ostinazione a moltiplicare le prove sulla povera
Gemma. Vedendo le stimmate e il sudore sanguigno, tre, quattro e più
volte di seguito, faceva rinnovare l'esperimento fatto dal medico, cioè
lavare le ferite, ma inutilmente, poiché dopo un istante il sangue
tornava a spillare.
Non ebbe allora più dubbi e scrivendone a Monsignore gli parlò di
ferite profonde, ecc. ecc. «Gesù aveva fatto con lui come con san
Tommaso» dice il padre Germano. «Metti qua le tue dita, e osserva le
mie mani, e accosta la tua mano, e non essere incredulo, ma fedele».
Del resto, egli non era il solo a volersi ben convincere del come
stavano le cose. Anche i Giannini vi avevano tutto l'interesse, e la
signora Cecilia, donna accorta, avendo sentito ingiustamente dire e
ripetere che le ferite di Gemma se le faceva da sé, si metteva lì fissa
daI principio dell'estasi alla fine, osservando attentissimamente. Ma
che! A un certo punto, il sangue incominciava a spillare dalla pelle di
Gemma, né cessava col lavaggio delle ferite e le ferite si
rimarginavano da sé. Nel suo buon senso, trovandosi tra mano il
fazzoletto inzuppato di sangue, «zia Cecilia» diceva: «Se questo è
isterismo, io non lo so, ma mi parrebbe che dovessero sbagliare». E
diceva bene.
Inoltre, se quelle profonde ferite Gemma se le fosse procurate da sé,
come avrebbero potuto rimarginarsi istantaneamente, non lasciando
traccia alcuna?
Dunque padre Gaetano tornò a credere, ma per breve tempo. Del resto,
era proprio lui la persona adatta ad occuparsi di un'anima da Dio
condotta per vie straordinarie? Si richiede a ciò tanta prudenza, tanta
segretezza, e le aveva il padre Gaetano? Una volta per esempio che
Gemma, sulle prime, si recò a casa Giannini per parlargli accompagnata
da un'amica e da una sorella: «Gemma, come vanno le stimmate?», egli le
disse per primo saluto, rendendo così palese una cosa che andava
circondata di rispettosa circospezione.
Un'altra volta, in seguito (e forse non fu l'unica), quando già si
burlava di lei, l'empi di confusione richiamandola da un'estasi con un
precetto mentale, quando la camera era piena di gente. La poverina
soffriva tanto, come tutte le vere anime sante, nel vedersi sorpresa
nell'estasi, e tutta confusa disse una parola profetica che suona su
per giù così: «Ora sono loro che si vogliono divertire alle mie spalle,
tocca a me restare a bocca aperta; ma verrà un giorno in cui vi
resteranno tutti loro».
I tentennamenti di padre Gaetano si cambiarono presto in vera
incredulità, in aperta opposizione, in ostinato sarcasmo. In Gemma, non
ravvisava i caratteri dell'isterismo, ma, pur di non riconoscere la
santità di lei e il soprannaturale dei favori di cui Dio la colmava, si
ostinò nell'attribuirli al demonio. Quel povero padre pareva non
ricordare che il demonio per un poco tiene la maschera dell'ipocrisia,
ma prima o poi la lascia cadere, e non si dà un esempio nella storia in
cui il suo inganno non sia stato scoperto almeno da chi di ragione, e i
semplici e i retti di cuore non abbiano avuto luce dal Dio di verità,
che non vuole i suoi amici sopraffatti dal padre della menzogna.
Varie cose contribuirono a indisporre così l'animo di padre Gaetano,
come certe verità che Gemma dovette dirgli a nome di Dio e che
riguardavano l'anima sua. La verità, perché sia ben accolta, bisogna
che cada in un anima umile, in un cuore docile, senza di che inasprirà,
sembrerà falsità e oltraggio. Il padre Gaetano s'inasprì e crebbe nella
sua ostilità. A ciò si aggiunse quella terribile di un altro individuo,
inviato da monsignor Volpi a constatare il fenomeno della flagellazione
in Gemma.
La signora Cecilia Giannini aveva ripetutamente pregato Monsignore di
recarsi in persona a rendersi conto del fenomeno, e l'aspettava. Egli,
per prudenza, non andò: mandò un altro. Quella persona, «come il
medico, non riuscì a constatare nulla» dice il buon Monsignore; «e da
questo argomentò che non piacessero al Signore queste indagini umane in
ordine a quei fatti soprannaturali». Ma quando poi si trattò di deporre
con giuramento egli non poté più sostenere di non aver visto nulla, ma
sia pure tra una grande confusione d'idee e circonlocuzioni di parole
dovette dichiarare di aver veduto le lividure sulle gambe di Gemma.
Parlava come uomo cui costi dire il vero: ma bastò il poco che disse,
per far capire che vide.
La cara Gemma così rese conto di questa prova al suo direttore: «O
padre, quanto soffrii ieri! E a Gesù quanto gli dispiacquero quelle
cose... Ebbi un'umiliazione grandissima; ma sono contenta. Gesù è nel
mio cuore... Quanto è più amabile Gesù nelle umiliazioni! Non mi
affliggono nulla queste cose per me, ma per Gesù, sì, perché della cosa
di ieri sera non è contento... E ora come sono felice con Gesù solo!
Quanto mi ama di più così umiliata! Anche la zia è afflitta afflitta:
eppure alla meglio obbedisco, e dei dispetti non ne faccio a nessuno,
neanche spie, sto sempre zitta!». Questa inaspettata conclusione rivela
una serie di rimproveri e di false accuse che hanno colpito la sua
condotta. Lei ha la sua coscienza come testimone, e umilmente vi fa
appello potendo però concludere: «Sono felice con Gesù solo».
«La zia è afflitta afflitta». Non poteva non esserlo dinanzi a una così
palese ostilità.
Non sappiamo se un episodio narrato da un santo passionista riguardi
padre Gaetano o altri; ad ogni modo, sarà una rivelazione chiara e
lampante dell'umiltà con cui Gemma accettava le ingiurie.
Egli dice che un giorno, diretto a casa Giannini, s'imbatté in un
religioso che a sua volta vi si recava, e s'incamminarono insieme.
Giunti colà, la prima persona che incontrarono fu Gemma, che sola
soletta lavorava in una stanza tutta raccolta. «Tisicaccia!
Fradiciume!», l'apostrofò quel religioso, continuando la litania degli
epiteti ingiuriosi che così concluse: «E quando morirai e finirai
d'insudiciare questa casa?». Nella voce del religioso, vibrava lo
sdegno. Gemma, tranquilla, ascoltava in silenzio. Solo due volte, in
tono umile disse: «Dice bene: ha ragione».
Il buon passionista credeva di sognare, e appena l'altro religioso se
ne fu andato corse dalla signora Cecilia per dirle la triste
impressione riportata dallo strano contegno di lui. Ma la signora lo
animò a non prendersi pena di Gemma, perché, se il Signore la ricolmava
di molte grazie, non le risparmiava, però, grandi umiliazioni,
soggiungendo che Gemma era molto contenta di soffrire, per dare a Gesù
qualche prova del suo amore.
Il padre tornò nella stanza dove aveva lasciato Gemma, ma non la trovò.
Aprì la porta del salotto da pranzo e la vide inginocchiata dinanzi al
crocifisso, assorta in preghiera: non osò disturbarla. Certo pregava
per il suo offensore.
Ma la spina non usciva dal cuore di quel padre, che si sentì vivamente
commosso quando poi vide Gemma servire a pranzo, serena, semplice,
modesta.
Gemma si riteneva una figlia di fronte a padre Gaetano al quale aveva
dato la massima prova di fiducia che possa darsi quaggiù, quella di
lasciarlo penetrare nelle più intime profondità dell'anima sua.
Mettiamoci quindi nel posto di lei, e facilmente comprenderemo che di
quello strano mutamento di contegno dovesse avere immensamente
sofferto. Si lamentò mai? Mai! Nulla togliendo dal suo vero fonte, la
volontà di Dio, tutto sopportava in una pace profonda, con lo sguardo a
Gesù oltraggiato e deriso, e con le sue speranze al cielo.
I suoi sentimenti riguardo ai nemici si rilevano da una delle sue
estasi.
San Paolo della Croce le è apparso e le ha detto del grande disgusto
provato dal Signore e da lui, per l'imprudenza e mala fede di chi
l'aveva contraddetta giorni prima e l'aveva dichiarata in inganno.
Gemma, il giorno seguente, parla con Gesù di questa visione e si sente
annunziare nuove croci: «Ora sono solamente parole, ma poi si andrà
anche ai fatti... Io non ho mai desiderato di essere ingannata; ma ora
sì che lo desidero...
Non per amore dell'inganno, ma per le contrarietà che a lei ne
venivano, tanto era vivo nel suo cuore l'amore al patire.
«Lo vedi (o Signore) come siamo superati dagli avversari, che all'opere
tue non credono?», dice. Ma che importa? A lei preme una cosa sola: che
di lei sia contento Gesù. «Hai nulla da rimproverarmi?», gli domanda; e
alla risposta negativa: «Allora, Gesù, sono contenta», soggiunge.
Il Signore le manifesta quanto il suo fiero nemico dica male di lei,
«ma ella è incapace di accusarlo». «Gli altri non possono conoscere»,
dice; lei però lo conosceva e dice al Signore: «Potevi farmi regalo più
grande?». Da quella vista, passa all'eroica preghiera.
«Gesù, ti raccomando il mio più grande nemico, il mio più grande
avversario. Guidalo, accompagnalo. Se la tua mano deve gravare sopra di
lui, no, sopra di me. Dàgli tanto bene, Gesù.
«Non l'abbandonare, consolalo. Che importa se tu lasci me nei dolori?
Ma lui, no. Te lo raccomando ora e per sempre. Gesù, te ne prego,
assistilo; assistilo e consolalo. Dàgli tanto bene, Gesù, il doppio di
tutto quel male (m'intendi?) che avrebbe voluto farmi.
«Vendicarmi?... No, Gesù, col tuo aiuto... Ogni giorno te lo
raccomando; sì, te lo raccomando: pensaci, guidalo, Gesù, guidalo tu, e
se credi bene, fallo (non per me, ma per te), fallo tacere. Non li
merita (colui) questi dispiaceri, io sì.
«E per farti vedere che ti voglio bene, domattina faccio la comunione
per lui. Lui forse penserà a farci del male, e noi invece, no, gli
vogliamo tanto, tanto bene...».
Ecco la vendetta dei santi, le loro eroiche preghiere!
Mentre i nemici di Gemma si burlavano di lei, così pregava per loro.
«Che ci vuole per renderci contenti?» diceva. «Un po' di preghiera.
Ecco, o Gesù, il respiro dell'anima... Che scambio di affetti faremo in
cielo?... Quelle piccole cosette che ora sopporto mi saranno (allora)
motivo di grande allegrezza... Chi potrebbe capire, Gesù... Potevi far
di più di quello che hai fatto per me?...».
Al padre Gaetano, come ad altri padri, Gemma annunziò l'uscita
dall'Ordine. Anzi uno di questi trasse proprio da tale annunzio motivo
per combattere e negare il soprannaturale in Gemma. Gli pareva tanto
impossibile che quella profezia potesse avverarsi. Ma pure venne un
giorno che si avverò ed egli divenne prete secolare.
Ma al padre Gaetano Gemma disse che sarebbe salvo: il Signore gli
avrebbe usato misericordia, perché lei avrebbe pregato per lui.
Venne un giorno che tutto si avverò alla lettera. il povero padre uscì
dall'Ordine prima abbracciato, e dopo l'esperimento di altro Istituto
chiese umilmente di essere accolto di nuovo dagli antichi confratelli,
dando ad essi prova di sincero amore alla propria vocazione. Quelle
vicende dolorose gli fecero ritrovare anche la prima ammirazione e
stima per Gemma, che chiamava la sua salvatrice.
Ora non la pensava più un'illusa, non rivedeva più l'opera del demonio
nei fatti straordinari di cui era stato testimone, e il cui ricordo gli
passava e ripassava dinanzi. La invocava santa, piangendo amaramente la
sua incredulità, i suoi errori, e di non aver saputo approfittare
dell'aiuto che a lui poteva venire dal contatto con quella creatura di
cielo.
E in tale riparazione, in un'umiliazione sì grande, in un doloroso, ma
fiducioso pentimento egli morì da predestinato. Certo Gemma era accanto
al suo capezzale assistendolo nell'agonia.
CAPITOLO XXIX. - «MA DUNQUE, HO PROPRIO INGANNATO TUTTI?»
Tutto questo insieme di cose, le opinioni sostenute dal padre Gaetano e
da altri influirono forse sull'animo di monsignor Volpi accrescendone
le apprensioni? Una lettera di Gemma lo farebbe quasi supporre se pure
non si trattò di una semplice prova. Ma sia in un caso che nell'altro,
in questa lettera risplenderà la vera e profonda umiltà di Gemma
Galgani.
Ella scrive al suo direttore spirituale e così si esprime: «La penna
non mi vuol più scrivere, la mano mi trema, mi trema forte, io
piango...». Queste parole si vedono, infatti, nell'originale, vergate
da mano convulsa.
E perché? «Oggi alle cinque sono andata a confessarmi, e il confessore
ha detto di levarmi Gesù...», di privarla, cioè, della comunione.
Gemma non se ne lamenta, non vi scorge un'ingiustizia, ma continua:
«Mille volte sia fatta la volontà del mio Gesù... Ringrazio Gesù che
alla fine ho trovato chi mi conosce e mi aiuterà ad andare in
Paradiso... Non vede, padre, che da tutte le parti sono ingannata dai
demoni?... No, non ne sono proprio degna di ricevere Gesù. In questo
momento riconosco sì forte la mia miseria...
«Ma che mai è accaduto dopo aver scritto quella lettera?. Tutti, dopo
questa cosa, mi hanno conosciuta, e ora sono proprio trattata come
merito. Per me, non c'è più che Gesù e Gesù solo. Il confessore, appena
mi confessa e mi scaccia, tenta di levarmi la comunione e mi dice che
si meraviglia come abbia così facilmente creduto, e creduto al demonio.
Ringraziamo insieme Gesù…
Vi fu un tempo, infatti, nel quale Gemma entrava in confessionale per
riuscirne subito; ma osservandola con quella dolcissima e tranquilla
espressione di volto, chi avrebbe mai supposto che il suo cuore dovesse
così sanguinare?
«Ieri» continua, «quando il confessore seppe che è il demonio che
lavora in me, mi proibì di pensare a Gesù, e che fatta la comunione,
sia come gli altri senza dare tanta noia (cioè non rimanere estatica).
Anche questa cosa già la prevedevo. Come farò?... Ma dunque, ho proprio
ingannato tutti?... Che avverrà dell'anima mia? Penso all'anima, alla
comunione che ho fatto sempre in peccato. Muoio di dolore, di dolore
per il gran male che ho fatto a Gesù». Quanta angoscia in queste parole!
«Nessuno mi rivolge più una parola, ma Gesù, sì, Gesù è tutto con me,
nel mio cuore; con Gesù non temo.
«Mi perdoni, io non credevo di ingannarla, come pure il confessore e
tutti gli altri. Mi aiuti. Voglio essere buona, voglio obbedire, non
voglio fare più peccati».
Potrebbe essere più palese l'umiltà vera e profonda di Gemma? Non si
crede provata: si crede colpevole e gravemente colpevole. Ora, che
martirio crudele per quella delicatissima coscienza! Ingannatrice, lei,
che neppure sapeva che cosa fosse inganno?
Già poche notti prima, aveva passato ore d'angoscia, tormentata da
questo incubo penoso: «E se fossi ingannata?... E se tutte queste cose
che mi accadono dovessero condurmi alla rovina? E se il direttore fosse
ingannato?». Timori angosciosi che sono una delle caratteristiche dei
veri santi. Nella loro umiltà, essi tremano sempre.
Gesù, quella notte, la confortò così: «Non temere. Chi opera in te sono
io. Mai ti lascerò; vivi contenta».
Ma nuovi dubbi: ma quelle parole venivano proprio da Gesù? Gemma lo
domandò al suo direttore, pur soggiungendo: «Mi pare su quelle di
fidarmi, perché infinita è la contentezza che ho provato a quelle
parole». Ora però non si tratta più di un solo timore. Chi tiene presso
di lei il luogo di Dio, le dice (forse per provarla, ma lei lo ignora)
che è realmente ingannata: che chi opera in lei è il demonio. Non è
metterla addirittura in croce? «O Gesù, avrò perduta la vostra
grazia?», si domanda. Penetrando in quel cuore, non potremo trovarvi
che una grande angoscia: «Muoio di dolore per il gran male che ho fatto
a Gesù».
Ma, non ancora sazia di soffrire, esclama: «Gesù, Gesù, fammi prendere
parte a tutti i tuoi dolori. Soffrire amando, soffrire per Gesù che si
ama, e morire soffrendo per Gesù».
La conclusione è meravigliosa per la fiducia e l'amore: «però, anche in
mezzo a tanta indegnità, ti amo; ti amo appassionatamente. Morrò, Gesù,
morrò, ma per te, d'amore o di dolore! ... Quanto più mi sento piccina,
tanto più sento di voler bene a Gesù; il suo amore mi inebria; sempre
più mi finisce. Rimarrò sola con Gesù».
CAPITOLO XXX. - TUTTO PER GESÙ
Queste ultime parole non sembrano l'eco di quelle di san Paolo: «Chi mi
separerà dalla carità di Cristo?». «No, non temere, Gesù» diceva Gemma,
«nulla al mondo mi potrà da te separare! Né le tribolazioni, né le
pene, né le angustie».
Lo abbiamo visto, infatti: né la miseria, né la fame, né l'infermità,
né le prove più terribili di anima e di corpo mai poterono separarla
dall'amore: ma sempre più la radicarono nell'amore. Ed ella dette a
Gesù tutte le fedeltà, le delicatezze, le generosità dell'amore: di un
amore operoso, disinteressato, confidente.
Ben conscia del suo fine: «Io sono di Gesù» dirà Gemma; «nacqui per
lui, né voglio morire senza amare Gesù e anche amarlo assai assai».
Anzi: «Voglio che nessuno mai mi avanzi nell'amore di Gesù».
Pochi anni prima, una carmelitana, santa Teresa di Gesù Bambino,
diceva: «Gesù! Io voglio amarlo tanto, amarlo come mai non è stato
amato quaggiù». Benché espresso con altre parole, il desiderio, il
sogno, l'ambizione di queste due giovani sante è identico.
Ma quali i motivi che spingono Gemma all'amore? «Ti amo, o Gesù, perché
sei il mio Gesù; ti amo perché sei l'unico degno di essere amato da me;
ti amo perché sei buono; ti amo perché mi hai promesso, mi hai giurato
di non abbandonarmi. Ti amo perché sei il mio creatore, il mio
conservatore, il mio benefattore, tu il Paradiso mio qui in terra.
«E perché sei lo sposo dell'anima mia, cerco sempre te; cerco il tuo
affetto, la tua amicizia, la tua gloria. Tu sei un re forte e generoso
che muovi battaglia, ma poi vuoi sempre la vittoria. Fammi grazia che
possa arrendermi a tutte le voci, che possa amarti con tenerezza
d'affetto».
Ella però non lo potrà amare senza il suo aiuto e, incessantemente, lo
implora: «Dio grande, Dio di ogni sacrificio, Gesù, aiutami...
Redenzione mia, Dio generato da Dio, vieni in mio aiuto. I tuoi occhi,
o Gesù, stanno continuamente vegliando sopra di me. Ho sete di te,
Gesù... Tu sei l'unico amore di tutte le creature. Tu, Gesù, la fiamma
del mio cuore.
«Vorrei avere un trasporto solo: il più ardente che ebbero i santi per
poterti amare in qualche maniera. Ma come fare? A chi chiederlo? A te
stesso, mio Dio».
In un'estasi, Gesù domanda a Gemma come vorrebbe amarlo, e lei
risponde: «Mi domandi come ti vorrei amare? Con quella purezza con cui
ti amarono le vergini, con quella fortezza con cui ti amarono i
martiri, con quella carità con cui ti amava la mamma tua».
Se la piccola Teresa si rivolse ai santi del cielo chiedendo la loro
adorazione e il loro duplice amore, Gemma si rivolge ai santi del cielo
e chiede che le diano il loro cuore per amare Gesù come si merita,
giacché «ciò che può mettere nello sconforto un'anima amante, è di non
poter mai amare Dio quanto basti».
«Ma che cosa non farei per Gesù?» dice Gemma. «Ho una vita sola ma se
cento ne avessi, tutte le darei per lui! Sento che farei ogni cosa per
lui. Il più grosso tormento mi sembra che lo sopporterei per lui; ogni
goccia del mio sangue volentieri la darei... Avrei il desiderio del
martirio... avrei tanta forza, e tutto per contentarlo, per impedire
che tanti poveri cattivi l'offendessero. Mio Dio, ma che dico?... Oh
vorrei che, in questo momento, la mia debole voce arrivasse fino ai
confini della terra, vorrei che tutti i peccatori m'intendessero».
Era forse temeraria e presuntuosa nel suo amore? No: Gemma non vuole
mai disgiunto l'amore dal timore. Rifiuta le assicurazioni, vuole avere
sempre la convinzione della sua fragilità e miseria, e ripete:«Io
voglio vivere, o Gesù, nel tuo santo timore».
CAPITOLO XXXI. - CONFIDENZA
Dall'amore nasce spontanea la confidenza, e quella di Gemma era tale da
rapire veramente il cuore di Dio.
Ecco l'idea che aveva di sé: «Considero l'anima mia come una grande
montagna, e Gesù appoggiato ad essa per non farla cadere. Sì, è proprio
così: se Gesù non la sorreggesse, cadrebbe. Se amo un po' Gesù, non lo
devo né a me stessa, né alle mie forze, ma in tutto alla sua
misericordia».
«Io a Gesù mi presento con tutte le mie miserie... È questo il dono che
gli faccio. Ma egli avrà compassione del mio stato miserabile; mi darà
la forza, mi darà la grazia. In me non trova che miseria, debolezza,
peccato, nondimeno mi ama, mi ama tanto.
«Sì, il mio Gesù, è proprio il Gesù della bontà... Per il lume che si è
degnato darmi, sono venuta ad acquistare la cognizione della mia
bassezza. Non lo nego, sono peccatrice; ma per questo non mi voglio
disperare, perché se mi disperassi, negherei che tu sei misericordioso.
«Non gli farei un torto se mi abbattessi? Mi mostra così potente la sua
protezione. Mi sento miserabile, ma con lui posso ogni cosa... La sua
misericordia è il gran capitale di tutte le mie speranze... Vorrei fare
un fascio di tutte le mie cattive inclinazioni, e porgerlo a Gesù in
sacrificio, affinché col fuoco del suo amore tutte le consumasse. E’
vero, o Gesù, che non merita amore chi ti ha offeso: ma me lo devi
dare, perché sento che anche tu stesso lo vuoi.
«Sì, Gesù, ho tanta confidenza in te, che se anche vedessi aperte le
porte dell'inferno e mi trovassi sull'orlo dell'abisso, non mi
dispererei. E quando anche vedessi l'inferno e il Paradiso contro di
me, non diffiderei della misericordia, perché confiderei in te». Come
spingere più oltre la confidenza? Non pare di udire santa Teresina?
«Quale allegrezza si trova nell'abbandonarsi nelle braccia di Gesù! ...
Si sta tanto bene con Gesù solo... Mi sono data tutta nelle mani di
Dio, mi sono resa totalmente alla sua volontà. Cerco Gesù, ma perché mi
aiuti a fare il suo volere. Fino a che avevo tanti desideri, l'anima
mia era inquieta; ora che ne ho uno solo, sono felice: Gesù in terra,
Gesù nella vita, Gesù in cielo, ecco tutto ciò che mi sostiene...
Nell'interno, non vado più pensando, (più) cercando... Ho raccomandato
a Gesù tutte le cose, e io vivo in silenzio e nella pace del cuore. Se
Gesù è tutto mio, chi potrà mai essere mio vincitore?».
Il suo amore è disinteressato. «Io non voglio che Gesù, altro che
Gesù». A Gesù non chiede altro che Gesù, non i suoi favori, le sue
carezze, i suoi doni, ma lui, la sua volontà; ed egli si dà a lei
talmente che, semplicissima nella sublimità del suo amore, dice: «Mi
pare che Gesù mi voglia tanto bene». E un'altra volta più convinta
ancora: «Sì, che mi vuole tanto bene». E ingenuamente ce ne dà la
ragione: «Perché ogni mio respiro è suo; ogni mio desiderio è suo; ogni
mio affetto è suo... sempre: quando spunta il giorno, quando si fa
notte, a tutte le ore, in tutti i momenti...».
Che meraviglia che il cuore di Gesù, il quale non si lascia vincere in
generosità, dica a lei come ad altre sante: «Tu mi basti!». Gemma,
però, sempre compresa della sua miseria:
«Come farò a bastare a te?» domanda. «Gesù solo può bastare a se
stesso; quindi, vieni tu, o Gesù, a regnare nel mio cuore».
E che meraviglia, ancora, vedere Gesù amorosamente perseguitarla, non
lasciarla mai dovunque lei vada, mai scostarsi da lei, avendo
conosciuto che senza di lui ella non può vivere. La cara figliola,
sorpresa un giorno di tanta insistenza di amore, gli domanda nella sua
ingenuità: «Ma come, mio Dio, hai dimenticato tutte le altre cose? Non
hai da guadagnare che me? E subito una luce mi si fa nella mente, che
Gesù nella luce immutabile della sua divina visione non cresce nel
guardare solamente ad una, a me sola, e neppur diminuisce nel guardare
a molte creature».
«Lascia, lascia (o mio Dio) che io ti chiami padre. Nessuno perdona
come te le mie debolezze, le mie inconsideratezze... Tu sei un abisso
d'amore, io un abisso d'iniquità».
Ma appunto perché un abisso chiama l'altro, Dio colma l'abisso
dell'umiltà di Gemma con quello del suo amore, di modo tale che lei è
costretta ad esclamare: «il mio cuore è piccolo e (Dio) è infinito... e
questo piccolo cuore sente il bisogno di allargarsi, di dilatarsi.
«Come faccio, Gesù» esclama Gemma tra quelle strette d'amore, «come
faccio a nascondere il mio petto al fuoco?... Vieni, Gesù. Tu sei
fiamma e in fiamma vorresti che il mio cuore si cangiasse!...».
Conseguenza necessaria di tali ardori di carità non poteva essere che
la nostalgia del cielo, la pena che si prolunghi l'esilio, il desiderio
di andarvi per farvi solo la volontà di Dio, e per amarlo senza misura.
«O Paradiso! O Paradiso!» esclama. «Lasciami pensare a te... In te non
vi sarà più notte, né tenebre né mutazioni di cose e di tempo.
«O Paradiso!... E tanto che ti desidero... Un desiderio che mai non
tormenta; una sazietà che mai viene a noia! Non sei tu, o Gesù, che mi
hai messo questo desiderio? Ma sarò fatta degna di vedere (o Paradiso)
le tue fondamenta? Di vedere le tue sante mura? Di vedere i tuoi
abitatori, il tuo re? Mi raccomando a voi, angeli santi; a te, angelo
mio; aprimi la porta, lasciami entrare...».
CAPITOLO XXXII. - IL PARADISO IN TERRA!
Ma per le anime veramente amanti, vi è un Paradiso anticipato e questo
è l'eucaristia, «dove resta vivo il cuore di Cristo, cibo e nutrimento
capaci di condurle ad una vera immedesimazione in lui».
Gemma ne è avida: «Nell'eucaristia» sono sue parole «c'è una forza che
purifica, una virtù che distrugge tutti i peccati, e vi corro, vi volo».
«Senza il cibo materiale, sarebbe vissuta» dice una persona che
intimamente la conosceva, «ma senza l'eucaristia, no. Aveva per essa un
amore appassionato». Si vede infatti rinnovarsi nella cara Gemma il
prodigio d'amore ammirato in santa Caterina da Siena e in altre sante.
Dalla Pentecoste alla fine di giugno del 1902, visse della sola
eucaristia e senza un'ombra di deperimento. Costretta a mangiare per
obbedienza, vi si piegava, rigettando però con tale impeto tutto quel
che prendeva da uscirle sangue dalla gola. Dopo questa replicata prova
fu lasciata libera di sostenersi col solo pane eucaristico. Alla fine
di giugno, Gesù le fece però comprendere che cessava il prodigio ed
egli non l'avrebbe più sorretta in tal modo. Con somma felicità Gemma
tornò allora ai cibi comuni.
Il Signore volle con ciò provare che per lei egli era il tutto: forza
spirituale e forza materiale; che le cose terrene erano nulla per lei,
ed egli, egli solo, suo sostegno e sua vita. Quella festa di Pentecoste
segnava inoltre, per Gemma, l'inizio di un'era di prove straordinarie,
e con tale prodigio il Signore volle mostrare che queste prove venivano
da lui.
La mattina della prima comunione, dopo aver ricevuto Gesù, Gemma aveva
detto alla compagna che aveva accanto: «Io mi sento bruciare, sento qui
un fuoco... - accennando al cuore - e tu pure lo senti?». La compagna
aveva sorriso.
Questo fuoco acceso non si spense mai più, divenne anzi un incendio
divampante, fino al giorno in cui la santa dovrà esclamare: «Sento che
l'amore mi vincerà finalmente, e l'anima mia, non potendo amare
abbastanza Gesù qui in terra, sta in pericolo di dividersi dal corpo...
Che bella sorte amare Gesù solo... O padre (è al direttore che scrive)
potesse dire lei tra qualche giorno: "Gemma fu vittima d'amore e morì
solo d'amore!" Che bella morte! Vorrei struggermi, che il mio cuore
divenisse cenere e che tutti dicessero: il cuore di Gemma è incenerito
per Gesù».
Molto più ancora si sente ardere e consumare dinanzi al santissimo
esposto. «Ieri, nell'appressarmi a Gesù in sacramento, sentii bruciarmi
sì forte, che fui costretta ad allontanarmi. Quasi quasi rimango
stupita che tanti e tanti che stanno a Gesù vicini non vadano in
cenere. Io sento che incenerirei. Gesù è un amante irresistibile e
diletto. Come fare a non amarlo con tutta l'anima, con tutto il cuore?
Come non desiderare di essere assorta in lui e consumata nelle fiamme
del suo amore santo?».
«Giorni or sono mi lamentai con Gesù e gli dissi: "Mio Dio, ma se a
tutti fate così di sentirsi bruciare e finire dinanzi a voi, le persone
non ci potranno resistere e voi rimarrete solo". E Gesù amorosamente
rispose: "Ma tutti non amo mica quanto te". Oh, sì, Gesù mi ama!... Sia
sempre benedetto!».
Quando per qualche tempo, in assenza della madre adottiva, venne
accolta prima nella foresteria e poi nella clausura delle suore
Mantellate, Gemma passava le notti intere immobile in ginocchio sui
gradini dell'altare in amorosa contemplazione. Vi avrebbe trascorsa la
vita e chiedeva incessantemente a Gesù di accordaile un cantuccio nel
suo ciborio. Le suore erano stupite di quelle prolungate adorazioni.
«Tanti mi domandano: "Che fai tanto tempo dinanzi a Gesù?". E io allora
rispondo: "Che fa una povera davanti a un gran signore?". Ho bisogno di
tutto!».
Cara, sublime risposta nella sua incantevole semplicità, rivelazione
dell'umiltà fiduciosa del suo cuore amante.
il suo volto, trasfigurandosi come quello di un angelo, parlava
eloquentemente dell'intima gioia che tutta l'inondava.
E quando Gesù non è solo da lei contemplato, ma viene in lei,
rispondendo ai suoi ardenti inviti: «Ecco, o Signore, ti apro il mio
petto: introduciti, o fuoco divino. Vieni, Gesù... Vorrei essere la
sfera delle tue fiamme». Che avverrà mai di lei? Piomba nell'estasi,
assorta nel bene infinito, chiusi i sensi alla terra; immedesimata in
lui che è il tutto dell'anima sua.
Come tutte le anime umili, Gemma deplorava la sua freddezza, la sua
impurità, fino a dire: «Immeritevole qual sono, bisognerebbe che
rendessi all'altare tante particole da me rubate e tanto sangue...».
Eppure, non viveva che per l'eucaristia. Desiderava che la notte
passasse presto per potersi recare in chiesa, né badava a sofferenze o
stanchezze; solo l'obbedienza poteva allontanarla, perché «l'obbedienza
è santa» diceva, «e la prima comunione che Dio brama da noi è, più
ancora della sacramentale, la comunione alla sua volontà».
«O Gesù, chi sarà domattina il primo a cercarti?» diceva. «Sarò io...». E la
notte era una preparazione continua. Udiamone un saggio. E tolto da una
lettera indirizzata al suo direttore:
«E’ notte; mi avvicino a domattina. Gesù possederà me e io possederò
Gesù. L'ho io forse meritata questa fortuna? No, padre mio, non è vero?
Gesù, mio Dio vero, oggetto unico degli affetti miei, che sarebbe per
me morire dopo avervi ricevuto? Sì, morire nell'estasi della santa
comunione? Mio solo amore, Gesù... ti aspetto. Oh almeno i trasporti
della mia tenerezza ti facciano dimenticare l'amarezza dei miei
disgusti! Illusi, è vero, quelli che amano altri che Gesù? Oh mio Dio,
che ti degni volgere anche quest'oggi uno sguardo sull'ultima delle tue
figlie, è troppo, mio Dio, è troppo! Mio Dio, vi adoro, muoio d'amore
per voi, il vostro amore si dolce l'avrò sempre nella mente, nel cuore
e sulle labbra! Gesù, Gesù ora e sempre! Gesù mio lume, mio cuore e
anima mia. Gesù, Gesù, Gesù».
Dopo tutto ciò, è facile immaginare l'immenso dolore che dovette
provare la povera Gemma, quando udì dal confessore la minaccia di
privarla della santa comunione, e le fu messo il dubbio di essersi
sempre comunicata in peccato. E come non ne morì di dolore?
Il solo contegno, spirante viva fede e ardente carità con cui si
accostava a ricevere Gesù, era di edificazione a tutti.
«Non si sta in chiesa come si dovrebbe stare» diceva talvolta. «Vedeste
come vi stanno gli angeli». Gli angeli adoratori del tabernacolo erano
quindi i suoi modelli.
Miss Ethel Rose, protestante convertita, donna di fede profonda, di
pietà illuminata e di un eroico spirito di carità, narra che, andando
una volta alla basilica di san Michele per confessarsi da monsignor
Volpi, dovette a lungo aspettare essendo il confessionale stipato di
gente.
«In quel frattempo venne un sacerdote a comunicare i fedeli» dice, «e
tra questi una giovinetta che mi impressionò fortemente, non solo per
la sua modestia e il suo raccoglimento, ma anche per il grande pallore
del volto. Mi attrasse e m'interessò tanto, che la seguii per un'ora
circa, vedendo come ricevette Gesù, e come, ricevuto, si infiammasse
nel volto di amore ardentissimo e così tutta accesa e tutta raccolta,
in ginocchio alla balaustra dell'altare, con le mani giunte e col capo
lievemente piegato sul petto, rimase come tutta assorta in profonda
preghiera: sembrava una statua».
Ma come toglierla a quel profondo raccoglimento? Nulla di più facile,
di più semplice. La madre adottiva che negli ultimi anni sempre le sta
a fianco, ad evitare ogni vistosità la richiama ai sensi con queste
parole profetiche non con le labbra, ma col cuore: «Fate, o Signore,
ch'ella torni in sé». E Gemma come se avesse udita una voce misteriosa
darle un comando, subito si alza e la segue, senza por fine però a
quella festa d'amore a cui si è preparata con ardentissimi affetti.
Gesù, il grande dimenticato, è suo ospite divino. «Egli è sempre con
me» dice, «è tutto mio. Egli è solo; sono sola a benedirlo, sono sola a
corteggiarlo; se ne sta racchiuso nella misera stanzetta del mio cuore;
la sua maestà sparisce: noi siamo soli soli, il mio cuore continuamente
palpita insieme a quello di Gesù... Non è una cosa da far tremare di
consolazione?».
CAPITOLO XXXIII. - LA MISTICA FARFALLA
«Oh chi mi darà penne d'aquila, chi mi darà penne di colomba per
volarmene a te, o mio Dio?» esclama Gemma. «Dammele tu, o Gesù, le ali
della contemplazione. Come farò a volarmene a te?». E il Signore le
concesse le ali, e Gemma volò a lui. Del resto, chi potrebbe stupirsi
di vederla volteggiare quale amorosa farfalla attorno al sole divino,
giungere fino alla vetta del mistico monte e celebrare, lassù, in un
mare di luce, le nozze terrene con l'Agnello divino, nozze che sono
preludio di quelle eterne? Tra le prime e le seconde, non vi è che un
velo, squarciato il quale, l'anima s'immerge nell'oceano immenso e
infinito della santissima Trinità.
Seguiamola nell'ascensione del monte, le cui prime tappe già sono note:
le divine seduzioni, la prova purificatrice dei sensi, la pioggia dei
celesti favori. Ma andiamo più oltre, penetriamo nell'anima sua, nelle
sue comunicazioni con Dio; vediamo la sua orazione, il suo bisogno di
lode incessante.
Ecco Gemma dare relazione al suo direttore delle sue orazioni.
«Nel pormi a fare la meditazione» scrive «non ci metto alcuna fatica.
L'anima mia subito si sente sprofondata tutta negl'immensi benefizi di
Dio, e quando si perde in un punto, quando in un altro. Prima, però,
comincio a far riflettere all'anima mia che, essendo fatta ad immagine
e somiglianza del suo Dio, lui solo deve essere il suo fine.
«In quei momenti, mi pare che l'anima mia se ne voli con Dio, e perda
la gravezza di questo corpo; trovandomi innanzi a Gesù, tutta mi perdo
in lui. Mi sento di amare quel celeste amatore delle creature; quanto
più penso a lui, tanto più lo conosco dolce ed amabile... Alle volte mi
sembra di vedere Gesù in una luce divina e in un sole di chiarezza
eterna, un Dio grande, che non v'è nella terra ed in cielo cosa che non
sia a lui soggetta, un Dio nel cui volere sta tutto il potere... Tra i
beni lo conosco un sommo Bene, un bene che da se stesso esiste; essendo
Gesù perfetto, in lui si trova ogni cosa. Mi perdo ancora nella sua
bontà, e qui quasi sempre la mente mi vola al Paradiso. Gesù è buono
infinitamente, e io in lui godrò, lo spero, tutti i beni... E termino
pregando Gesù che accresca in me l'amore suo affinché il cielo si
perfezioni».
A una domanda espressale dal suo direttore, Gemma dette questa
risposta: «Vedo Gesù (entrando in orazione) non cogli occhi del corpo,
ma lo conosco distintamente; perché mi fa cadere in un dolce abbandono,
e in questo abbandono conosco lui. La sua voce mi si fa sentire si
forte che più volte ho detto che mi ferisce più la voce di Gesù che una
spada a molti tagli: tanto mi penetra fino all'anima. Le sue parole
sono parole di vita eterna. Quando così vedo Gesù e lo sento, non mi
sembra di vedere né bellezza di corpo, né figura, né un suono dolce, né
un canto soave; ma quando vedo e sento Gesù vedo una luce infinita, un
bene immenso; (la sua) non è voce articolata, ma è più forte, si fa più
sentire al mio spirito che se udissi parole pronunziate».
E per dare al suo direttore spirituale un'idea più chiara di ciò che
passava nell'anima sua, ricorreva a similitudini: «S'immagini di vedere
una luce d'immenso splendore che tutto penetra, tutto involge e
rischiara, e al tempo stesso tutto vivifica e rianima in guisa che
tutte le cose che sono, sono per questa luce e per essa ed in essa
hanno vita: così io veggo il mio Dio e le creature in lui. S'immagini
un incendio di fuoco grande quanto l'universo ed infinitamente al di
là, il quale brucia ogni cosa senza nulla consumare, e bruciando
illumina e conforta, e quelli che più dalle sue fiamme sono compresi,
meglio stanno, e maggiormente bramano di essere abbruciati: così veggo
le anime nostre in Dio».
E riguardo alla SS. Trinità: «Mi pare di vedere tre persone dentro una
luce immensa; tre persone unite in una sola essenza: poiché la Trinità
è unità e l'unità è Trinità... Una sola è la sua essenza, una sola la
sua bontà, una sola la sua beatitudine».
Una volta monsignor Volpi la intratteneva su questo argomento e
l'interrogò sul mistero della Trinità, e, illuminandole Dio la mente,
lei tanto vi s'internò, che tutti e due rimasero poi senza parola, non
elevati da terra con la persona, come accadde a san Giovanni e a santa
Teresa un giorno in cui il santo aveva preso il largo in quest'oceano
immenso, ma elevati in alto con la mente, con il cuore, con l'anima
tutta, quasi soggiogati dalla sublimità del mistero.
E il parroco don Federico Ghilardi: «Una volta, capitai in casa
Giannini come di solito. La signora Cecilia mi avvertì che era il
momento in cui avveniva l'estasi a Gemma, e soggiunse se avessi voluto
presenziarla.
Gemma era nel contegno e nella posa di chi sta in comunicazione con
un'altra persona. Naturalmente, in questo caso, la persona era
invisibile. Prima sembrava che Gemma ascoltasse poi rispondesse.
Sentivo rispondere da Gemma tali cose riguardanti il mistero della SS.
Trinità, così intime e così teologiche, che io rimasi meravigliato;
tanto è vero che domandai alla signora Cecilia: "Ma questa figliola ha
fatto studi speciali di alta dottrina, oppure ha letto qualche libro di
teologia?". Con ciò volevo manifestare tutta la mia meraviglia
nell'ascoltare la dottrina teologica così precisa e profonda che Gemma
manifestava».
Si, a volte la piena dei sentimenti e delle divine dolcezze sull'anima
di Gemma era tale da rapirla veramente fuori dei sensi o farla cadere
in deliquio. «Come potrei spiegarle quel che sento in quei momenti? È
tutto il cielo che si ammira, poi si rimane sopraffatti, la mente si
confonde e rimane sbalordita, il cuore batte forte forte e non sa che
fare; gode e soffre al tempo stesso, e non vorrebbe ritornare indietro.
E finita l'orazione, se sapesse come si rimane! Non so se abbia mai
provato. Mio Dio, quanto sei buono con me!».
Altre volte, la sua orazione è invece un dolcissimo sonno:
«Si figuri una bimba che se ne sta in grembo alla mamma sua e vi prenda
sonno. Ella è li, dimentica di sé e di tutto, non pensa a nulla, ma si
riposa e dorme, e non saprebbe ella stessa in che modo e perché: così
l'anima mia in tale tempo. Ma creda, padre, che è un sonno assai dolce».
Questi tocchi si fanno sempre più frequenti e più intimi. «Man mano che
il lume soprannaturale discopriva alla mente di Gemma le bellezze
divine» dice padre Germano, «il cuore le si scaldava sul petto,
cominciava a palpitare e si struggeva per il desiderio di unirsi al
sommo Bene. E col crescere di questi ardori, si veniva a poco a poco
assottigliando, dirò così, il muro di separazione fra la creatura e il
creatore finché, cadendo del tutto, l'anima fortunata si trovava in
contatto con la divinità. Poco poteva allora parlare, e cadeva in
amorosi deliqui».
Se fino a quel punto non aveva mai osato chiamare Gesù suo sposo,
bastandole solo di essergli serva e figlia, crescendo in lei l'amore,
le sorse in cuore il desiderio di dare a Gesù il titolo di sposo. «Se
provo, o mio Dio, tanta consolazione la mattina quando ti fai chiamare
padre, oh che sarà quando potrò dirti mio diletto? Si, Gesù, consola
questa povera figlia tua e sposa promessa».
E altra volta, stando sempre in estasi, fu udita esclamare:
«O Gesù, ma sempre figlia? Nulla più? Eppure, vorrei... Gesù! Si,
l'intendo, troppo sarebbe, o Gesù, per me. Ve lo dico qual è la cosa
che desidero io? Vorrei, Gesù, vorrei essere vostra... sposa. Sì,
vostra sposa, Gesù». E perdendo i sensi rimase per lungo tempo
prostrata sul suolo come morta.
Narrando ciò padre Germano esclama: «Ed ora voi accorrete, o divino
sposo delle anime, e dite, ché ne è tempo, dite a questa innocente:
"Levati su e vieni. Veni, sponsa Christi accipe coronam quam tibi
Dominus praeparavit in aeternum».
«I voti di questa santa anima erano soddisfatti, e il divin Verbo se
l'unì con indissolubile vincolo d'amore.
«Da quel giorno, Gemma non parve più creatura umana. Quella maestà di
volto che sempre fu ammirata in lei, quello splendore degli occhi, quel
soave sorriso del labbro e quant'altro di raro si era in essa fin
allora veduto, presero un non so che di celestiale che incuteva
riverenza e la faceva sembrare un angelo del cielo».
«Frutti di quest'unione erano lo spavento che le cagionava: il solo
nome di peccato, lo zelo ardente che l'avrebbe portata a farsi in pezzi
per impedire una sola benché minima offesa di Dio, la brama ardente di
dare a lui soddisfazione con ogni sorta di parimenti e di operare cose
grandi per la sua gloria, una quasi impassibilità in mezzo alle più
grandi tribolazioni della vita, le vessazioni diaboliche, le aridità
dello spirito.
«Diventata sposa, ella non si turba più. Unitasi strettamente a Dio, la
sua volontà rimane tutta trasformata in quella di lui, e in essa si
riposa, perché uno dei più eccellenti frutti della mistica unione è
l'abbandono in Dio».
CAPITOLO XXXIV. - LA NOTTE OSCURA
Non si creda però che l'anima possa giungere a tanto senza aver prima
molto sofferto.
Trattandosi di qualcosa di simile alla beatitudine eterna, per
giungervi bisogna che passi prima per una prova purificatrice, simile a
un purgatorio anticipato, il che è terribile.
Tutte le prove piombano su quella povera creatura; da parte di Dio,
degli uomini, del demonio; un dolorosissimo complesso di cose che
conduce al totale spogliamento di sé, e che, facendo perdere all'anima
ogni fiducia nelle creature e in se stessa, e privandola di ogni umano
e spirituale conforto, la getta in uno stato tale di nudità spirituale,
da credersi quasi abbandonata anche da Dio.
Spariscono le dolcezze della comunione e le intime effusioni nella
preghiera. Tutto le è noia, stanchezza, tenebre, difficoltà. il ricordo
dei suoi supposti peccati la tormenta; il dubbio del perdono di Dio
l'empie d'affanno, il pensiero della sua incorrispondenza alle grazie
tenta di gettarla nello scoraggiamento. Non ricorda più nulla: né
grazie, né dolori, né favori speciali. «Il mio stato d'animo è così
scuro, che non ci vedo proprio più nulla» dice Gemma. «E che cos'erano
tutte quelle cose passate?... Tutto quel mucchio di cose che vedevo e
sentivo?... Appena me ne ricordo... Mi pare d'aver fatto un sogno
lungo... Ma Gesù vorrà allontanarsi sempre di più. Invece di andare in
meglio, vado in peggio. Faccio la comunione, ma come se neppure la
facessi: prego senza nessun fervore: però, in ogni modo, vorrei amare
tanto Gesù... Tutto mi affligge, nessuno mi è più caro come prima, non
ho neppure la gratitudine con chi devo... Se chiamo Gesù o se lo cerco,
neppure risponde internamente. Prima lui mi chiamava, ora io chiamo
lui; ma oltre a non rispondere, mi manda via; di nuovo dò l'assalto; ma
sempre più si allonta..... Del passato non posso più parlarne, perché
non me ne ricordo... E poi, ora non capisco neppure... Non sono più
capace di pensare a Gesù: cioè, ci penso sempre, ma non so in che
modo... Sì, sì, è vero, siamo al De profundis. E quanta svogliatezza
nel pregare! Fin lo stare in chiesa mi annoia. Il tempo che poi spendo
nel fare la meditazione mi pare un purgatorio. Ma pure la faccio... A
che punto sono arrivata: si può dar di peggio? Sono però contenta,
perché questo è il volere di Dio. Tutte le preghiere solite le faccio,
anzi per dispetto le accresco».
Il demonio la tenta quasi sopra le forze, la paralizza talvolta nelle
sue facoltà, le impedisce la preghiera e la lode. In questo stato:
«Pietà di me, Signore» esclama Gemma, «pietà di me. Dove sei? Dove sei,
Gesù mio?... Ti chiamo tante volte al giorno, sempre ti cerco... E che
mi giova il vivere, se io perdo te?... O mio Dio, e che farò?... Non
sono più io la preda amorosa?... E di chi sarò preda? Di chi? Non lo
permettere, o Signore, non lo permettere...».
Tutti gridi d'angoscia che rivelano il profondo martirio.
Ma se Gesù si è così celato a lei, forse la colpa è sua? Che pensiero
tormentoso per un' anima amante come quella di Gemma! Si è celato e non
tornerà più. Che spina cocente!
«Qual è la cosa, che più ti ha costretto a lasciarmi?... Dimmelo, Gesù,
in che ti offesi. Non ti serbai puro il mio cuore?... il demonio mi
mette in mente tante cose!
«Hai ragione di non voler tornare più... Ma senza dirmi nulla: né un sì
né un no, né una parola di approvazione e di rimprovero?... E che ci
faremo, Gesù, nel mondo?... O Gesù, dove mi lasci! Mi affatico dalla
mattina alla sera... Tu che dicevi: "Mi sei ingrata, ma pur mi sei
cara...". E ora? Torna come prima; io ti prometto tutto quello che
vuoi...».
«Che tardo?... Tardo io, o sei tu che ritardi? E mi lasci così? E ci
lasciamo così... Se è tua volontà, liberami, liberami, illumina i miei
passi.
«Dove sei andato, amor mio? Dove sei nascosto?... Perché son viva?
Fammi pur morire, ché lo desidero. Desidero di morire, ma per venire
solo con te. Dove sei andato, mio Gesù? Bellezza infinita, dove ti sei
celato? Dove ti devo cercare?... Fatti vedere una volta sola ... Ma
forse mi hai detto che non ti vedrò più sulla terra?... Io non me ne
ricordo... Quando ero piccola mi dicevano che eri sempre presente. E
come va che non ti vedo?... Sciogli questo corpo, o Gesù, rompi queste
catene. Non sarò contenta finché l'anima mia, libera e sola, non volerà
a te».
Anche il pensiero di esser dannata le si affaccia alla mente; ma lo
respinge, e domanda a Gesù se mai potrebbe essere possibile che ardesse
eternamente nell'inferno, eternamente separata da lui, un'anima che non
avesse mai avuto altro desiderio quaggiù che quello di amarlo.
«E che mi gioverà tanta misericordia usatami da Gesù e tante sue
grazie?», esclama. «Io nell'inferno ad odiare e maledire per sempre
Gesù .... No, è vero?... E Gesù soffrirà nel vedere una sua povera
figliola perduta, che ha tanto desiderio di amarlo e non offenderlo?...
Dio mio, dimmelo: mi salverò o mi dannerò?..
Che mai le rimane a sostegno, nelle lotte, nelle tenebre? La fede. «Ti
chiamo, o Gesù, e t'invoco tutti i momenti ma solo con la fede. E con
quale fede? Con quella che tu mi hai dato per la salute dell'anima mia
e per tutta la tua bontà... Mi è dolce cosa vivere di fede... La fede
mi basta».
Ma nonostante che Gesù si nasconda, che le tenebre l'avvolgano, che la
tempesta rumoreggi in lei e attorno a lei, «che pace e che quiete»
nell'intimo centro dell'anima sua! Una cosa sola le basta: che Gesù le
serbi il suo amore. Le esterne manifestazioni di questo amore non le
importano: «Le carezze serbale a quelle anime che hai care... Il mondo
sia pur falso, non me ne importa nulla... Accendimi del tuo amore, e mi
basta».
Ma che fa in questo stato? Ce lo dice lei stessa: «Io cerco sempre
Gesù: cerco di promuovere sempre la sua gloria, di non amare altro che
l'amor suo». E non è appunto questo che brama il Signore dall'anima che
prova per congiungere a sé? La costante, disinteressata, amorosa
fedeltà nella prova basata sulla fede, e sostenuta da una volontà che,
per procedere amorosa, non ha bisogno del sentimento della grazia ma
solo della forza della grazia.
Di quando in quando, come quasi sempre avviene in tali stati, cessa la
lotta: le tenebre si squarciano, riappare la luce, e Gemma così ne
ringrazia il Signore: «Ti ringrazio, Signore, di questi momenti di
pace. Ti ringrazio, pronta però a rinunciarvi qualora tu lo volessi.
Vorrei in questi momenti lodarti, e lodarti degnamente. Ma qual è la
creatura che può lodarti degnamente?... Ci vorrebbe uno spirito puro;
ma dov'è la creatura concepita pura? Io lascio che gli angeli e tutti
gli spiriti del cielo a migliaia e migliaia ti diano lodi. Ebbene, di
tutti questi momenti di pace che mi dai, gli angeli e i santi ti
compensino per me. Voglio lodarti, amarti e glorificarti a dispetto del
nostro nemico e a gloria della tua infinita maestà».
Ma questi momenti di luce e di riposo sono brevi; poi l'anima ripiomba
nella solitudine e nelle tenebre.
Dopo questa lunga prova, l'unione; e nell'unione, nulla poté più
turbare o far tremare l'anima sua, neppure gli ultimi giorni della
vita, quando era distesa sulla nuda croce, senza conforti né dal cielo
né dalla terra, senza raggi di luce a solcare di quando in quando le
sue tenebre.
La corolla di questo caro fiore di passione, che in sé aveva raccolto
la corona di spine e i chiodi e la spugna dell'amarissimo fiele, non fu
più scossa né agitata da nessun vento sinistro e quando piegò fu solo
per appoggiarsi eternamente sul cuore piagato del martire del Golgota.
CAPITOLO XXXV. - SUBLIME EROISMO
L'oggetto della carità è uno solo: Dio. Dio considerato e amato in se
stesso: amor di Dio. Dio considerato e amato nel prossimo: amor del
prossimo.
Questi due amori, in realtà un solo e unico amore, cammineranno di pari
passo: crescendo l'uno, crescerà anche l'altro. E non è questo il segno
di riconoscimento dato dal Signore, per i suoi veri discepoli? «Da
questo riconosceranno che siete miei discepoli: se vi amerete gli uni
con gli altri».
Gemma ebbe carissimo il comandamento nuovo, quello che Gesù si compiace
di chiamare suo.
Presa da Dio a un grado non comune, spinse la carità del prossimo al
limite estremo. Sì, al limite estremo. Offrì per la conversione delle
anime la sua vita; ma passò ancora più oltre, e avendo udito parlare di
una poveretta crudelmente vessata dal demonio, chiese al suo confessore
di implorare per sé lo stesso martirio per procurare con ciò la
conversione delle anime. Lo chiese, l'ottenne, lo stimò somma grazia.
Non è questo eroismo di carità spinto all'estremo?
Dar la vita per il proprio fratello ha qualcosa di nobile, di luminoso,
di grande; ma farsi schiavo di satana, abbassarsi così esponendosi non
solo a sofferenze inaudite, ma anche alle umiliazioni, ai disprezzi,
agli sfavorevoli giudizi degli uomini, ignari dell'eroismo nascosto in
tale stato di abiezione, è il massimo dei sacrifici. Dio lo vede, ne
conosce la grandezza: gli uomini ne vedono solo il lato oscuro.
«Preparati»
disse un giorno il Signore a Gemma, «preparati.
Il demonio, con la grande guerra che ti farà, darà l'ultima mano
all'opera che voglio compiere in te». Infatti le
vessazioni da lei subite furono orribili, richiamando quelle di grandi
santi, quali sant'Antonio abate, santa Maria Maddalena de' Pazzi e
tanti altri ancora.
Con la violenza e con l'inganno, il demonio cercava d'impedirle la
preghiera; ma Gemma, pur soffrendo, stava salda. «Oh che tormento è
questo per me» diceva, «di non poter pregare! Quanta fatica mi ci
vuole. Quanta fatica non fa quel birbone per rendermela impossibile...
Ieri, voleva uccidermi, e l'avrebbe fatto se non accorreva presto Gesù.
Ero sgomenta. Mi trovavo con l'immagine di Gesù nella mente: ma non
potevo proferirne il nome con la bocca!».
Il maligno tentò di toglierle ogni fiducia nel confessore, prendendone
talvolta le sembianze, incitandola al male invece che al bene, ed
empiendola così di turbamento. Una volta, tra le altre, l'inganno era
stato da lui così sottilmente condotto, che le occorse del bello e del
buono per riacquistare la pace.
Al grido: «Guerra! guerra! Il tuo manoscritto è in mano mia», sottrasse
il diario che Gemma scriveva per obbedire al suo direttore, e furono
necessari gli esorcismi per indurlo alla restituzione.
Per tentarla di vanagloria, le soffiava all'orecchio che le sue
lettere, tutte religiosamente conservate, sarebbero servite a qualcosa
di grande; e le mostrava talvolta una gran calca di gente biancovestita
circondare il letto nell'atto di venerarla come Santa.
Ma la tentazione che più la fece soffrire fu quella della disperazione.
Approfittando delle grandi aridità di Gemma, l'iniquo le suggeriva:
«Vedi? il tuo Gesù non vuol più saperne di te. A che ti stanchi a
corrergli dietro? Smetti, e rassegnati alla tua sorte infelice. Per te
non c'è più speranza che tu ti possa salvare: sei nelle mie mani».
Venivano delle ore, ma queste erano rare, in cui il demonio
s’impossessava pienamente della buona figliola, delle sue facoltà, dei
suoi sensi, di tutto. Cessati questi momenti di vera ossessione, la
poverina diceva: «Mi pare di essere stata all'inferno. Ma purché io non
abbia offeso il Signore!... Ne sarò uscita pura?». Non aveva offeso il
Signore; l'aveva glorificato.
Anche contro la persona di Gemma si scagliava il demonio. Le compariva
in forma spaventosa battendola crudelmente, trascinandola per i
capelli, precipitandola per le scale, maltrattandola in mille guise,
facendola orribilmente soffrire e lasciandone le membra livide e peste.
Ed empiva la casa di suoni sinistri, di spaventosi rumori. Tutti
rabbrividivano e si sentivano pieni di compassione per la povera
vittima che così gemeva: «Dove sei, dove sei, Gesù mio? Deh, vieni in
mio soccorso!».
Sulle prime aveva paura, e quando la notte se lo sentiva appressare:
«Viene!», diceva alla signora Cecilia. Questa si alzava, si sedeva al
letto di Gemma, e abbracciandola amorosamente, le raccomandava di non
temere. Ma la sentiva tremare come una foglia mentre diceva: «Sento qui
il demonio».
Ben presto non temette più. Al timore successe lo scherno e il massimo
disprezzo. Vederlo così vile era anzi per lei motivo d'ilarità e di
derisione.
Ora, ripetiamolo: questo martirio, durato degli anni, Gemma lo chiese e
lo soffrì per le anime.
Ma mentre gemeva tra gli artigli di satana, che appunto per il suo zelo
terribilmente la odiava, le anime spezzavano le loro catene e tornavano
piangendo a Dio. Ad ogni sua conquista, corrispondeva un raddoppiamento
di furore da parte del demonio.
CAPITOLO XXXVI. - CATENE SPEZZATE
Già vedemmo la stupenda conversione avvenuta la sera del primo incontro
di Gemma col padre Germano. Non fu la sola.
Una volta, una signora fece raccomandare alle preghiere di lei un suo
fratello, peccatore ostinato.
Gemma obbedì; ma quale non fu il suo stupore quando pregando per lui in
un'estasi, Gesù le disse di non conoscerlo. Possibile!? «Come non lo
conosci, se è figlio tuo». Si rivolse allora a Maria. Non le rispose,
ma silenziosamente pianse. Pregò il beato Gabriele; ma egli tacque a
sua volta. Deve essere un gran peccatore, concluse Gemma, e intensificò
la sua preghiera. Ma per un anno, questa rimase infruttuosa. Anzi, una
sera, andando in chiesa con la madre adottiva, s'imbatté nella
domestica della signora che aveva raccomandato il fratello. Quasi fuori
di sé questa disse che il suo padrone era agli estremi.
Zia Cecilia e Gemma rimasero addolorate e perplesse; ma ecco che fatta
appena una ventina di passi: «E’ salvo, è salvo», gridò Gemma raggiante
di gioia. «Ma chi?», domandò la zia. «il fratello di quella signora».
Seppero dopo che, proprio in quel momento, il poveretto spirava con
sentimenti di vera contrizione.
Della conversione di un'altra anima, di un'anima sacerdotale, lei fu
causa indiretta. Il Signore gliel'aveva mostrata, ma senza dirgliene il
nome. Si trattava di un sacerdote che ogni mattina celebrava in peccato
mortale, tacendo sempre una colpa in confessione. Gemma ne fu
addoloratissima. Il Signore le disse inoltre: «Domani, andrà a confessarsi dal
tale... e di nuovo tacerà la colpa». Gemma non ne poteva
più.
Data la confidenza che aveva con colui al quale si sarebbe presentato
il peccatore, segretamente gli narrò tutto.
Ecco infatti che quell'infelice va a confessarsi. La confessione è
finita; ma la colpa taciuta. Allora, il confessore si fa animo, e «ma
pure un anima santa mi ha detto che lei, confessandosi, tace sempre un
peccato grave per vergogna. E vero?». Sì, purtroppo era vero.
Quel poverino scoppiò in un pianto dirotto. Finalmente era libero.
Fu l’ultima conversione ottenuta da Gemma riguarda un ostinato
peccatore a lei sconosciuto. Glielo raccomandò un sacerdote. Ma tale
conversione non fu facile; dovette a lungo pregare, lottare, soffrire.
Nell'ultima malattia, fu udita esclamare: «Me lo tengo sulle spalle
tutta questa quaresima, e poi lo lascio». Così fu. Il giovedì santo,
quel sacerdote fece sapere a Gemma che proprio tra le sue mani era
avvenuta la sospirata conversione. Due giorni dopo la santa moriva.
Chi sa mai lo stuolo di anime che l'attendeva al suo arrivo in cielo!
Era veramente vissuta di carità espiatrice, riparatrice, salvatrice.
«Vorrei bagnare col mio sangue tutti quei luoghi dove Gesù è
oltraggiato. Tutti li vorrei salvi, i peccatori» diceva, «che sono
stati redenti con il sangue di Gesù!».
La parola «abbandonare» non la poteva sentire. «Ma come abbandonare un'
anima redenta da Dio col sangue di un Uomo-Dio?» esclamava. «Oh no! Non
abbandonarla mai: aiutarla e sostenerla sempre». E quando
sventuratamente, talvolta, Dio le rivelava che per un' anima non c’era
più misericordia, il suo cuore andava in pezzi. Così pure immensamente
soffriva nel vedere anime privilegiate, ricolme di tante grazie,
divenire a poco a poco indifferenti.
In tutte le anime, da quelle dei fanciulli innocenti a quelle dei
poveri peccatori, vedeva l'immagine di Dio da proteggere e custodire
negli uni, da restaurare negli altri; ma era sempre Dio, lei non vi
cercava altro.
Ed ecco di ciò un magnifico esempio. Gemma era ancora a casa sua, era
anzi malata, immobile nel suo letto. Le offrì i suoi servigi una donna
poveretta, di quelle che vanno a portar l'acqua alle case. Un fratello
di Gemma venne a sapere che non teneva buona condotta e quindi le zie
volevano rimandarla. Gemma udì e, accendendosi in volto, esclamò: «Gesù
respinse forse la Maddalena e l'allontanò da sé perché peccatrice?
Lasciatela venire. Chi sa che non le si possa fare un po' di bene? Non
me l'allontanate, ve ne prego».
E questo bene fu proprio lei a farglielo. Convertire chi della colpa fa
quasi un mestiere non è cosa facile; ma lei vi riuscì. Riuscì a
insinuarsi in quell'anima, capì facilmente che era la miseria la causa
di tutti i suoi guai, e il non poter pagare l'affitto anche del più
misero alloggio.
Gemma è povera; ma che importa? Quell'anima le fa troppa compassione, e
anche da povera troverà il modo di aiutarla. Infatti, da Camaiore, la
zia di quando in quando le manda un po' di denaro perché si procuri
qualche sollievo, e lei lo passa nelle mani di quella poveretta, perché
paghi una misera camera, che le ha fatto prendere in affitto. E alle
zie che le chiedono conto dell'uso che fa di quel denaro, risponde:
«Zitte! Zitte! Non sciupo niente. Lo sapranno, lo vedranno poi l'uso
che ne fo».
L'opera di carità spirituale e materiale di Gemma fu coronata da un
vero trionfo. Quella donna si convertì; spezzò i suoi legami, fece una
confessione generale e visse poi sempre da buona cristiana.
Un mezzo efficacissimo sul cuore del Padre celeste a ottenere grazia
per le anime - come lo era una volta sul cuore del suo babbo terreno
per ottenere ciò che bramava - erano le lacrime. Quelle lacrime,
spremute dal dolore delle colpe altrui, non rivelavano infatti altro
che amore, e l'amore ha una potenza tutta sua propria.
Molto l'aiutava inoltre nel suo apostolato il dono da Dio concessole
del discernimento degli spiriti, la visione del futuro, la vista delle
cose lontane.
Timida e silenziosa com'era, non si peritava quando Dio le diceva: «Va'
e parla!». Così per esempio, a nome di Dio, minacciò un castigo alla
superiora di un monastero se avesse persistito nel non voler cedere
alla volontà dei suoi superiori.
Osò dire a una persona di riguardo che cessasse da certe cose perché
dispiacevano al Signore. Ad un'altra che, per far piacere a Dio, doveva
fare così e così; ad un venerando prelato che le domandava se andasse
bene il modo da lui tenuto nel governare: «Padre» rispose, «conviene
che vada un po' più adagio, e faccia le cose per benino, altrimenti non
contenterà nessuno».
Diceva di sentire come fosse il cuore delle persone che si
avvicinavano, e dava sempre nel segno. Ma padre Germano, per tenerla
umile e diffidente di sé, la rimproverò: «Non approvo il sentimento che
dici di provare intorno allo stato delle persone che ti si avvicinano»
le scriveva. «Queste impressioni Dio le dà ai suoi ministri e ai
direttori delle anime, che debbono provvedere ai bisogni spirituali del
prossimo, e non già a una donnerella che non è capace di regolare se
stessa. Dunque, attenta, Gemma! Continua a pregare Gesù, se mai volesse
degnarsi di porti nella via ordinaria».
La santa, anche in questo, voleva obbedirlo ma... quel sentimento non
dipendeva da lei.
La sua carità si estendeva viva e ardente anche al purgatorio, come
prova ciò che segue.
Ignorando del tutto l'esistenza e il nome di una certa religiosa,
passionista del monastero di Tarquinia, ella ne seppe dal Signore la
malattia non supposta da alcuno; poi, un venerdì, le parve di udire: «Madre Maria Teresa di Gesù
Bambino è in purgatorio, prega per lei, soffre molto».
Spesso il Signore tornava a chiederle suffragi, sembrando quasi anelare
di aver quell'anima in cielo con sé.
Gemma offriva ogni minima cosa, che faceva o soffriva per le anime del
purgatorio in generale, e in particolare per quella. Anzi, un giovedì,
il Signore prolungò di due ore le sofferenze della sua generosa serva
per applicare i meriti a quell'anima.
Si avvicinava la festa dell'Assunta, e l'innocente vittima espiatrice
credeva che l'invocata liberazione sarebbe avvenuta in quel giorno. Ma
proprio quella mattina di tal festa (si trovava allora nel monastero
delle Mantellate, e, in sala di comunità, leggendo le «Glorie di Maria»
di sant'Alfonso de' Liguori) sentì toccarsi leggermente una spalla. Si
voltò e vide accanto una persona vestita di bianco. Ne ebbe paura.
Voleva fuggire, voleva gridare; ma non le riuscì: «Mi conosci?»,
domandò la visione. «No», rispose Gemma, sempre impressionata. «Sono
venuta a ringraziarti del bene che mi hai fatto e della premura che hai
avuto, affinché potessi andare più presto in cielo. Continua ancora
pochi giorni, e poi sarò eternamente felice». «Non mi disse altro»
conclude Gemma con semplicità incantevole, «io continuai a leggere, e
lei se ne partì». Le dispiacque che la Madonna non avesse liberata
quell'anima proprio per la sua festa; ad ogni modo, si dette a
raddoppiare i suffragi e i sacrifici. Finalmente, una mattina, dopo la
santa comunione, comprese che, quella notte stessa, quell’anima sarebbe
libera; ma prima ne avrebbe avuto un segno.
Scocca la mezzanotte e nulla; il tocco, nulla; ma a un tratto, pare a
Gemma che la Vergine l'avvisi dell'appressarsi dell'ora. Circa le due,
ecco infatti presentarsi a lei una religiosa passionista e dirle: «Il
mio purgatorio è finito, me ne vado in cielo, avvisane la madre... e
dille di star tranquilla». Gemma, in lacrime, avrebbe voluto seguirla,
ma non fu esaudita. Vide Gesù stendere le braccia alla religiosa
dicendole: «Vieni, o anima, che mi sei tanto cara», e dopo ciò la
visione disparve.
Certo la cerchia in cui si svolgeva il modesto apostolato di Gemma era
ristretta; ma ve n’era un'altra, immensa e sconfinata; e questa gliela
creava l'amore. L'amore non conosce né ostacoli, né barriere, né
limiti, né misure; e quando ha Dio per oggetto, diviene infinito.
L’anima allora non ha più che un palpito: dare Dio alle anime e le
anime a Dio! Gemma si sentiva quaggiù per questo.
Oh, come il suo pensiero volava ai lidi remoti, alle plaghe deserte,
alle grandi foreste, dove, tra le povere capanne dei popoli pagani, ve
n’é una in cui Gesù sacramentato veglia senza adoratori, con pochi
amici, custodito da un missionario che alla sua ombra prega, soffre e
lavora. E Gemma questo missionario lo seguiva attraverso gli annali
della santa Infanzia e della Propagazione della fede; lo amava,
s'interessava tanto delle sue fatiche apostoliche; di lui voleva udir
parlare, rimanendo talora estatica nella pena della sua impotenza,
negli ardori della sua carità conquistatrice. Oh, che dolore per lei
non poter effondere tesori in aiuto dei missionari! Ma volentieri dava
il suo soldo e altri ne procurava da persone amiche. Povero, ma
benedetto soldo, che, porto da una mano di santa, offerto da un cuore
di santa, doveva muovere quello di Dio a schiudere il cuore dei ricchi
in vantaggio delle missioni, o, se non altro, doveva schiudere gli
infiniti tesori del cuore divino, che tanto, come ci rivela il Vangelo,
si sentì commosso dall'obolo della vedova.
CAPITOLO XXXVII. - ARDUA MISSIONE
Ciò che valse ad aumentare moltissimo nell'anima di Gemma lo zelo per
la salute delle anime e lo spirito di riparazione, fu un doloroso
lamento di Gesù; pietoso lamento, atto a strappare le lacrime e muovere
la volontà anche di chi non l'oda dalle labbra stesse di lui, né abbia
il cuore e l'amore di Gemma.
«Quanta ingratitudine e malizia vi è nel mondo» egli le dice. «I
peccatori continuano a vivere nella loro pertinace ostinazione... Il
Padre mio non vuole più tollerarli... Le anime vili e fiacche non si
fanno nessuna forza per vincere la loro carne... Le anime afflitte
cadono in sgomento e disperazione... Le anime ferventi, a poco a poco,
s'intiepidiscono... I ministri del mio santuario... Ad essi ho affidato
di continuare la bella opera di redenzione... essi pure il Padre mio
non li può tollerare. Io dò loro continuamente luce e forza, ed essi
invece! ... Essi che ho sempre riguardato con predilezione, essi che ho
sempre riguardato come la pupilla degli occhi miei...».
Questo lamento si sarebbe prolungato; ma Gemma, più non reggendo,
l'interruppe. Tutto ciò che aveva, tutto lo aveva dato a Gesù; gli
avrebbe voluto dare tutto il sangue, come i martiri, morire sotto la
mano del carnefice; ma se questo Dio da lei non l'avesse voluto,
desiderava immolargli a goccia a goccia la sua vita, e già gli si era
offerta vittima per i peccatori, ben comprendendo il senso di tale
atto. E Gesù l'aveva accettato, come abbiamo notato per quello che ebbe
a soffrire.
«Signore che vuoi da me?... sono pronta, fa' di me quello che vuoi».
E Gesù volle affidarle una missione che le avrebbe recato un aumento di
dolore, e di cui non avrebbe veduto quaggiù l'esito felice ma solo dal
cielo.
Prima di affidargliela, Gesù volle da lei un'affermazione d'amore.
Attirandola al suo cuore perché ne udisse il palpito dolorosissimo: «Figlia, mi ami tu?»
le domandò. E’ facile immaginare l'ardente risposta di Gemma. «E se mi ami, farai quanto
voglio?... E’ un affare importante... hai da comunicare cose grandi al
tuo direttore... Egli darà al mio cuore la bella soddisfazione che
desidero».
Gemma attentamente ascoltava, ansiosamente attendeva.
L’opera che voleva chiedere Gesù era un'opera riparatrice. «Ho bisogno di anime che mi
rechino tanta consolazione, quanto tante creature mi dànno dolore. Ho
bisogno di vittime e vittime forti. Per calmare l'ira giusta e divina
del mio celeste Padre, mi occorrono anime che con i loro patimenti,
tribolazioni e disagi, suppliscano ai peccatori e agli ingrati. Oh,
potessi far capire a tutti quanto il mio Padre celeste sia sdegnato col
mondo! Nulla più vale a trattenerlo. Sta preparando un gran castigo
sopra tutto il genere umano. Quante volte ho tentato di placarlo! La
vista della mia croce e dei miei patimenti più non lo trattiene. Quante
volte l'ho trattenuto presentandogli un gruppo di anime care e di
vittime forti! Le loro penitenze, i loro disagi, i loro atti eroici
l'hanno trattenuto. Ora pure per calmarlo gli ho presentato dette anime
ed egli: "No, non posso più: queste anime non possono supplire a
tanto... Sono poche"».
«E chi sono queste anime?».
«Le figlie della
passione. Se sapessi quante volte ho visto placato il mio Padre
presentandole a lui: ma ora sono poche, non possono più supplire.
Figlia mia, scrivi immantinente al padre tuo, che si rechi a Roma,
parli di questo mio desiderio al santo padre, gli dica che un castigo è
minacciato e mi abbisognano vittime. Il mio Padre celeste è fortemente
sdegnato. Io vi assicuro che, se daranno la soddisfazione al mio cuore
di fare qui in Lucca una fondazione di religiose passioniste così
accrescendo il numero di queste anime, le presenterò a mio Padre, ed
egli si calmerà. Digli che queste sono mie parole, e perciò sarà
l'ultimo avviso che io dò a tutti, avendo manifestato la mia volontà.
Di' a tuo padre che mi dia questa soddisfazione ..
L’umilissima Gemma provò somma difficoltà nell'eseguire tale incarico.
Pregò, fece pregare anime care a Gesù, e dopo dieci giorni scrisse al
padre Germano.
Eccola dunque incaricata da Gesù stesso di una missione che se
presentava grandi difficoltà, era però cara al suo cuore, ciò per due
motivi: prima di tutto, perché si trattava di un'opera che doveva
consolare il suo Signore e risarcirlo di tanti oltraggi; e poi, perché
le elette a quest'opera erano proprio le Passioniste, alle quali un
giorno sperava di aggregarsi.
Questa speranza risale all'epoca della sua malattia. Non le apparve
forse san Gabriele chiamandola sorella e posandole sul cuore il simbolo
della passione?
Poi, la prima volta che andò a confessarsi dal padre Gaetano
esprimendogli il desiderio di farsi religiosa, questo le rispose: «Ci
sono anche le Passioniste». Da quel momento, il desiderio di divenire
figlia della passione brillò sempre alla sua mente come il più bello e
puro ideale, il più confacente alla sua indole, alle sue aspirazioni.
Nel suo primo colloquio col padre Pietro-Paolo, lo supplicò, come
abbiamo visto, d'interporsi presso le Passioniste di Tarquinia perché
l'accettassero tra loro.
E nella sua prima lettera al padre Germano gli parlò a lungo del suo
desiderio di essere Passionista, dell'assicurazione che ne aveva avuto
da Dio, assicurazione però subordinata a una condizione speciale:
quella che le persone, le quali si sarebbero dovute occupare della
fondazione di un monastero di Passioniste a Lucca, si fossero in ciò
affrettate. Di questa futura fondazione parlava con tale chiarezza e
tale profusione di dettagli, da far poi stupire, a cose ultimate.
Il confessore di Gemma tentò di farla accettare dalle Cappuccme, dalle
Teresiane, dalle Mantellate: si bussò ad altri istituti; ma ogni
tentativo fallì.
Gemma lasciava fare, sicura che il suo vero luogo sarebbe stato tra le
Passioniste.
Quelle religiose di perfetta vita claustrale, tutte consacrate alla
meditazione dei dolori di Cristo, il cui abito è identico a quello dei
Passionisti (che vanno scalze come loro, e come loro si alzano ogni
notte per Mattutino), conducono una vita di grande penitenza, e
dividono le loro giornate tra le meditazioni e il lavoro.
Il loro apostolato lo svolgono più che altro nelle piaghe di Gesù,
unendo i propri sacrifici ai dolori di lui, il loro sangue a quello di
lui, incessantemente offrendo al Padre la passione di Cristo per le
conversioni dei peccatori, e offrendo se stesse a Dio, in unione con la
vittima immacolata, quali vittime di perdono e di pace.
Tutto rispondeva ai desideri di Gemma, che anelava a quell'ambiente
saturo di amoroso e divino compatimento, perché quel compatimento
rendeva possibili i più grandi eroismi, i sacrifici più puri, le
aspirazioni più generose.
Nel mondo, lei non poteva pienamente abbandonarsi all'azione del
Salvatore. Tanto padre Germano che il confessore volevano che
restassero ben celati i favori che accompagnavano ogni sua donazione, e
lei lo desiderava più di loro. In monastero, sarebbe stata più libera.
Un giorno il Signore le disse: «Quando
vuoi che ti accresca il soffrire?». Gemma non osò
rispondere. «Se fossi stata in convento» dice «avrei risposto:
"Accresci pure, o Gesù, le pene e le croci". Ma così, con che coraggio
l'avrei potuto dire?... Fossi sola a soffrire!... Va bene, sono sola a
soffrire; ma a disturbare sono molti...».
E questo sentimento le ispira la seguente preghiera:
«Gesù caro, eccomi ai vostri santissimi piedi per manifestarvi ogni
momento la mia riconoscenza e la mia gratitudine per i tanti e continui
favori che mi avete fatto e che ancora volete farmi.
Quante volte vi ho invocato, Gesù; mi avete fatta sempre contenta: ho
ricorso spesso a voi, e mi avete sempre consolata! Come esprimermi con
voi, caro Gesù? Vi ringrazio; ma ancora un'altra grazia voglio, o mio
Dio, se a voi piace: Aspettate, Gesù, aspettate, sono vostra vittima;
ma aspettate; la mia vita è nelle mani vostre, ma aspettate; potete, o
Gesù, sfogarvi sopra di me, ma aspettate se a voi piace. Sia fatto in
tutto il vostro santissimo volere».
Se Gemma tanto brama il monastero, è quindi «per patirvi, per amarvi,
per farvi penitenza». «Lo so, lo so che in convento mi aspettano
maggiori patimenti; ma che importa? Gesù, tempo indietro, non accettò
come vittima l'anima mia, perché non avesse più volontà propria? Non
accettò come vittima il mio cuore, affinché continuamente ed
eternamente si consumasse di amore? E dopo tutto questo, avrà da
lamentarmi, quando sarò in mezzo a pene maggiori?...». Questo il suo
ardente desiderio... poi... si faccia la volontà di Dio.
Gemma desiderava ardentemente di fare un corso di esercizi dalle
Passioniste di Tarquinia in compagnia della signora Cecilia e delle due
maggiori tra le sorelle Giannini che appositamente vi si recavano.
Questo era pure il desiderio di monsignor Volpi. La signora Cecilia
scrisse subito alla madre presidente: «Verremo a fare gli esercizi,
Annetta, Eufemia e io; più una ragazzina, orfana di padre e di madre,
certa Gemma Galgani». «Ma lo crederebbe?» continua la buona signora
scrivendo a padre Germano. «La presidente ha risposto con una lettera
dove dice che non la può accettare per causa delle monache che non sono
contente per tante chiacchiere fatte da diverse persone. S'immagini
questa povera figliola che ci veniva tanto volentieri!».
Le testuali parole della presidente erano queste: «Non vogliamo
appestare il convento», parole che sonavano durezza e disprezzo. La
virtù, l'umiltà, la carità e l'abbandono rivelati da Gemma in questa
circostanza furono eroici. Avere desiderato quel corso di esercizi nel
caro nido, con l'ardore straordinario con cui l'aveva desiderato lei, e
vedersi respingere così, doveva essere dolorosissimo. Alla poverina
vennero le lacrime; ma con tutta tranquillità, senza il minimo
risentimento. «Fa lo stesso» disse e non aggiunse altro.
Bisogna essere santi davvero per acquistare tale dominio di sé! Niente
di più caro e di più soave che quel «fa lo stesso» detto tra le
lacrime. Un «fa lo stesso» senza lacrime poteva rivelare amor proprio
ferito o una punta di dispetto; ma quelle parole dette tra le lacrime
indicavano vero e profondo dolore, dolce e virtuosa rassegnazione,
abbandono completo alla volontà del Signore.
E quanta carità in quel cuore! Indignati della lettera e del modo di
agire della madre presidente, in casa Giannini si mormorava di lei e
del monastero; ma Gemma così dolce nell'umiliazione divenne di fuoco
dinanzi alla carità violata. «Che discorsi sono questi?» esclamò; «non
parlino male della madre presidente.
Io invece le voglio bene, e quando sarò in Paradiso sarà la prima cui
voglio andare incontro per salutarla».
Scrivendo poco dopo a una sua confidente e parlandole di un sogno
avuto, Gemma così si esprimeva: «In sogno conobbi la madre presidente.
Mi guardava così seria. Io le voglio tanto bene».
Carità vera, pura, disinteressata. Che merito c'è nell'amare chi ci
ama? Anche i pagani fanno così; ma quanta virtù occorre per amare chi
ci disprezza! Gemma aveva questa virtù.
Le tre fortunate presero la via di Tarquinia. La povera figliola rimase
dodici giorni nel monastero delle Mantellate dette «le povere suore».
Le ripulse non la scoraggiavano, le umiliazioni neppure. Tentò,
ritentò, però sempre invano.
I sentimenti dell'animo suo ben si rivelano da una lettera ad un'amica,
a sua volta provata.
«Una voce interna sembra dirmi che ancora un po' dovremmo rimanere ai
piedi della croce.
Se Gesù è inchiodato sopra la croce, non lamentiamoci noi se dobbiamo
stare ancora ai suoi piedi! Povero il nostro Gesù! Io vorrei un cuore
formato di tutti i cuori più innamorati di voi, mio Dio, per
compatirvi, aiutarvi. Tutte le forze però del mio povero corpo, e tutti
gli affetti di questo miserabile cuore, a voi consacro.
Non sarà mai vero, sorella mia, che noi lasceremo Gesù sulla via del
calvario.
Non solo accompagnarlo al calvario, ma alla croce e alla morte.
Corriamo insieme alla croce, anzi, a nuove croci, insieme abbracciamole
e insieme diciamo: "Croce santa, se pensiamo all'affetto infinito col
quale ti abbracciò Gesù,
prendiamo una forte risoluzione di non allontanarci mai più da te"».
Poi, con quell'umile ritorno alla sua miseria che non manca quasi mai
nelle sue lettere: «Ho un bel dire, ho un bel discorrere e far
coraggio» concludeva, «io che manco di tutto; ma Gesù avrà pietà anche
della mia debolezza».
CAPITOLO XXXVIII. - ULTIMA RINUNZIA
Le speranze di Gemma si rafforzarono quando iniziarono le trattative
per la fondazione di un monastero di Passioniste a Lucca.
I suoi desideri si sarebbero realizzati, lei sarebbe del numero delle
prime religiose del nuovo monastero, a condizione però che le
trattative fossero condotte con molta sollecitudine, nello spazio di
sei mesi; altrimenti qualcosa di meglio di un monastero terreno si
sarebbe schiuso per lei: le si sarebbe schiuso il Paradiso.
Ciò le disse il Signore e a ciò l'andò disponendo la santissima
Vergine. Le condizioni non furono osservate. Si pose in quest'opera
grande lentezza: troppo timore dinanzi alle difficoltà; il tempo da Dio
stabilito terminò: comprese che, nel suo stato di vittima, doveva
immolare al Signore anche questo desiderio: l'immolò e non ne parlò più.
«Tutto è finito. Ieri, alla messa di mezzanotte, quando il sacerdote
faceva l'offerta, vidi il mio Gesù che offriva anche me per vittima
all'eterno Padre. Mi strinse a sé, poi mi condusse dalla mamma nostra,
e, nel presentarmi a lei, disse così:
"Questa cara mia figlia
dovete guardarla come un frutto della mia passione"». Era
la consacrazione di Gemma a passionista, consacrazione compiuta non in
terra, ma in cielo dallo stesso Gesù, e accettata dalla madre celeste.
«Nell'udire quelle parole» disse Gemma «mi sentii venire meno, e poco
dopo andai a ricevere Gesù».
«Stamane, ho rinnovato i miei voti a Gesù Bambino. L’ho pregato
d'accettare la mortificazione del mio desiderio perché l'unisca alla
sua passione: l'ho pregato d'accettare l'amore mio, unito a quello del
suo medesimo cuore e a quello della mamma santissima di Gesù piccolo.
Vorrei però un regalo:
il perdono dei peccati, tutti. Lo spero. Ardo dal desiderio di vedervi,
Gesù, ma mi rimetto al vostro volere».
Questo sacrificio fu bagnato di cocentissime lacrime, ma le lacrime
nulla tolgono alla prontezza e generosità di cuore. Da quel momento,
Gemma non pensò più che al cielo.
Se non indossò l'abito delle Passioniste, e ciò per motivi indipendenti
dalla sua volontà, fu però veramente passionista:
lo fu nell'anima e ne ebbe lo spirito; l'Ordine la fece sua, il suo
monastero da anni è in piedi e ha vita possente; la sua profezia si è
avverata: «Le passioniste non mi hanno voluta prendere, eppure io
voglio stare con esse, e vi starò quando sarò morta».
Infatti proprio nella chiesa delle passioniste riposano i resti
benedetti di questa gemma preziosa.
Il monastero di Lucca può dirsi veramente suo. Gesù a lei lo chiese; si
dette a questuare per raccogliere i primi mezzi per fondarlo: sempre
proseguì senza lasciarsi abbattere dalle difficoltà che sbigottivano e
paralizzavano gli altri. «Gesù lo vuole» diceva, «e quel che vuole,
riuscirà sicuramente».
A monsignor Volpi, che per volere di Dio doveva iniziare quest'opera,
Gemma diceva che facesse presto, perché avrebbe avuto poco tempo. Egli
credette d'aver poco tempo di vita, ma non era così. Morto monsignor
Ghilardi, arcivescovo di Lucca, e monsignor Volpi divenuto vicario
capitolare, nei sei mesi che tenne quell'ufficio, fu conclusa la
fondazione ed egli venne mandato vescovo ad Arezzo. Ecco perché avrebbe
avuto poco tempo.
Gemma aveva tutto previsto, tutto annunziato. Come poteva dubitare che
non fosse opera di Dio? Udiamo questa lettera da lei scritta a un padre
consultore:
... Lei prima di partire mi pregò più volte se le avessi recitato ogni
giorno tre Ave Maria. Fino ad ora con l'aiuto di Gesù, non me le sono
mai scordate; però venerdì sera della settimana stessa che partì, dopo
recitate le solite Ave Maria, Gesù mi disse: "Gemma, per chi l'hai detta questa
preghiera?". "Per padre Francesco", risposi. Gli hai detto niente del nuovo
convento che dovrà farsi?". "No; ma ha detto da se stesso
che questi non sono tempi". Gesù allora mi disse quasi sorridendo: "Devi dire a padre Francesco che è
più facile che cada il cielo e la terra, che non vengano in tutto
adempiute le mie parole.
Prima che sia possibile,
digli che appena glielo permette il suo provinciale vada a Roma, e dica
da parte mia al consultore generale che parli col Generale stesso di
questa nuova fondazione, che dovrà essere fatta presto. Stiano pronti,
ché tu stessa li avviserai quando essi dovranno dar principio. Insieme
col Vescovo, si uniranno questi padri passionisti, dei quali il padre
consultore del Generale deve essere il capo promotore. Hai capito?".
«"Per poi assicurare
tutti, devi dire che sono io che ti parlo e voglio che tutto questo si
faccia mediante la grande guerra che il nemico infernale si prepara a
muovere. Quella forza che in alcuni verrà meno da parte del diavolo,
dovrà di nuovo risorgere per mezzo di padre Francesco. Lui dovrà
infondere il coraggio e la forza".
«"Ho finito finalmente di
dire ogni cosa ».
Di più, un giorno apparsole san Gabriele, Gemma gli domandò a nome del
confessore chi dovesse dar principio all'opera, chi terminarla, e in
quanto tempo. La santa si vide allora dinanzi sette persone. Il santo
gliele additò ad una ad una: ma Gemma ne conobbe tre solamente e
domandò chi fossero le altre: «Saranno Passioniste» udì rispondersi.
«Di' al tuo confessore che egli stesso sarà quello che dovrà dar
principio a questa grande opera. Si faccia coraggio, che il diavolo è
pronto per dare degli assalti sì forti. Ma che importa? Avanti!».
Mostrandole poi una signorina: «Guarda», disse; «questa dovrà dar
l'ultimo colpo all'opera». E gliene rivelò il nome e il cognome e le
indicò il luogo in cui era nata e cresciuta.
Questa profetica visione si ripeté tre volte, e nell'ultima, il santo
dichiarò pure l'epoca della fondazione: «Terminati i due anni, in
giorno di venerdì».
Di quest'opera dovevano occuparsi il santo Padre, per benedirla e
approvarla; monsignor Volpi per compierla, aiutato dal padre Generale
dei Passionisti, da un consultore generale, dal padre Provinciale della
provincia romana con un altro padre.
La prima superiora del futuro monastero doveva essere una religiosa di
Tarquinia che stava in intimo carteggio con Gemma e a sua volta diceva:
«Questo monastero Dio lo vuole!».
Ma gli ardori di Gemma non trovarono corrispondenza. Monsignor Volpi
non poteva far nulla se non si muovevano i passionisti di Roma e le
Passioniste di Tarquinia. Ma tutti dormivano.
Monsignor Volpi avrebbe voluto che qualche passionista venisse da Roma
per trattare la cosa con l'Arcivescovo di Lucca, uomo timido,
trattenuto da un'eccessiva prudenza. Egli non osava arrischiarsi nella
fondazione senza un forte deposito per ogni religiosa. Nel monastero di
Tarquinia si era risoluti di non far partire nessuna monaca per la
nuova fondazione, senza aver prima avuto l'assicurazione del
mantenimento.
I passionisti di Roma, compreso padre Germano, non muovevano un passo:
la prudenza umana li paralizzava.
Gemma soffriva. E il desiderio di Gesù? E l'opera di lui attesa? E la
riparazione? E il castigo minacciato? Ma perché lasciarsi così
trattenere dalla prudenza umana? «Gesù è scontento assai di tanta
diffidenza» diceva Gemma, «quasi che egli non potesse, in un momento,
provvedere a tutto. Incomincino, e vedranno quel che egli sappia
fare...».
Nessuno la comprendeva; anzi, un giorno, padre Germano così le scrisse:
«Senti, figlia mia, la tua grande ignoranza ti fa pensare e dire
spropositi, e quel che è peggio, sembri di poco porre mente a quel che
ti si dice per istruirti e calmarti. Dunque, sappi, Gemma, che Iddio,
grandezza e maestà infinita, non ha timore né soggezione di noi poveri
direttori delle anime che egli ci affida, e, seppure se ne serve, non
ne ha però bisogno, punto, punto. La onde quando egli vuole qualche
cosa in riguardo di dette anime, ce lo fa conoscere e ce lo fa fare; e,
se per caso trovasse in noi resistenza, egli ci piglia pel collo e ce
lo fa fare lo stesso, magari per forza. Quindi è che questa specie di
dissenso che a te sembra di vedere tra Dio e chi ti dirige, è una pura
fantasia. Noi non vogliamo altro di te, in te, per te, se non quello
che Gesù vuole. Egli ci parli, dunque, ci apra la via, ci indichi i
modi, i mezzi, le maniere, tolga le impossibilità, appiani gli
ostacoli; e noi stiamo qui a correre dietro i suoi cenni.
«Forse ignori tu queste difficoltà di cui qui intendo parlare? Tu dici
che Gesù ti vuole passionista, e presto. Ma dove? Ma come? A Tarquinia
non ti vogliono; a Lucca, della fondazione del nuovo monastero, non si
vede un filo di luce. A Roma, non se ne parla affatto...
«Io sono un povero religioso, legato da una regola strettissima, che mi
misura i passi e mi limita l'energia. Pregai Monsignore che ti ponesse
in deposito in qualche monastero di Lucca, fino a tanto che Gesù non
avesse disposto di te; e tu sai che non ti hanno voluta.
«E poi, diciamo di più. Quando io riuscissi a farti entrare in
convento, appena le monache vedrebbero le cose strane che in te
succedono, ti metterebbero subito alla porta.
«Tutto questo ho voluto portelo sotto gli occhi, non già per farti
scoraggiare, ma per animarti a gettarti, con pieno abbandono, nelle
braccia amorose di Dio. Tu sei consapevole del bene che questo gran Dio
ti vuole, avendotelo dimostrato con segni evidenti e non comuni. Perché
ora dubiteresti di lui?
«Lascia dunque ogni affanno. Non dire né: Gesù, aspettate; né: Gesù,
fate; né: Gesù, movetevi; né: Gesù, vogliate, ecc. ecc. No, no, no, no.
Ma: una cosa sola, Gesù: che voi vi glorifichiate nelle umiliazioni di
questa povera serva. Non quello che a me sembra che voi vogliate da me:
ma quel che voi volete in realtà; e cotesto fatelo voi stesso, senza
che io guasti l'opera vostra coi miei insufficienti sforzi e con le mie
sciocche parole».
Venne finalmente un giorno in cui Dio fece conoscere a Gemma che non si
sarebbero adempiute le condizioni da lui poste perché la fondazione si
eseguisse rapidamente e il suo ingresso in monastero potesse accordarsi
col gran desiderio che il Signore aveva di portarla presto con sé in
Paradiso.
«Quel che ho provato in me non saprei dirlo» scrisse Gemma. «Sono
subito scappata in una stanza per essere più libera, e ho pianto assai.
Finalmente ho esclamato: Fiat voluntas tua. Quelle lacrime non erano
però di dolore, ma di pura rassegnazione».
La rinunzia da lei generosamente compiuta nella notte di Natale, e alla
quale abbiamo già accennato, data da quest'epoca. In quel momento, da
Gesù stesso ebbe il bel titolo di «Figlia della Passione», e come tale
venne presentata a Maria.
«Non lo chiedo più di andare in convento» scrisse allora, «se un
convento migliore mi aspetta».
Il 12 aprile del 1903 moriva, come aveva annunziato, cioè sei mesi dopo
che il progetto era andato in fumo.
Per Gemma, Gesù volle in quest'opera la sola parte di un multiforme
sacrificio.
CAPITOLO XXXIX. - L’ORA DI DIO
«Morta che fu la serva di Dio» dice padre Germano, «incominciarono
presto i rimorsi, e ve n'era la ragione. Ai rimorsi tenne dietro il
risveglio, e senza opporvi più indugio si diede principio all'opera. Io
mi ricordai dell'intimo fattomi un anno innanzi: "Si rechi a Roma e
parli al Papa". E mi recai e parlai a quella sant'anima di Pio X di
fresco assunto al pontificato. Egli mi ascoltò con amore, si compiacque
del disegno e dell'opera, e, presa la penna in mano, di suo pugno dette
la sua alta approvazione».
Il prezioso documento dice così:
«Benediciamo con paterno affetto la fondazione del nuovo monastero di
monache Passioniste nella città di Lucca; il venerabile nostro fratello
arcivescovo Nicola Ghilardi, che lodevolmente la promuove; la madre
Maria Giuseppa del cuore di Gesù che dovrà esserne la prima superiora;
tutti i benefattori che hanno concorso e concorreranno a stabilirla; e
le religiose presenti e future che ne faranno parte.
«Vogliamo poi che nelle loro orazioni, penitenze, pratiche devote ed
altri esercizi prescritti dalle regole dell'Istituto, le suddette pie
vergini abbiano per speciale scopo della loro comunità quello di
offrirsi vittime al Signore per i bisogni spirituali e temporali di
santa Chiesa e del sommo Pontefice».
Dal Vaticano, li 2 ottobre 1903
Pio PP. X
«Con questo venerato foglio in mano» dice ancora padre Germano «mi
presentai a Lucca, mi presentai a Tarquinia, e mi feci strada. Due
altre lettere pontificie all'Arcivescovo di quella città e al Vescovo
di questa sopraggiunsero poco dopo a rafforzare le mie pratiche; e la
fondazione fu decisa. E notisi, lo stesso sommo Pontefice volle
designare quella monaca di Tarquinia a cui Gemma aveva scritto: Gesù le
darà questa consolazione.
«Ritornò non pertanto a galla la questione del denaro a ritardare il
negozio, quando una terza lettera del Papa a monsignor. Volpi, vicario
capitolare di Lucca in quel tempo di sede vacante, venne a togliere
ogni difficoltà».
Tutto accadde precisamente come aveva annunziato Gemma.
Le fondatrici furono quelle stesse da lei viste nell'estasi.
Lei aveva detto che di venerdì sarebbero giunte a Lucca; infatti,
partite di giovedì da Tarquinia, giunsero proprio di venerdì alla nuova
dimora.
Aveva detto che la fondazione, cominciata già da qualche tempo, si
compirebbe a breve distanza dalla solenne beatificazione del ven.
Gabriele dell'Addolorata e in giorno di venerdì. Così fu. Il venerabile
fu beatificato il 31 maggio 1908, e il venerdì 23 luglio i padri
Francescani, antichi proprietari del locale già da tempo acquistato
dalle monache, ne consegnarono finalmente le chiavi.
Le Passioniste, provvisoriamente alloggiate nel convento delle
Francescane, poterono così prenderne possesso e compiere la fondazione.
CAPITOLO XL. - NEL PURO AMORE
Gemma aveva detto a Dio una grande parola: «Quando non sarò più mia,
sarò tutta tua». Infatti lo spogliamento totale di sé, il vuoto
dell'anima, sono condizioni indispensabili al regno assoluto di Dio in
lei, e all'unione trasformante in Dio per amore.
Solo dall'amore sgorgavano queste energiche risoluzioni di Gemma:
«Piuttosto che mancarti di fede e d'amore, fammi morire. Meglio vivere
fra le pene che vivere da peccatrice. Sacrificherò tutto per te, Gesù,
ma ti sarò fedele. Compi l'opera della tua carità. La mia povertà sia
un titolo alla mia conversione.
Nel mondo non ho mai trovato un amore sincero come il tuo, perché il
tuo amore è immenso. Per amare te, amo non amare altri». «Tutti i miei
affetti saranno impiegati in amare Gesù solo, e se qualcuno piccolo lo
dò a qualche creatura» dice, «non sarà che per amarlo e farlo sempre
amare di più. Dove vorrei andare a cercare la felicità, se non da te?
Sì, tutta la mia felicità viene da te».
«Nel trattare con lei» dice la madre Gemma Giannini «si riceveva
l'impressione che la sua anima fosse sempre assorta in alto e che
parlasse solo per necessità, per cui le sue parole erano umili, sobrie
e riservate, e questo contegno lo teneva con tutti coloro che avevano
la fortuna di avvicinarla.
«Ciò la rendeva prudentissima, non di una prudenza umana, ma di una
prudenza tutta soprannaturale, anche nel consigliare, esortare e
disimpegnare i suoi doveri. Davanti a Dio, guardava il fine che doveva
raggiungere, e cercava di raggiungerlo nel miglior modo possibile.
«Si vedeva in ogni sua azione, che la norma da cui era guidata era
sempre il desiderio di piacere a Dio».
E questo desiderio era tale in lei, da rendere così acuto il suo
sguardo, da farle scorgere in fondo alle limpide acque della sua anima
tranquilla ogni minima cosa atta a turbarla. Da ciò, la sua squisita
delicatezza di coscienza, la sua purezza inarrivabile.
«Nei giorni passati, commisi una grossa mancanza che fu assai che Dio
non mi fulminasse» scrive una volta. «Gesù è misericordioso! il signor
Lorenzo mi comandò di fare un conto; io ci misi forse un po' troppa
d'attenzione, e uscii dalla presenza di Dio. Ma fu appena un minuto,
che subito tornai in me stessa, ne chiesi perdono a Dio, ed egli subito
mi perdonò». Il linguaggio di Gemma potrà sembrare esagerato; ma,
ripetiamolo, è il linguaggio dei santi.
Una volta, in chiesa, le viene fatto di posare per un istante l'occhio
con un certo interesse sull'abito di una bambinetta che le siede
accanto. Il suo buon angelo severamente la rimprovera, e lei, per
punirsi, tiene da quel giorno gli occhi sempre bassi.
Le pare un giorno di essere intervenuta inutilmente in una
conversazione di giovinette, e di avere con ciò disgustato Gesù, il suo
amore. Si obbliga quindi a non più parlare se non interrogata.
Una volta rivolge una parola di scherno al demonio, durante una sua
penosissima vessazione. Nel corso della giornata, prega la signora
Cecilia di condurla a confessarsi. «Ma se ci sei stata stamane...»,
questa risponde; e Gemma le dice allora la sua colpa. Monsignore le
aveva proibito di mettersi a parlare col demonio; ma ella gli ha detto
senza pensarvi: «Bene! Arrabbiati!», e ora ciò le pesa sull'anima come
colpa.
Il Signore è severo con i suoi santi, geloso della purezza ed
esclusività del loro amore, come prova il fatto seguente.
La santa aveva avuto in dono dal padre Germano un dente di san
Gabriele, e vi teneva moltissimo, non in vista del donatore, ma del
dono in se stesso, dato il grande amore che la legava a «confratel
Gabriele», come lei diceva.
Ora, un giorno, trattando con Gesù di distacco: «Non ho più nulla»
disse Gemma, «non so da che distaccarmi. Ho te solo, mio Gesù». Ma il
Signore: «E a quel dente del ven. Gabriele, di', figlia mia, non sei
troppo attaccata?...». «Ma, Gesù, è una reliquia preziosa...». «Figlia,
te lo dice il tuo Gesù, e basta». E queste parole furono dette con
accento severo.
Gemma ne comprese allora la verità: non poteva starne senza. Quando la
commissioniera delle Mantellate glielo chiese per farlo vedere alle
monache, le costò privarsene anche per poco, né seppe nascondere la sua
pena anche quando, dopo il comando di Gesù, se ne disfece, regalandolo
alla signora Giustina Giannini, allora malata. Che mistero il cuore
umano! Gemma offre qualche anno di vita per l'inferma, si offre a
prenderne la malattia, eroicamente la sopporta, e prova invece tanta
pena a privarsi di quella reliquia!
«Ma Gesù, Gesù, dove mai si appiglia, eh, padre mio» scrisse Gemma
narrando il rimprovero di Gesù.
Per quanto si cibi tanto poco da non sapere come possa vivere, pure le
pare di non avere mortificato abbastanza il gusto, e chiede al Signore
ed ottiene di non più sentire il sapore dei cibi.
Nelle conversazioni, preferisce passare per ignorante, anziché
intavolare discorsi non necessari; ma se la convenienza vuole che
parli, lo fa con somma brevità di parole. Le pare tutto tempo tolto a
Dio quello impiegato a parlare con gli uomini senza vera necessità o
utilità. Di questa sua laconicità ci offre un saggio il padre Giustino,
passionista.
«Ero un giorno in casa Giannini, e Gemma stava coricata sopra un
modesto divano» egli dice, «tutta accesa in volto, perché in preda a
forte febbre. Avendole io domandato come si sentisse, ella mi rispose
con calma: "Benino". Io soggiunsi:
"Mi pare che ella abbia una forte febbre". Ed ella, con la stessa
calma, mi rispose: "Un pochino". Dopo breve silenzio, le domandai quale
fosse la cosa più bella che si potesse fare su questa terra. Ella,
senza la minima esitazione, mi rispose: "La volontà di Dio". Io
soggiunsi: "Benissimo, così c'insegna a chiedere Gesù nel Padre nostro,
così fanno gli angeli in cielo, e così dobbiamo fare noi in terra". Le
richiesi ancora se era contenta di patire, ed ella mi rispose di sì,
perché era volontà di Dio che soffrisse». Come ben si vede, nulla più
che lo stretto necessario.
Era morta al sentimento della propria stima e dell'altrui benevolenza.
In ciò l'aiutava moltissimo il vivo sentimento che aveva della
giustizia: «Tutto di Dio, nulla di me; tutto a Dio, nulla a me; tutto
per Iddio, nulla per me». E da questo sentimento derivava quell'insieme
di cose che la faceva dire nata per l'umiltà, per il nascondimento e
per l'oblio.
Tutto nascondeva, tanto i doni della natura quanto quelli di grazia.
Amantissima della musica e del canto, li aveva studiati, riuscendovi
molto; dipingeva bene; aveva grande facilità nello scrivere in versi,
ma non ne portò mai vanto né mai ne parlò. Ai suoi di famiglia queste
capacità erano note; ma i Giannini ne vennero a cognizione solo dopo la
morte di lei. In casa loro, lei non mise mai le mani sul pianoforte,
non fece udire la sua voce né prese in mano i pennelli, e neppure si
dette al ricamo. Tutte le sue attitudini vennero soffocate dalla calza!
Riguardo all'animo poi era «ricca di tanti doni» dice la madre Gemma
Giannini, «bastava un solo filo di superbia per mandare tutto a monte
il grande edificio spirituale. Eppure, come se non conoscesse nulla di
tutto ciò, restava sempre al suo posto, all'ultimo posto, serenamente
tranquilla ed incurante di tutto. Non si accorgeva se le persone le
volessero bene o male, se ne avevano cura o la trascuravano; per lei la
lode oil biasimo la lasciavano indifferente. Aveva conosciuto la
verità, stava nella verità, ed era sempre felicissima nel suo nulla.
Imparò a conoscere l'importanza di questa virtù e ad amarla da una
visione che ebbe e che a me stessa narrò.
«Gesù le mostrò come un'immensa pianura tutta seminata di alberi, e poi
nel mezzo, una piazza, nella quale si levava un albero maestoso al
disopra degli altri, e le disse: "Quegli
alberi sono le altre virtù, e l'albero più alto e maestoso è la santa
umiltà". Fu anche il sentimento di umiltà che la spinse
una volta a dire alla zia Cecilia: "Signora, quello che fa a me, faccia
conto di farlo come a un povero della strada, altrimenti non ci
guadagna niente"».
Narra un'anima di lei che nella basilica di San Michele la santa veniva
spesso disprezzata dagli addetti alla chiesa. «Sì, sì, a dar retta a
quest'isterica!», dicevano in modo che lei sentisse. E tante volte la
facevano aspettare, non le chiamavano il confessore, la rimproveravano
perché stava troppo in confessionale, o non venivano mai a comunicarla.
Lei, sempre paziente, non si turbava mai, e scusava tutti dicendo: «Non
possono». Ma non perché non fosse intelligente e accorta, ma perché
l'umiltà e la carità erano le sue virtù più care, e ciò che per altri è
solo la stima, la lode, la benevolenza, erano per lei il biasimo e il
disprezzo.
Una volta, la cosa fu più marcata del solito. Gemma aveva bisogno di
Monsignore e si fece accompagnare a San Michele. I canonici si
disponevano ad entrare in coro. Gemma, avvicinandosi a un chierico,
chiese di Monsignore. L'udì un altro che la conosceva e disse forte:
«Che confessore a quest'ora!? Va' un po' a vedere se ti riesce
d'imbrogliare qualche altro prete, ecc. ecc.».
La sacrestia era piena di gente; quelle parole dette col massimo
disprezzo erano state udite. La timida Gemma si ritirò confusa, ma
felice! «Mi venne un po' di vergogna» scrisse al suo direttore, «ma mi
ricordai di Gesù e non fu più altro». Vide anzi in ciò un regalo della
Madonna. Del resto, «in queste piccole cose che Gesù le regala», scorge
sempre un dono pieno d'infinita tenerezza, come santa Teresa che
diceva: «Oh, le amo queste punture di spillo, fanno tanto bene
all'anima, e dànno tanto gusto a Dio!».
Un giorno, un gruppo di giovinastri, in via della Zecca, incontrando
Gemma mentre usciva dal monastero omonimo, la circondarono molestandola
seriamente. Fu liberata e condotta a casa da una persona che passava di
li e che rimase ammiratissima della sua imperturbabilità.
Questa tranquillità la serbava pure quando i monelli di strada, che
l'avevano presa di mira, si mettevano a canzonarla e a lanciarle
epiteti ingiuriosi. Una volta, uno di essi giunse a sputarle in faccia.
Senza scomporsi, Gemma prese il fazzoletto e si asciugò il viso, felice
di essere un po' simile a Gesù, schernito e sputacchiato. Un giorno,
entrando in chiesa
con la famiglia Giannini, le accadde qualcosa di simile: «Eppure»
disse, «a dispetto del mondo, mi voglio far santa».
Un altro episodio di cui solo il Signore fu testimone e le mostrò
gradimento, inondandole l'anima di gioia, è il seguente.
Gemma è sempre in famiglia. Suonano alla porta della strada. Le zie le
dicono che vada ad aprire. Gemma guarda dalla finestra e vede un
giovane, antico fattore di casa Galgani, ottima persona e a lei
affezionata. Ha in mano un fagotto. Gemma lo invita a salire, egli
invita lei a scendere. Si incontrano, e il giovane le affibbia sul
collo una terribile bastonata. Lei non grida, non ne domanda il motivo,
ma si ritira in camera senza dir nulla a nessuno, offrendo a Gesù
l'umiliazione e la sofferenza. Non ha che un rimpianto: quello di
essere fuggita invece di restare là a ricevere altri colpi per il
Signore... Il caso si ripeté più volte, e il padre Germano credette di
vedere sotto le sembianze di quel giovane null'altro che il demonio.
Gemma però, ignorando, sopportava e taceva.
Data la via straordinaria per la quale era condotta, tutti
s'in-caricavano di tenerla umile e bassa, di rimproverarla, di prestar
poca fede alle sue parole, e lei sempre tranquilla. Non mostrò mai di
aversi a male di qualche cosa, e neppure si curava di non essere
creduta. Questa equanimità ed eguaglianza le serbò fino alla morte.
Era troppo convinta del proprio nulla, si era troppo ingolfata nel
sentimento della propria abiezione per trovarsi meravigliata e commossa
del disprezzo. Lo meritava, non meritava altro che questo, a suo modo
di vedere, e non solo lo accettava, ma lo cercava, e cercava tutte le
occasioni per umiliarsi.
Una volta, per esempio, venne a casa Giannini un eminente prelato che,
avendo sentito parlare di lei, voleva conoscerla, e si era recato a
Lucca espressamente.
Chi sa con quale materna ambizione la signora l'avrà invitata o fatta
invitare a presentarsi! Gemma non oppose resistenza, ma preso in collo,
contro il suo solito, un grosso gatto di casa, entrò in salotto
accarezzandolo e facendogli mille moine; così continuò in presenza del
prelato, e se ne partì poi ballonzolando col suo gatto in collo. Quando
mai aveva fatto alcunché di simile? Immaginiamoci la confusione della
signora Cecilia, lo scandalo del prelato che se ne andò dicendo: «Altro
che santa! Questa è una scema!». Ma la gioia tranquilla di Gemma diceva
che lei era riuscita nel «suo intento: quello di essere disprezzata».
Mentre tutti si credevano in diritto e in dovere di umiliarla,
abbassarla, e magari disprezzarla, mai però uscì dalle sue labbra una
parola che potesse offendere qualcuno. Se non poteva dire bene, taceva.
Sempre rese bene per male, e amò il prossimo non a parole, ma coi
fatti, non per motivi umani, ma per motivi soprannaturali.
«In favore del prossimo, ella era disposta a tutto fare e a tutto
soffrire, sino al sacrificio della salute e della vita».
CAPITOLO XLI. - FUOCO DIVINO
La vita di Gemma si avvicinava al suo termine.
Una volta scrive al suo direttore: «Sono circa Otto giorni che dalla
parte del cuore sento un fuoco misterioso che non so capire! I primi
giorni non ci badavo, perché poco o nulla mi dava noia: ma è oggi il
terzo giorno che questo fuoco è cresciuto tanto tanto, quasi da non
sopportarlo. Avrei bisogno di ghiaccio per estinguerlo; mi dà molta
noia, m'impedisce di dormire, di mangiare. E un fuoco, padre,
misterioso, che si comunica pure al di fuori, e sulla pelle v'è un che
di bruciato. E un fuoco che non mi tormenta, sa, ma mi finisce, mi
con....... Gesù le faccia capire tutto...».
Un altro giorno, gli scrive: «Per due volte Gesù mi ha ripetuto
stamattina: "Amore vuole
amore; fuoco vuole fuoco"». E questo fuoco andò talmente
aumentando, che le stesse persone che le si accostavano o le posavano
una mano sul cuore sentivano gli ardori cocenti che se ne sprigionavano.
Perché questo fuoco?
Non più estasi, non più partecipazioni cruente alla passione di Cristo,
non più nulla di manifesto. Tutto era cessato per ordine e volontà del
padre Germano, ma tutto si era concentrato nel cuore.
Martirio di questo fuoco d'amore superava ogni altro martirio, e lei
poteva dire con tutta verità: «Soffro più di prima. Soffro di non poter
soffrire.
Questo fuoco mi consuma, mi divora!». E il cuore, non potendo più
contenere o accogliere il sangue che vi affluiva con tanto impeto, lo
respingeva violentemente dalla bocca, procurandole violenti getti di
sangue che per lei però erano gioia, gioia di dare a Gesù il sangue del
cuore, non potendoglielo più dare in altri modi.
«Padre, quante cose vorrei dirle, affinché potesse ben capire qualche
cosa di me! » scriveva ancora. «Alle volte sono costretta ad esclamare:
"Dove sono, dove mi trovo? Chi è mai vicino a me?". Senza nessun fuoco
vicino, mi sento bruciare; senza nessuna catena addosso, a Gesù mi
sento stretta e legata: da cento fiamme mi sento struggere, che mi
fanno vivere e mi fanno morire. Soffro, padre, vivo e muoio
continuamente; ma la vita mia con tante altre vite del mondo non la
cambierei a nessun patto. Mai non sto ferma; vorrei volare, vorrei
parlare e a tutti vorrei gridare: "Amate Gesù solo solo". Spesso mi
trovo sola; ma con Gesù mi vedo troppo bene accompagnata.
«Brucio continuamente, e vorrei sempre più bruciare; soffro, e vorrei
sempre più soffrire; desidererei vivere, desidererei morire. Glielo
dico chiaro, quello che desidero e voglio non lo so neppur io... Cerco
e non trovo; ma poi non so che cerco. Vorrei amare tanto il mio celeste
sposo. Sento d'amare; ma chi amo non lo intendo, non lo capisco. Ma,
nella mia tanta ignoranza, sento che vi è un bene immenso, un bene
grande. E Gesù.
«O padre mio, se lei conoscesse una di quelle anime tanto ferite
d'amore per Gesù, le chieda qual rimedio trovarono, quando, inferme già
d'amore, provarono l'amara pena di quell'ardore che brucia... E poi me
lo sappia dire...
Non v'è dubbio alcuno. Gemma ha ricevuto quel dono mirabile di cui
tratta sì bene san Giovanni della Croce. Il suo cuore è stato piagato
dal fuoco divino.
Gemma diceva che questo martirio e questo fuoco superano d'intensità
tutti gli altri martiri da lei provati e doveva essere così. «Quando la
piaga non si manifesta all'esterno» dice il santo, «ma rimane
nell'intimo dell'anima, senza farsi vedere al di fuori, le delizie e il
gaudio possono essere anche assai più grandi e sublimi, sebbene la
carne sia sempre un ostacolo all'operazione dello spirito».
«O dolce bruciatura! oh dilettosa piaga! oh blanda mano! Oh tocco
delicato, che d'eterno ha sapore, e ogni debito paga! Morte in vita,
uccidendomi, hai mutato».
CAPITOLO XLII.- ELEVAZIONI
Tra gli ardori e le ebbrezze di queste fiamme, tra le delizie
di queste piaghe, Gemma esce in questi slanci d'amore:
«Ma cos'è quel che sento? Non posso, o vero mio Dio, abbandonarmi a
questa dolcezza, a questa felicità... Cos'è, mio Dio, quello che
sento?...
«A te i santi, o Gesù, e gli umili di cuore: non io, o Signore. A te
tutti gli spiriti e le anime di tutti i giusti, non io, Signore. A te
tutti gli abitatori del cielo: io no; ti rendano tutti infinite lodi e
ringraziamenti. Ma anch'io, anch'io, o Gesù. Sì, io vile e indegna
peccatrice ho desiderio d'amarti d'un amore singolare. Aiutami tu,
fortezza mia. Fuoco al mio cuore: stamani brucia! Parole alla mia
bocca, ché giorno e notte possa meditare la tua gloria e amarti
continuamente. Impure sono le mie labbra, impuro è tutto il mio corpo.
Ho bisogno dite, che tu mi mondi da ogni macchia.
«Santificami, Gesù. La tua memoria, la tua dolcezza tenga sempre unita
a te l'anima mia. Fa' che passi dalle cose vi-sibili alle invisibili,
dalle cose terrene alle celesti.
«O mio Dio, o mio Gesù... che dici, o Gesù? O vera carità, tu sei il
mio Dio perché verso di te mi sento sempre muovere, verso di te mi
sento sempre portare, e verso di te spero di giungere. Quando io tratto
con te mi sento riavere, ma quando tu mi lasci, mi sento mancare,
cadere. Me lo dice la fede che mi hai messo nel cuore, per illuminare i
miei passi. Fa', o mio Dio, che chi conosce te, conosca la verità,
l'eternità...
«Chi simile a te, o mio Dio? Chi simile a te? Tu sei un Dio
onnipotente. Mio Gesù, vera verità, tu sei il mio Dio.
«Gesù, redenzione mia, io ti lodo, ti benedico; l'anima mia ti rende
infinite grazie, certo, Gesù, inferiori a tanti benefizi che tu mi hai
fatto...
«E ti rende grazie, non come te le dovrebbe rendere, ma come può questa
meschina anima mia... Tu, o Gesù, accettami nella tua infinita
misericordia. Io ti offro lodi e preghiere; accettale, per essere meno
indegna di quel dono che mi hai voluto fare stamattina. E stata la tua
bontà, che mi ha creata; è stata infine la tua pazienza, che mi ha fin
qui sopportata.
«Tu, o Gesù, mi aspetti a penitenza, ed io aspetto l'ispirazione tua
divina, per incominciare a ben vivere. L'anima mia, o Gesù, vuole te...
desidera te... E per amarti veramente, terrò presenti le tue pene, le
tue piaghe, la tua morte, la tua croce, la tua risurrezione... e, m
particolare, la tua ascensione.
«Perché non fui presente anch'io quando tu ascendesti al cielo?...
Perché non fui presente anch'io, a vedere un Dio offeso, conversare con
i peccatori?... E tu te ne andasti, mio dolce consolatore, benedicendo
tutti quelli che erano con te; ma io non c'ero... Alzasti le mani, e
una nube ti portò in cielo. Gli angeli tuoi dissero che saresti
tornato; ma io non ti ho più veduto. Ma tu. tornerai, perché tu sei...
mia vita, mio sostegno, mia forza... la fortezza delle mie braccia.
Vieni tu, o Gesù, a regnare in mezzo al mio cuore...
«E che sono, o Signore, le consolazioni della terra, se non ci fossero
le consolazioni tue? Via, Gesù, fammi sentire la tua voce, una sola di
quelle parole, che mi facesti sentire nelle vie della prova. Tu sii
benedetto, Gesù, perché hai quasi ordinato alle creature di
abbandonarmi, perché io fossi sempre più vicina a te. Ah! tu consoli,
tu solo consoli. Che importa, o Gesù, che nel mondo io non abbia
consolazioni? Mi basti tu solo. Che mi importerebbe che mi
disprezzassero? Ci sei tu che consoli. Se tu me lo avessi fatto capire
più presto, io mi sarei abbandonata nelle tue braccia.
«E se così tratti una peccatrice, come tratterai le tue anime pure, le
anime sante?
«O Gesù, lascia che io mi stringa tutta a te. Lo sapevo che tu eri
l'unico mio bene, e invece... m'inchinavo a indegne creature. O che
speravo? Forse fuori di te speravo di trovare più ricchezze, più
attrattive? Perdona a tanta mia miseria, a tanta mia iniquià; non
permettere che io mi stanchi agli amplessi del tuo amore. Per tanto tuo
amore, non permettere in me tanta ingratitudine. Che sarebbe per me
quella poca consolazione che ho sulla terra, se rimanessi priva delle
consolazioni del mio Gesù?
«Tu solo, Gesù, perché tu solo puoi calmare le tempeste che si
sollevano nel mio cuore di tanto in tanto; tu solo puoi rinvigorire
l'anima mia, tu solo, perché, ancorché tu sia solo, puoi fare tutto».
CAPITOLO XLIII. - «HO BISOGNO DI UNA GRANDE ESPIAZIONE»
Quando ottenne Gemma la grazia insigne dell'amorosa ferita?
Potrà dirlo chi ne abbia tutti i documenti nelle mani, ma certo prima
del matrimonio spirituale, quando Gemma diceva al Signore: «Ma come,
mio Dio, hai dimenticato tutte le altre cose: non hai da guadagnare che
me?». Infatti, dice san Giovanni della Croce: «Sente l'anima in questo
tempo Iddio così pronto e sollecito a colmarla di favori, di
delicatezze, di gioie, che a lei pare che nessun'altra fuori di lei ci
sia al mondo cui egli largisca somiglianti mercedi, ma che a lei solo
riguardi, e lei sola curi ed ami».
Si può pensare che ciò avvenisse circa un anno prima della morte,
quando nella festa di Pentecoste (1902) coloro che stavano vicino a
Gemma compresero che lei aveva comunicazioni del tutto straordinarie.
Il suo raccoglimento era più profondo, il suo volto più acceso, il
petto ansante e si temeva dovesse scoppiarle il cuore.
Resa ormai l'anima invulnerabile agli attacchi di satana e degli
uomini; stabilita nella sicurezza; posta nel suo cuore; piagato
dall'amore, la sete dei suoi interessi, dei soli suoi interessi di
sposo, egli poteva liberamente operare in lei, accettare ancor più
l'offerta di vittima ed aggravare la mano su quell'anima, ormai sua per
sempre, purificata e raffinata dal dolore e dall'amore, capace di
espiare più efficacemente.
Il Signore le disse infatti un giorno: «Ho bisogno di una grande
espiazione, in particolar modo per i peccati e i sacrilegi con cui mi
veggo offeso dai ministri del santuario. Se non fosse per gli angeli
che assistono al mio altare, quanti di costoro ne fulminerei sul colpo».
Terribili parole che lasciarono Gemma quasi annientata. Alla domanda di
Gesù se volesse accettarne l'espiazione, «il suo magnanimo cuore non
poté restare insensibile, e, con la sete di carità e di martirio
propria dei santi, si offerse in olocausto per la salute dei fratelli.
Dio accettava l'offerta con quella misteriosa giustizia, che predilige
l'innocente olocausto alla vittima del peccato e, dopo aver resa
possibile la crocifissione di Cristo, spiega le pene di tutti i giusti
della terra, che furono e saranno».
Per essere più libera nella sua espiazione, anelò al chiostro, come già
vedemmo, e per la stessa espiazione ne fece in seguito il sacrificio.
Ma dopo questa divina comunicazione, la povera vittima fu ridotta agli
estremi da inaudite sofferenze, per tutti misteriose e inesplicabili.
Il padre Germano che tutto sapeva, non volendo che i medici si
mischiassero nell'opera divina, mandò a Gemma l'obbedienza di pregare
il Signore perché la guarisse.
Gemma, sempre docile, per quanto poco prima avesse detto al suo Gesù
che «mai si sazierebbe di soffrire», all'arrivo di quest'ordine,
obbedì, pregò, guarì perfettamente. Da cadavere qual era, in otto
giorni tornò ad essere un fiore, ma per poco. Egli l'aveva guarita
soltanto per mostrarle due cose: quanto stimasse l'obbedienza, e come
egli solo fosse l'autore di tutto ciò che accadeva in lei.
Dopo venti giorni, infatti, una violentissima febbre, con terribili
trabocchi di sangue che nulla avevano a che fare con quelli dei suoi
trasporti di amore, venne ad atterrarla e per sempre. Alcuni medici la
ritennero tisica, altri dichiararono misterioso il suo male.
Prostrata materialmente, lo fu anche spiritualmente. Tutto ciò che
aveva sofferto prima era nulla a confronto di ciò che ora soffriva.
Immersa in un mare di amarezza e di abbandono, le rimase il solo dolore
senza conforto, il nudo patire, la nuda croce.
Accorse padre Germano, al quale giungevano le più angosciose notizie.
«Gemma è malata assai! E ridotta ad un cadavere: pelle e ossa; soffre
dolori acerbissimi e pene interne che fanno raccapricciare. Non ne può
più. Temo che muoia da un momento all'altro. Essa sente forte il
bisogno di lei. Venga presto».
E il padre Germano venne. Avvisata del suo arrivo, l'inferma volle
riceverlo in piedi; ma quando egli la vide così estenuata, così diafana
e pallida, con solo negli occhi luminosi un raggio di vita, di vita
tutta celeste, provò una dolorosissima impressione, e intimò
all'inferma di rimettersi a letto.
Andato poi a sedersi al suo capezzale: «Che facciamo, Gemma?», le
disse. «Ce ne andiamo con Gesù. Padre, questa volta, Gesù me l'ha detto
chiaro. Al cielo, padre mio, da Gesù, con Gesù in cielo!». «Ma... i
peccati quando li sconteremo? Bel negozio vorrete fare!». «Gesù ci ha
pensato lui. Mi farà tanto soffrire per quest'altro po' di tempo che
avrò da vivere che, santificando con i meriti della sua passione le mie
povere pene, si terrà soddisfatto e mi porterà con sé in Paradiso». «Ma
io non voglio che moriate ora». «E se Gesù lo volesse, allora?».
La loro tranquilla conversazione si aggirò sulla morte, sulla
sepoltura, sulla custodia del suo cadavere che apparteneva al Signore,
e che lei non voleva fosse toccato da mani profane.
La sera stessa, su ciò che chiamava «la sua povera vita», volle di
nuovo scendesse il sangue purificatore dell'Agnello. Ancora una volta
padre Germano si sentì commosso dinanzi a così grande innocenza; ancora
una volta acquistò la certezza che Gemma non avesse commesso in vita
sua neppure una minima venialità deliberata. Dopo ricevuta
l'assoluzione, la santa si abbandonò a vivi trasporti di veementissima
gioia.
Tutta la notte la passò in attesa del santo viatico, e per quanto
divorata dalla febbre e dalla sete, non volle accettare neppure un
sorso d'acqua.
La mattina, la posero seduta sul letto, avvolta nel suo candido velo, e
pareva già un essere trasfigurato, una di quelle vergini tutte bianche,
una di quelle giovani martiri che, nel candore imporporato dal
sacrificio, andavano incontro allo sposo con in mano il giglio e la
palma.
Quando il sacerdote, venuto a comunicarla, posò la pisside sul piccolo
altare e si fu rivolto verso l'inferma, le parole gli morirono sul
labbro, tanto rimase impressionato dalla celestiale bellezza di Gemma,
immersa nell'estasi. Padre Germano lo animò ad appressarsi e porgerle
senza timore il pane di vita, poiché lei si sarebbe riscossa per
riceverlo. Infatti, levò alla bianca ostia due occhi pieni di lacrime,
e richiudendoli subito tornò estatica. Oh, che momento, quello in cui
faceva il sacrificio della sua giovane vita, avendo sempre dinanzi agli
occhi le povere anime lontane da Dio e per le quali soffriva e moriva!
Che sarà passato allora fra Dio e lei? Quanto amore reciproco in
quell'incontro del creatore e della creatura che aveva luogo sul
calvario e sulla nuda croce!
Quel sacerdote, riportata in chiesa la pisside, tornò subito da Gemma
e, inginocchiato in un angolo della camera, assisté raccolto e commosso
a quel lungo ringraziamento, unendosi alle grandi cose che intuiva
dovessero passare allora tra quell'anima e Dio.
Ma la malattia faceva il suo corso: un'alternativa continua di alti e
bassi. Le crisi erano frequenti: bisognava aver sempre pronto
l'ossigeno a ravvivarle la respirazione. Che fare? Impegni urgenti
richiamavano a Roma padre Germano. Lo accennò a Gemma che gli rispose:
«Se così vuole, padre, può andare, che non morrò per ora. Di questo
male finirò certo, ma non ora: almeno così mi ha detto il Signore».
Il padre la benedisse per l'ultima volta e partì.
CAPITOLO XLIV. - L'ULTIMA TAPPA SULLA VIA DEL CALVARIO
La sera del 24 gennaio 1903, come abbiamo già visto, Gemma abbandonò
casa Giannini e fu trasportata nel quartierino preso in affitto dalla
zia di lei. Questa doveva essere l'ultima e più dolorosa tappa del suo
duro calvario.
Le sue sofferenze erano inaudite. Lo stomaco non reggeva più cibo
alcuno, neppure pochi sorsi di liquido e il vomito scoteva
dolorosamente quelle povere membra, che tutte avevano il loro
particolare martirio. Fu pure assalita dalla tosse che le sconquassava
il petto e dalla difficoltà di respiro. Non v’era parte del suo corpo
senza dolore. Giunse un momento in cui il Signore le tolse la vista, e
la voce talmente si indebolì da stentare ad articolare parola. Con
tutto ciò, mai la domanda di un sollievo, mai un' aria stanca, o
contristata, mai che chiedesse d'essere mossa o sollevata un poco,
benché si trovasse in una posizione incomoda. «Non chiese mai nulla
spontaneamente durante tutta la malattia» dice la madre Giannini,
«neppure un sorso d'acqua».
Accadde qualche volta, per sbagli o malintesi, che passasse sola sola
le notti quando maggiore le sarebbe stato il bisogno d'aiuto; ma non
diceva nulla né si turbava.
Ad evitare questo inconveniente, furono prese ad assisterla le suore di
san Camillo de Lellis alle quali, per un istante, Gemma aveva avuto
l'idea di associarsi. Ora una di queste racconta che, sulle prime, le
accadeva di udir Gemma esclamare, nel più fitto della prova: «Gesù mio,
non ne posso più»; ma, avendole detto che, con la grazia di Dio, tutto
si può, non ripeté più tale lamento. Anzi, a chi le diceva: «Poverina,
non ne può proprio più!», rispondeva: «No, ne posso ancora».
Conforto delle lunghe notti insonni era per lei la preghiera:
«Preghiamo, suora, preghiamo» diceva, «non ci occupiamo d'altro. Gesù
solo!». E quando non pregava con le labbra, pregava col cuore, come le
aveva insegnato monsignor Volpi: «Come mi ha detto lui, così faccio».
Le sofferenze fisiche di Gemma erano un nulla a paragone delle
sofferenze morali.
Il demonio, per indurla alla disperazione, le empiva la mente di
fantasmi, atti a suscitarle in cuore ansietà, tristezza, amarezza e
timore.
Tutta la sua vita penosa, tutte le sventure della sua famiglia, le ore
d'angoscia, le privazioni di ogni genere, le ripassavano dinanzi, e una
voce piena d'ironia e di sarcasmo pareva intimamente ripeterle: «Ecco
quel che hai ricavato da tante fatiche nel servizio di Dio».
La stessa voce le suggeriva il pensiero del divino abbandono per aver
lei sbagliato strada, e, fin nelle sue più eroiche virtù e nei più
insigni favori da lei ricevuti, le faceva vedere inganno e ipocrisia.
Questa tentazione fu la più lunga e la più terribile. Gemma ne rimase
quasi sopraffatta, e volendo sperar salute, pensò se non fosse
possibile rimediarvi con una confessione generale. Prese la penna, e in
quel dolorosissimo stato di agitazione di spirito, in quella confusione
di idee, scrisse la storia della sua vita, dichiarandosi rea di mille
inferni, per aver, con malizia diabolica, diceva, ingannato sempre i
confessori, i direttori, se stessa. Venendo poi ai particolari,
ripassava il decalogo, i precetti della Chiesa, i vizi capitali, gli
obblighi del proprio stato, e di tutto si diceva grandemente colpevole.
Questo scritto che, prima di essere sigillato, fu letto da chi poteva
farlo, fu portato, per volere di Gemma, a un sacerdote di santa vita,
da lei ben conosciuto, con preghiera di venire a darle l'assoluzione di
tutti i suoi peccati. Egli venne e la rassicurò.
Il demonio la tentava d'impazienza, ma inutilmente. Cercava di turbare
il suo candore verginale, ma invano. Quest'ultima tentazione le era
però così penosa, la più penosa di tutte, e, desolata, così scriveva al
suo direttore spirituale: «Padre, padre, questa pena è per me troppo
forte. Dica a Gesù che me la cambi con qualunque altra...».
Poi, veniva la volta delle spaventose e terrorizzanti apparizioni, dei
rumori assordanti. Quelli di casa gettavano acqua benedetta per la
camera; cessava il fracasso ma per ricominciare poco dopo e peggio di
prima.
Quel po' di cibo che le presentavano, lo vedeva, per opera diabolica,
cosparso di schifosissimi insetti, e bisognava toglierlo subito
dinanzi, assalendola, a quella vista, un vomito penosissimo.
Le pareva che altri ributtanti animali le entrassero nel letto, le
strisciassero sulla persona; le pareva di sentirsi sempre avvolta tra
le spire di un serpente che tentasse di soffocarla. Chiese gli
esorcismi, ma non le furono concessi: li fece da sé.
Di tanto in tanto, il Signore e il suo buon angelo accorrevano in suo
aiuto, animandola con parole a non temere, anzi ad accrescere la sua
speranza: «Resisti
sempre, senza lasciarti mai vincere e se la tentazione persevera,
perseveri la resistenza, e la battaglia ti porterà incontro alla
vittoria». Ma ciò era raro, e, dopo questi lumi
passeggeri, la guerra si faceva più intensa: «Oh! dove sei, Gesù?»
diceva alla fine di ogni assalto. «Dove sei?... Tu lo sai, o Gesù, tu
vedi il mio cuore...».
Così passavano i giorni, le settimane, i mesi.
«Impara, Eufemia, come vuol essere amato Gesù», disse un giorno la cara
Gemma alla sua dolce assistente, Eufemia Giannini, che in una crisi
tremenda di tosse le stava accanto sorreggendole la catinella. «Il vero
amore si prova col dolore. Gesù, sono tua, anima e corpo. Qualunque
patire, si, ma voglio essere tutta tua».
Nel colmo di queste inaudite sofferenze, le fu domandato: «E se Gesù la
lasciasse scegliere, tra l'andare subito in Paradiso e cessare da tanto
patire, oppure restare qui a patire, se con ciò potesse maggiormente
procurare la sua gloria?». «Meglio patire che andare in cielo» rispose
Gemma, «quando si tratta di patire per Gesù e dargli gloria».
CAPITOLO XLV. - TUTTO È COMPIUTO
La morte in un'estasi di luce d'amore non poteva che essere adeguato
coronamento di una vita di dolore e di martirio. Gesù, sul Golgota,
rimise l'anima sua tra le mani del Padre in un mare d'ambascia e nel
più triste e doloroso abbandono. Sospeso tra cielo e terra, abbandonato
da Dio, odiato e maledetto dagli uomini, egli era compatito e amato
solo da un piccolo gruppo di pie donne che, impotenti, assistevano al
suo martirio.
Così doveva essere per Gemma.
Una volta, aveva detto alla zia: «Ho pregato Gesù di farmi morire in
una grande solennità. Che bella cosa morire in una solennità». E morì
infatti in una solennità, ma in una solennità dolorosa.
La Chiesa aveva commemorato la morte di Gesù, il tremare della terra,
lo scindersi del velo del tempio, e nella sua tristezza aveva fatto
tacere ogni suono, resa muta la voce delle sue campane.
Gesù, deposto dalla croce, era stato collocato in un sepolcro nuovo, e
appunto quel giorno del riposo di Cristo fu scelto da Dio per deporre
dalla croce la sua amante fedele, e unirla indissolubilmente a sé nella
gloria della risurrezione.
L’eucaristia era stata sempre il suo tutto, come abbiamo già visto, la
sua vera vita, e lo fu anche sul letto dei suoi dolori.
Induceva al pianto il vederla, fino a che le gambe vacillanti la
ressero, trascinarsi appoggiata al braccio della sua cara Eufemia fino
alla chiesetta di santa Maria della Rosa. I familiari non avrebbero
voluto; ma monsignor Volpi: «Lasciate che faccia la comunione» disse:
«È l'unico conforto che le rimane». Quando ciò le fu poi impossibile,
piegò il capo al volere di Dio; ma il buon Monsignore volle che di
frequente si venisse a comunicarla a letto. Infatti, come avrebbe
potuto soffrire tanto e passare serenamente da questo mondo al Padre
senza il suo Gesù nel cuore? Ebbene il sabato santo, dopo che le sue
membra verginali ebbero ricevuto dal santo crisma l'ultima
purificazione e consacrazione, la sua anima si schiuse a ricevere
l'amore che, tra un istante, si sarebbe esternato m lei, in una gloria
senza nome.
Già il mercoledì santo, Dio si era degnato di sollevare un lembo del
velo che le nascondeva questi splendori. Andata in estasi, rispose poi
alla suora che le domandava se il Signore l'avesse consolata: «Oh,
suora, se lei potesse vedere un briciolo di ciò che Gesù ha fatto
vedere a me, quanto ne godrebbe!». Poi si comunicò per viatico. Tornò a
comunicarsi il giorno seguente, restando digiuna tutta la notte, avendo
il sacerdote mostrata un po' di difficoltà a comunicarla per viatico
due mattine di seguito.
«Pareva una santa» dice un testimone, «assisa sul letto con le mani
giunte, con gli occhi bassi, col volto radioso e il labbro atteggiato a
sorriso, nonostante l'acerbità del male che la consumava». Nel
raccoglimento estatico della comunione di quel giovedì mattina, a Gemma
parve di vedere una corona di spine e disse: «Prima che tu Sli compita,
quanto c'è da passarne!». E poi rivolta alla suora: «Che giornata sarà
domani!», soggiunse.
Era la fine del dramma, e doveva essere tremenda. Infatti, quando il
venerdì mattino, verso le dieci, la signora Cecilia, affranta dalla
stanchezza e dall'insonnia, voleva scendere in casa a riposarsi un
poco, Gemma le disse: «Non mi lasci finché non sono inchiodata in
croce. Ho da esser crocifissa con Gesù. Gesù mi ha detto che i suoi
figli devono morire crocifissi».
Poco dopo, entrata in un'estasi profonda, Gemma stende lentamente le
braccia in forma di croce e così rimane fino al tocco e mezzo. Sul suo
volto si riflette il dolore e l'amore, la consolazione e la calma.
Gemma tace, ma il suo atteggiamento rivela abbastanza che è in agonia
col suo dolce Signore. Gli sguardi degli assistenti sono concentrati su
di lei, credendo da un momento all'altro di doverne raccogliere
l'ultimo respiro. Ma, cessata l'agonia, lei continua a soffrire
atrocemente tutto il giorno, tutta la notte e la mattina del sabato.
L’aveva detto: le restava da ultimare la sua corona di spine con
sofferenze crudeli. Trovò però ancora forza bastante per rispondere con
voce sommessa e fioca alle magnifiche preghiere che accompagnavano la
cerimonia dell'unzione degli infermi.
Il sacerdote che gliel'aveva amministrata si ritirò subito, non tornò
che agli ultimi istanti, per la raccomandazione dell'anima.
Quello che le portò il viatico non si fece più vedere; così pure il
confessore straordinario da lei chiamato e che la confessò in due
battute. Avrebbe desiderato monsignor Volpi perché le facesse gli
esorcismi, vedendosi accanto il demonio sotto forma di orribile cane
nero e minaccioso; ma date le lunghe funzioni, non poté venire che
verso mezzogiorno. «Io mi ritirai» dice la signora Cecilia. «Gemma
disse che voleva gli esorcismi e Monsignore, datele una benedizione, le
domandò:
"Ora sei contenta?"». Gemma rispose di no, perché avrebbe desiderato i
veri esorcismi. «Vado a dare la buona Pasqua all'Arcivescovo» replicò
Monsignore, «e poi tornerò a vederti» Ma non tornò più, perché Gemma
spirò poco dopo.
Udiamo Monsignore stesso:
«La trovai in grave stato di sofferenza, non solo fisica, ma anche
morale, era però molto rassegnata. Le detti l'assoluzione e la lasciai
in uno stato penoso, ma in perfetta quiete di spirito».
«Devo rilevare» dice la signora Cecilia «che la mattina era stato detto
a Monsignore che Gemma lo aspettava ed egli aveva risposto: "Se è per
confessarla, verrò: ma se è per assisterla, mi è proprio impossibile:
ci sono i curati"». Quei giorni erano infatti per lui, vescovo
ausiliare, eccezionalmente occupati.
«Quando riportai queste parole di Monsignore a Gemma» continua la
signora Giannini, «Gemma prese il crocifisso fra le due mani e
tenendolo all'altezza degli occhi e guardandolo disse: "Vedi, o Gesù,
ora non ne posso più davvero: se è volontà tua, pigliami". Poi alzò lo
sguardo ad un quadro della Madonna appeso al muro e soggiunse: "Mamma
mia, raccomando l'anima mia a te, di' a Gesù che mi usi misericordia".
Baciò il crocifisso, se lo pose sul cuore e, tenendovi sopra le mani,
chiuse gli occhi e così rimase immobile. All'arrivo di Monsignore, li
aprì e parlò come si è detto. Partito lui, riprese la posizione di
prima».
La signora Cecilia fece chiamare in fretta il parroco, l'abate Angeli
dei canonici lateranensi, e scesa in casa mentre la famiglia era a
pranzo: «Muore Gemma!», esclamò. Tutti, tranne i bambini, si alzarono
da tavola e corsero da lei. La signora Giustina la sollevò, ponendole
un braccio sotto i guanciali, di maniera che il capo di Gemma le stava
appoggiato alla spalla; Eufemia, inginocchiata accanto al letto, teneva
tra le sue mani la destra della morente posandovi sopra la fronte.
Accanto a lei stava la signora Cecilia e gli altri di casa, sicché la
cameretta era piena.
L'abate Angeli che faceva la raccomandazione dell'anima domandò più
volte, guardando gli astanti: «È morta?...». «Se non lo sa lei?», gli
fu risposto.
Era morta veramente, ma nessuno se n'era accorto.
«Ho assistito molti malati» dice l'abate, «ma mai mi sono trovato a
vedere una morte accadere in quella maniera senza alcun segno foriero,
né respiro affannoso, ecc. Morì in un sorriso, e rimase così col
sorriso sulle labbra, tanto è vero che non mi potevo persuadere che
fosse morta...».
Anche il padre Germano mancò all'agonia di Gemma. Appena il male
incominciò a incrudelire, la signora Cecilia disse alla santa: «Bisogna
fare un telegramma al padre». Ma lei, sentendo in cuore che Gesù voleva
anche questo sacrificio, non ne fece più parola, e, a chi le parlava di
lui, rispondeva con un dolce sorriso che esprimeva quanto lo tenesse
presente: «Non chiedo più nulla. Ho fatto a Dio il sacrificio di tutto
e di tutti. padre Germano verrà, ma dopo Pasqua». Egli infatti venne
dopo Pasqua.
Gemma aveva chiesto a Gesù di morire senza conforti: «Un sacerdote e un
cristiano mi bastano», aveva detto. Le ultime note di quel poema di
dolore e di amore si spensero in una grande sofferenza e in un grande
abbandono. Silenziosamente piegò il capo e spirò.
Il Vangelo dice di Cristo: «Et inclinato capite tradidit spiritum!».
La vestirono di nero, le posero al collo la corona, sul petto lo stemma
della passione, cioè il distintivo dei passionisti, sul capo un serto
di fiori; le congiunsero le mani come soleva tenerle nelle estasi, e
non pareva morta, ma dolcemente addormentata o immersa in un'estasi
d'amore.
Il concorso fu grande attorno alla salma di quella creatura vissuta
nell'oscurità, ignorata quasi da tutti. Grandi e piccoli, sacerdoti e
laici, tutti venivano a inginocchiarsi accanto a lei, invocando la
santa, chiedendone reliquie, baciandone le mani, accostando ad essa
corone e medaglie.
Venne tra gli altri quel santo sacerdote al quale Gemma, angustiata dal
maligno spirito, aveva scritto la sua confessione generale, e cadendo
in ginocchio per la riverenza ispiratagli dal cadavere: «Gemma»
esclamò, «hai ai tuoi piedi un gran peccatore. Prega Gesù per me! ..
Al tramonto del giorno di Pasqua, i confratelli della compagnia detta
«La Rosa», rivestiti del loro sacco giallo, uscivano dalla casa ove
Gemma era spirata. Il feretro era portato a spalla da due di essi e da
due membri della famiglia Giannini, che reputavano un onore prestare
quest'ultimo ossequio all'angelo di casa loro.
Le campane della città sonavano a festa, mentre gli angeli della
passione e della risurrezione, volteggiando attorno a quel feretro
cantavano: Osanna, Alleluia a colei che, avendo sì ben seguito al
Getsemani e al Calvario l'appassionato Signore, aveva meritato di
essere associata al trionfo della sua risurrezione.
CAPITOLO XLVI. - DAL CIELO
Gemma è ben alta nel cielo. Dio si degnò di rendere subito palese agli
uomini il potere che le accordava sul suo cuore. Pare che la sua grazia
speciale sia quella di ottenere la conversione dei peccatori; lo fu in
vita, e lo è ora in Paradiso.
Nell'agosto del 1911, due Passionisti della Repubblica Argentina si
erano recati a Yu Yuy (diocesi di Salta) per una missione, visitando
anche gli infermi dell'ospedale di san Rocco, ove si trovavano come
infermiere le suore italiane, dette della Madonna dell'Orto.
Tra quei poveretti, v'era un veneziano di nascita. In fin di vita,
ostinatamente rifiutava ancora i sacramenti. L’uno dopo l'altro i due
missionari si accostarono al suo letto, cercando di convincerlo a
riconciliarsi con Dio; ma inutilmente. Egli rideva e si burlava delle
loro parole. Disse che aveva ricevuto la prima comunione dalle mani di
Pio X, allora semplice sacerdote; ma a quindici anni aveva perduto la
fede, né aveva voluto più saperne di religione e, quindi, lo
lasciassero in pace.
I missionari si ritirarono addolorati, quando a uno di essi balenò
un'ispirazione. Avendo con sé una reliquia di Gemma, la portò alla
superiora, pregandola di metterla nascostamente sotto il capezzale
dell'infermo; frattanto, egli pregava. Così fu fatto. Non era neppur
passato un quarto d'ora e l'infermo, spontaneamente, senza che nessuno
rinnovasse il tentativo, chiamò una suora e le disse di condurgli
subito il tal missionario (il proprietario, cioè, della reliquia)
volendo confessarsi. Quegli accorre. Non solo il miscredente si
confessa con vivi sentimenti di dolore, ma, per riparare agli scandali
dati con le sue parole, vuole che gli si rechi il santo viatico in
forma solenne. Nell'ospedale, tutti piangono di commozione. Due giorni
dopo, spira sereno nel bacio di Dio.
Da Lione (Francia) il 20 dicembre 1911 la signora Filomena Bonnaband,
infermiera di professione, scrive che, chiamata ad assistere un certo
signore, rimase stupita nel vedere appeso in capo al letto un
cartellone con, queste parole scritte a caratteri cubitali: Non voglio
preti al mio capezzale. All'infermiera dispiaceva dover assistere gli
estremi momenti di un' anima che rifiutava i conforti religiosi. Che
fare? Ritirarsi? Si consigliò col suo confessore che le disse di
rimanere, e, dandole un'immagine di Gemma Galgani, le ordinò di
metterla nella camera dell'infermo, in modo, però, che nessuno la
vedesse. L’infermiera nascose l'immagine dietro un quadro, e pregò di
cuore la cara Gemma ad intercedere presso la santa Vergine per ottenere
il miracolo della conversione di quell'anima.
Due giorni dopo, senza esservi spinto da alcuno, l'infermo volle il
sacerdote, ricevette i sacramenti con vero sentimento, e morì cinque
giorni dopo con sensi di vera pietà.
Questi esempi sono innumerevoli.
Un altro magnifico miracolo d'ordine spirituale è il seguente.
Nel 1907, si trovava gravemente infermo nell'ospedale di Lucca un
disgraziato, non solo gran peccatore, ma incredulo notissimo e
veramente avverso alla religione.
Tanto le suore dell'ospedale quanto i Cappuccini tentarono ogni via per
muoverne il cuore, ma inutilmente; e dovettero cessare per evitare
scandali. Non sapevano però rassegnarsi all'idea che quell'anima
dovesse andare perduta, quando a uno di essi balenò il pensiero di
chiamare il parroco dell'infermo. Questi era un degnissimo sacerdote,
monsignor Benassini.
I testimoni delle scene brutali accadute contro i Cappuccini e le
Figlie della carità volevano distoglierlo dall 'accostarsi al suo
letto. Egli non si dette per vinto; si accostò e parlò chiaro: «Io a
questi spauracchi non ho mai creduto» diceva turbato e invelenito quel
ribaldo, «e questo Cristo di cui sento parlare non so chi sia. Che
anima, che Paradiso, che inferno!? Mi lascino in pace, e nessuno venga
a darmi noia con questi ridicoli propositi». E così dicendo, fece atto
di sputare in faccia al ministro di Dio. Questi si ritirò sconfortato.
Giunto a casa gli cadde sott'occhio la vita di Gemma, incominciata a
leggere da poco. Quella vista rianimò la sua speranza. Egli si pose in
ginocchio invocando con lacrime la serva di Dio.
Chiamato poi il suo cappellano, gli ordinò di andare all'ospedale con
una conoscente dell'infermo. Erano circa le 11 di sera. Fu
difficilissimo ottenere il permesso di entrare a quell'ora. Ad ogni
modo, si ottenne. Entrò solo la donna; il sacerdote rimase fuori in
attesa. In casa sua monsignor Benassini ardentemente pregava.
Veder la donna, chiederle di chiamargli in fretta un sacerdote fu una
cosa sola per quell'infelice. La sua confessione fu accompagnata dai
sentimenti del più vivo dolore. Il sacerdote, commosso fino alle
lacrime, alzò la mano tremante per assolverlo e ridonarlo a Cristo, poi
corse a prendere il viatico e l'olio santo. Appena ricevuti questi due
sacramenti quel poveretto entrò in agonia, e verso le quattro della
mattina placidamente spirò.
A questo racconto, il papa Pio X profondamente si commosse, dichiarando
che egli pure si sarebbe valso del patrocinio della serva di Dio per
simili grazie.
Sebbene la speciale prerogativa di Gemma sia quella di convertire i
peccatori, pure anche le grazie temporali ottenute per sua
intercessione sono numerose.
Padre Lord d.C.d.G. scrive dal Québec (Canada) il 5 luglio 1914: «La
serafica vergine di Lucca opera meraviglie in Canada. Tutti coloro che
si rivolgono a lei, o sono guariti, o sollevati, o almeno consolati. Io
vi mando la relazione di una guarigione che ho scelto di preferenza,
perché istantanea, e il graziato, essendo un fanciullo di tre anni e
mezzo, non ha potuto essere suggestionato né fare uno sforzo qualunque
coll'immaginazione.
«Un fanciullo di nome Alfonso Pauliot era epilettico fin dalla nascita.
Soffriva inoltre di una affezione bronchiale ribelle a tutti i
medicamenti: tossiva, e la sua respirazione era accompagnata da un
continuo rantolo.
«La madre del fanciullo, avendo inteso parlare di Gemma, si procurò una
reliquia e fece una novena, senza però ottenere alcun miglioramento. Il
venerdì santo, dell'anno scorso, 1913, il fanciullo fu preso da un più
forte attacco di epilessia. La madre, in un momento di fede viva, ma di
quella fede accompagnata da una certezza morale che un miracolo si ha
da ottenere, mette un 'immagine di Gemma sul petto del bambino dicendo:
"No, tu non cadrai più!".
Nel medesimo istante, le membra irrigidite dagli spasimi epilettici
riprendono la loro flessibilità. Il fanciullo apre gli occhi e sorride
a sua madre. Da quel momento, non più un benché minimo sintomo di
epilessia, non più qualsiasi affezione morbosa. Egli sta benissimo. È
anche da notare che il fanciullo, allora in età di tre anni e mezzo,
aveva degli attacchi di epilessia pressoché tutti i giorni, e non una,
ma sei, sette, e fino a quindici volte al giorno. Questo è certamente
un miracolo di prim'ordine».
Nel 1913, la signora Olga Bargelli tornava da Colle Cigliano a Pisa,
desolatissima per avere lasciato il marito in una casa di salute, pazzo
furioso, ed essere stata assicurata dai medici che non sarebbe guarito
perché affetto da paralisi progressiva.
Un sacerdote, che nel vagone le sedeva di fronte, l'interrogò sul suo
dolore. Glielo disse, ed egli replicò: «Perché non si rivolge anche lei
a Gemma Galgani che è la santa di Lucca e fa tanti miracoli?». E gliene
raccontò uno ottenuto da una giovinetta sua parrocchiana.
La signora Bargelli fece di tutto per procurarsi una reliquia di Gemma;
ma non sapendo come applicarla al marito che, essendo pazzo furioso,
tutto strappava, la cucì tra due pezzetti di cambrì bianco e la nascose
sotto la fodera della giacchetta. Questa giacchetta la portò poi a San
Salvi, dove era stato trasferito l'infermo, perché, peggiorato
moltissimo, quasi più non si reggeva in piedi.
Non glielo facevano vedere che da lontano, quando era in giardino, e da
un'alta finestra con la rete. Era tutto curvo cadente, camminava a
stento, sostenuto sotto le ascelle da due infermieri e commetteva mille
stranezze; trattava tutti male, non riconosceva nessuno. Giunse poi a
un punto che non glielo facevano vedere neppur più dalla finestra,
tanto era furioso.
La poverina insisteva che gli mettessero la giacchetta; il capo
infermiere ne rideva, non sapendo la ragione di tale insistenza, e
ripeteva che l'infermo sarebbe morto tra breve.
Finalmente, due giorni dopo, la contentarono: gli misero la giacchetta,
e, tornata lei a vedere l'infermo, l'infermiere le disse: «Vuol vedere
suo marito? Parli col primario, perché suo marito è guarito». «A che
ora viene il primario?». «Alle nove». Lo attese, chiese il permesso, e
subito l'ottenne. Le condussero il marito in una sala d'udienza. Stava
benissimo e disse: «Ma perché mi avete messo qui? Non sapete che mi
avete rovinato? Se fosse stato vivo il mio papà, non mi avrebbe messo
qui». (E disse ciò perché, essendo farmacista, avrebbe perduto la
professione). «Fammi uscire il più presto possibile: fa' preparare i
documenti che occorrono». Invece non ci volle nulla.
Dopo pochi giorni, l'infermo tornò a casa perfettamente guarito anche
di altri precedenti incomodi.
Altri miracoli si succederanno a confermare la santità di questo fiore
della passione, finché davanti al mondo avrà la suprema glorificazione
sugli altari. E questa glorificazione venne fatta il 2 maggio 1940 da
Pio XII che ne fissava la festa all'11 aprile. A Lucca si celebra il 14
maggio.
La sua vita è tutta un poema di amore e dolore nel crocifisso, dando
agli uomini un esempio di come possa un' anima patire le pene di Cristo
perché altri lo ritrovino nella rinuncia a se stessi, nella perfetta
obbedienza e nella totale dedizione alla sua volontà.
UNA SCRITTRICE CARMELITANA SUOR GESUALDA SARDI. - (1879-1930)
di Tito Paolo Zeccà
Suor Gesualda Sardi, lo abbiamo visto nel Capitolo I di questa
biografia, narra con singolare sincerità gli incontri fugaci avuti con
Gemma, per le strade lucchesi andando a passeggio con le sorelle e le
amiche o mentre insieme facevano la fila per confessarsi da monsignor
Volpi nel bel S. Michele di Lucca. Ci ha confidato anche il travaglio
sofferto prima di decidersi a scrivere le vicende singolari della sua
concittadina. Più di un motivo le impediva di farlo, molte ragioni la
spingevano a rompere gli indugi. Tutto fu superato con il ricordo del
sorriso indimenticabile della «povera Gemma» e per una singolare spinta
interiore. Non è il primo caso. Il «personaggio» Gemma non è dei più
facili e bisogna andare ben oltre le apparenze della cronaca e i
singolari «fenomeni» mistici straordinari registrati nella carne e
nello spirito della Galgani per comprenderne la vocazione alla quale il
Signore la chiamava e la missione che ha svolto nella Chiesa. Suor
Gesualda Sardi lo ha fatto con grande intelligenza, discrezione ed
amore. Da qui, tra l'altro, come è stato detto, la sorprendente
freschezza originaria di questa opera e il costante favore avuto presso
i suoi lettori.
Ma chi era questa monaca carmelitana scrittrice? Le pagine seguenti
vogliono ricordare questa singolare figura claustrale a più di
sessant'anni dall'immatura scomparsa.