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Un bidente prodigioso

L’anno 1875, per animare i suoi a celebrare il mese di Maria Ausiliatrice con grande impegno, Don Bosco espose loro un sogno che suscitò profonda e durevole emozione. Lo annunciò la sera del 30 aprile e lo narrò la sera del 4 maggio, appagando una aspettativa fattasi di giorno in giorno più fervida e ansiosa. Noi lo riassumiamo servendoci, al solito, delle parole stesse di Don Bosco.
«Appena coricato, presi sonno e mi sembrò di trovarmi in una estesissima valle: di qua e di là vi era un’alta collina. In fondo alla valle da una parte splendeva una luce chiara, dall’altra parte l’o rizzonte era semioscuro.
Mentre contemplavo quella pianura, vidi venire verso di me Buzzetti e Gastini [ fedeli collaboratori della prima ora], i quali mi dissero:
— Don Bosco, monti a cavallo.
E io:
— Non voglio andare a cavallo; sono andato una volta e sono caduto.
Buzzetti e Gastini insistettero:
— Monti a cavallo e presto, che non abbiamo tempo da perdere.
— Ma dove si trova questo cavallo? Io qui non vedo nessun cavallo.
— Eccolo là — gridò Gastini.
Mi voltai da quella parte e vidi un bellissimo e brioso cavallo:
aveva alte e grosse le gambe, folta la criniera e lucentissimo il pelo.
— Ebbene — risposi — poiché volete che io monti a cavallo, monterò; ma se mi rompo il collo, tu Buzzetti dovrai mettermelo a posto! Ci avvicinammo al cavallo. Salii sulla groppa con molta fatica, mentre essi mi aiutavano. Finalmente eccomi in arcione. Come mi sembrò alto allora quel cavallo! Mi pareva di essere sopra un poggio elevato, dal quale io dominavo tutta la valle.
Ed ecco che il cavallo si mette in moto. Dopo un buon cammino si fermò. Allora vidi venire verso di me tutti i preti dell’Oratorio con molti chierici, i quali circondarono il mio cavallo. Tra di èssi vidi Don Rua, Don Cagliero, Don Bologna. Avevano tutti un aspetto malinconico che indicava forte turbamento. Volli sapere che cosa stava succedendo; uno mi porse una tromba, dicendomi di soffiarvi dentro. Vi soffiai e ne uscì questa voce: “Siamo nel paese della prova”.
Allora si vide discendere dalla collina una quantità di giovani, tale che credo fossero un venti e più mila. Tutti, armati di una forca, si avanzavano in silenzio e a grandi passi verso la valle. Fra questi vidi tutti i giovani dell’Oratorio e degli altri collegi e moltissimi che io non conoscevo. In quel mentre da una parte della valle cominciò a oscurarsi il cielo per modo tale che pareva notte, e comparve un immenso numero di animali, che sembravano leoni e tigri. Con gli occhi rossi, quasi fuori delle occhiaie, si lanciarono contro i giovani, i quali si difendevano disperatamente con la forca a due punte, alzandola e abbassandola secondo l’assalto delle fiere. I mostri mordevano i ferri della forca, si rompevano i denti e sparivano. C’erano dei giovani che avevano la forca con una sola punta, e rimanevano feriti; altri l’avevano col manico rotto, altri col manico tarlato; c’erano anche dei presuntuosi che si getta vano contro quegli animali senz’arma e rimanevano vittime; non pochi rimasero uccisi.
Intanto il mio cavallo fu circondato da numerosi serpenti; ma con salti e calci, a destra e a sinistra, li schiacciava e li allontana va, mentre andava sempre crescendo, fino a raggiungere una grande altezza.
Ho domandato a Uno che cosa significassero quelle forche a due punte. Mi si portò una forca e vidi scritto sopra una delle due punte: Confessione, e sopra l’altra: Comunione.
— Ma che cosa significano quelle due punte?
— Soffi nella tromba.
Soffiai e ne uscì questa voce: “Confessione e Comunione ben fatte”.
Soffiai di nuovo e ne uscì questa voce: “Manico rotto: Confessioni e Comunioni malfatte; manico tarlato: Confessioni difettose”.
Finito questo primo assalto, feci a cavallo un giro per il campo di battaglia e vidi molti feriti e molti morti. Alcuni giacevano a terra strangolati, col collo gonfio in modo deforme, altri con la faccia deformata in modo orribile; altri morti di fame, sebbene avessero lì vicino un piatto di bei confetti. Quelli strangolati sono quelli che avendo avuto fin da piccoli la disgrazia di commettere qualche peccato, non se ne confessarono mai; quelli deformi nella faccia erano i golosi; quelli morti di fame, coloro che vanno a con fessarsi, ma non mettono in pratica gli avvisi del confessore.
Vicino a ciascuno di quelli che avevano il manico tarlato stava scritta una parola. Chi aveva scritto: superbia; chi: accidia; chi: impurità ecc. Ho anche notato che i giovani, mentre camminavano, passavano sopra uno strato di rose e ne godevano, ma fatti pochi passi, mandavano un grido e cadevano morti o rimanevano feriti, poiché sotto le rose c’erano le spine. Altri però, calpestando quelle rose con coraggio, vi camminavano sopra animandosi a vicenda e rimanevano vincitori.
Ma di nuovo si oscurò il cielo e in un momento apparvero quegli animali e mostri più numerosi di prima, e anche il mio cavallo ne fu circondato. I mostri crebbero a dismisura, in modo che anch’io cominciai ad avere paura, e mi sembrava già di essere graffiato dalle loro zampe. Sennonché si portò anche a me una forca; presi anch’io a combattere e quei mostri furono messi in fuga.
Allora soffiai nella tromba e rimbombò per la valle questa voce: “Vittoria! Vittoria!”.
— Ma come — dissi io — abbiamo riportato vittoria? Eppure vi sono tanti feriti e anche morti!
Allora, soffiando nella tromba, si sentì questa voce: “Tempo ai vinti”.
Quindi il cielo si rasserenò e comparve un arcobaleno di una bel lezza indescrivibile. Era così largo che sembrava si appoggiasse a Superga e, facendo un arco, andasse a poggiare sul Moncenisio. I vincitori portavano corone così brillanti che era una meraviglia a vederli; la loro faccia risplendeva di una bellezza incantevole. In mezzo all’arcobaleno si vedeva una specie di orchestra affolla ta di gente piena di giubilo. Una nobilissima Signora vestita regal mente si fece alla sponda di quell’orchestra gridando: — Figli miei, venite; ricoveratevi sotto il mio manto.
In quel momento si distese un larghissimo manto e tutti i giovani presero a corrervi sotto: alcuni volavano e avevano scritto sulla fronte: innocenza; altri camminavano a piedi, altri si trascinavano; anch’io mi misi a correre, e mentre correvo, mi svegliai».
Due giorni dopo Don Bosco volle appagare la legittima curiosità del suo vivace uditorio e disse: «Quella valle, quel paese della prova è questo mondo; quei serpenti i demoni; quei mostri le cattive tentazioni; il cavallo è la confidenza in Dio; quelli che passavano sulle rose e cadevano morti sono quelli che si danno ai piaceri mondani; quelli che calpestavano le rose sono quelli che disprezzano i piaceri del mondo e riescono vincitori; quelli che volavano sotto il manto sono gli innocenti.
Quelli tra di voi che desiderano sapere se fossero o no vincitori, se fossero tra i morti o i feriti, vengano da me e poco per volta li accontenterò».
Qualche giorno dopo, Don Giulio Barberis [ catechista Generale della Congregazione], portò il discorso sul sogno per saperne di più. Don Bosco si limitò a rispondere tutto serio: « C’è ben qualche cosa più che un sogno! ».
Così si spiega quanto afferma il suo segretario Don G. Berto:
«Anch’io volli domandare la parte mia; ne ebbi risposta così precisa, che piansi e dissi: “Se fosse venuto un angelo dal cielo, non poteva colpire meglio nel segno”».