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612. La notte del Venerdì Santo. Lamento della Vergine. Il velo di Niche e la preparazione degli unguenti.

29 marzo 1945. Maria, soccorsa dalle donne piangenti, rinviene e piange senza altra forza più che questa di piangere e piangere. Pare veramente che la sua vita debba fluire e consumarsi tutta con quel pianto. Le vogliono dare qualche ristoro. Marta le offre un poco di vino; la padrona di casa vorrebbe prendesse almeno un poco di miele; Maria d'Alfeo, in ginocchio davanti a Lei, le offre una tazza con del latte tiepido, dicendo: «L'ho munto io stessa alla capretta della piccola Rachele» (sarà una figlia di questi che sono in questa casa di Lazzaro, non so se come inquilini o come custodi). Ma Maria non vuole nulla. Piangere. Solo piangere. E chiedere e sentirsi promettere che saranno cercati apostoli e discepoli, che saranno cercate la lancia e le vesti, e che, a giorno fatto, posto che ora proprio non ve la vogliono lasciare andare, la lasceranno entrare nella stanza del Cenacolo. «Si. Se starai un poco quieta, se riposerai un poco, io ti ci condurrò», dice la cognata. «Noi due entreremo ed in ginocchio io cercherò per te ogni segno di Gesù...», e Maria d'Alfeo ha un singhiozzo. «Ma vedi? Qui hai la coppa e il pane spezzato da Lui, usato da Lui per l'Eucarestia. Quale più santo ricordo? Vedi? Giovanni te li ha portati sin da stamane, perché tu li vedessi questa sera... Povero Giovanni, che è là che piange ed ha paura...». «Paura? Perché? Vieni, Giovanni». Giovanni esce dall'ombra, perché nella stanza è una sola lucernetta messa sul tavolo presso gli oggetti della Passione, e si inginocchia ai piedi di Maria, che lo carezza e chiede: «Perché hai paura?». E Giovanni, baciandole le mani e piangendo: «Perché tu stai male. Hai la febbre e l'affanno... E non ti metti quieta. E se duri così morirai come è morto Lui...». «Oh! fosse vero!». «No! Madre! Mamma! Oh! è più dolce dire: "Mamma". Come alla mia! Làsciatelo dire... Ma, come io non trovo differenza fra mia madre e te, e anzi ti amo più di lei, perché tu sei la Mamma che Egli mi ha dato e sei la sua Mamma, tu non fare una troppo grande differenza fra il Figlio tuo nato e il figlio che ti è stato dato... E amami un poco come ami Lui... Se fosse Lui che ti dicesse: "Ho paura che tu muoia", risponderesti tu: "Oh! fosse vero"? No. Non lo diresti. Ma anzi ti dorresti di andartene e di lasciarlo in un mondo di lupi, Lui, il tuo Agnello... E di me non te ne accori?... Sono tanto più agnello di Lui. Non per bontà e purezza, ma per stupidità e paura. Se tu mi manchi, il povero Giovanni verrà sbranato dai lupi senza aver saputo dare un belato che parli del suo Maestro... Vuoi che muoia così, senza servirlo? Stupido in morte come in vita? No, vero? E allora, Mamma, cerca di metterti quieta... Per Lui... Oh! non dici che risorge? Sì, lo dici, ed è vero. E allora vuoi che quando Egli risorgerà trovi vuota la casa di te? Perché certo Egli verrà qui... Oh! povero, povero Gesù, se invece del tuo grido d'amore sentisse i nostri di cordoglio, se invece di trovare il tuo seno per posare il Capo martirizzato e glorioso trovasse la chiusura del tuo sepolcro... Vivere devi. Per salutarlo quando Egli tornerà... Non dico "al nostro amore". Noi meritiamo ogni rimprovero per il modo come agimmo. Ma al tuo amore. Oh! che sarà l'incontro? Ed Egli come sarà? Madre della Sapienza, Mamma dell'ignorantissimo Giovanni, tu che tutto sai, dicci come sarà Egli quando apparirà risorto». «Lazzaro aveva le ferite delle gambe chiuse, ma se ne vedeva il segno. E apparve avvolto in bende piene di marciume», dice Marta. «Lo dovemmo lavare e lavare...», aggiunge Maria. «E debole era, e dovemmo ristorarlo per suo ordine», Marta termina. «Il figlio della vedova di Naim era come sbalordito e pareva un bimbo incapace di camminare e parlare speditamente, tanto che Egli lo rese alla madre perché gli insegnasse a usare di nuovo del bene della vita. E la figlioletta di Giairo Egli stesso la guidò nei primi passi...», dice Giovanni. «Io penso che il mio Signore ci manderà un angelo a dirci: "Venite con una veste monda". Ed il mio amore l'ha già preparata. É nel palazzo. Io non l'ho potuta filare. Ma l'ho fatta filare dalla mia nutrice, che ora è tranquilla sul mio futuro e non piange più. Io ho preso il lino più prezioso e da Plautina ho avuto la porpora, e Noemi l'ha tessuta nella balza; ed io ho fatto la cintura, la borsa e il talet, ricamandoli di notte per non essere vista. Ho imparato da te, Madre. Non è perfetto. Ma, più delle perle che fanno il suo Nome sulla cintura e sulla borsa, lo rendono bello i diamanti del mio pianto d'amore ed i miei baci. Ogni punto è un palpito di devozione per Lui. E io gli porterò quella. Tu permetti, non è vero?». «Oh!... Io non pensavo che lo privassero della sua veste... non sono pratica degli usi del mondo e della sua ferocia... Credevo di conoscerla già... (e le lacrime rotolano di nuovo lungo le guance ceree) ma vedo che ancora nulla sapevo... E pensavo: "Avrà la veste della Mamma anche dopo". Gli piaceva tanto! L'aveva voluta Lui così. E me lo aveva detto da molto tempo: "Tu farai una veste così e così. E me la porterai per la Pasqua... Perché Gerusalemme mi deve vedere in porpurea veste di re...". Oh! quella lana, candida più di neve, mentre la filavo diveniva rossa agli occhi di Dio e miei, perché il mio cuore ebbe una nuova ferita da quella parola... Le altre, dopo anni o dopo mesi, si erano, se non chiuse, disseccate dal loro gemere sangue. Ma questa! Ogni giorno, ogni ora mi rigirava la spada nel cuore: "Un giorno di meno! Un'ora di meno! E poi sarà morto!". Oh! Oh!... E il filato sul fuso o sul telaio mi diveniva rosso... E sceso nella tinta, poi, per il mondo... Ma era già rosso...». Maria piange di nuovo. Cercano sollevarla parlandole della Risurrezione. Chiede Susanna: «Che dici tu? Come sarà, risorto? E come risorgerà?». E Lei, smarrita, acciecata in quest'ora di martirio redentivo, risponde: «Non so... Più nulla so... Fuorché che Egli è morto!...». Ha un nuovo scoppio di pianto violento e bacia il lino che era ai fianchi del Figlio, e se lo stringe sul cuore e se lo ninna come fosse un bambino... E tocca i chiodi, le spine, la spugna, e urla: «Queste! Queste cose ha saputo darti la tua Patria! Ferro, spine, aceto e fiele! E insulti, insulti, insulti! E fra tutti i figli d'Israele fu dovuto scegliere un di Cirene per portarti la croce. Quell'uomo mi è sacro come uno sposo. E se ne conoscessi un altro che ha dato soccorso al mio Bambino io gli bacerei i piedi. Ma dunque nessuno ebbe pietà? Uscite! Andate! Anche vedere voi mi è dolore! Perché fra tutti, fra tutti, non avete saputo ottenere nemmeno una tortura meno crudele. Servi inutili e inerti del vostro Re, uscite!». É tremenda nel suo scatto. Ritta in piedi, rigida, pare persino più alta, con gli occhi imperiosi, il braccio teso che accenna alla porta. Comanda come un regina sul trono. Escono tutti senza reagire per non eccitarla di più e si siedono fuori della porta chiusa, ascoltando il suo gemere ed ogni rumore che Ella possa fare. Ma dopo il rumore del sedile respinto e dei suoi ginocchi che battono al suolo, perché Ella si inginocchia col capo contro la tavola su cui sono gli oggetti della Passione, non sentono altro che il suo pianto senza soste e conforto. Ella mormora, ma così piano che quelli di fuori non possono udire: «Padre, Padre, perdono! Divento superba e cattiva. Ma Tu lo vedi. E’ vero ciò che dico. Erano turbe intorno a Lui. E tutta la Palestina è, in queste feste, fra le mura sante... Sante? No. Non più sante... Tali sarebbero rimaste se Egli fosse spirato in esse. Ma Gerusalemme l'ha espulso come il rigurgito che fa nausea. Perciò in Gerusalemme è solo il Delitto... Ebbene, di tutto questo popolo che lo seguiva non se ne poté radunare un pugno che si imponesse, non dico per salvarlo. Doveva morire per redimere. Ma per farlo morire senza tante torture. Sono stati nell'ombra, oppure sono fuggiti... Il mio cuore si rivolta davanti a tanta viltà. Sono la Madre. Per questo perdona al mio peccato di durezza superba...», e piange... Fuori gli altri sono sulle spine e per molti motivi. Rientra il padrone di casa, che era uscito a curiosare, e porta notizie tremende. Si dice che molti sono morti nel terremoto, molti sono stati feriti in colluttazioni fra seguaci del Nazzareno e i giudei, che molti sono stati arrestati e vi saranno nuove esecuzioni per rivolte e minacce a Roma, che Pilato ha ordinato l'arresto di tutti i seguaci del Nazareno e dei capi del Sinedrio presenti in città o anche già fuggiti per la Palestina, che Giovanna è morente nel suo palazzo, che Mannaen è stato arrestato da Erode per averlo insolentito in piena Corte come complice del deicidio. Insomma un mucchio di notizie catastrofiche... Le donne gemono. Non tanto per paura di esse stesse, ma quanto per i loro figli e mariti. Susanna pensa allo sposo, noto fra i seguaci di Gesù in Galilea. Maria di Zebedeo pensa al marito, ospite presso un amico, e al figlio Giacomo di cui, dalla sera avanti, non ha notizia. E Marta singhiozza: «Saranno già andati a Betania! Chi non sapeva chi era Lazzaro per il Maestro?». «Ma è protetto da Roma, lui», rimbecca Maria Salome. «Oh! protetto! Chissà, con l'odio che per noi hanno i capi d'Israele, che accuse portano contro di lui a Pilato... Oh! Dio!». Marta si mette le mani fra i capelli e grida: «Le armi! Le armi! La casa ne è piena... e anche il palazzo! Lo so! Stamane, all'aurora, è venuto Levi, il guardiano, e mi ha detto... Ma già lo sai anche tu! E l'hai detto ai giudei sul Calvario... Stolta! Hai messo in mano ai crudeli l'arma per uccidere Lazzaro!...». «L'ho detto, si. Ho detto il vero senza saperlo. Ma taci, spaventata gallina! Quanto ho detto è la più sicura garanzia per Lazzaro. Si guarderanno bene dall'avventurarsi in ricerche dove sanno essere degli armati! Sono vigliacchi!». «I giudei sì. Ma i romani no». «Non temo Roma. É giusta e pacata nelle sue disposizioni». «Maria ha ragione», dice Giovanni. «Longino mi ha detto: "Spero sarete lasciati tranquilli. Ma, non lo foste, vieni, o manda al Pretorio. Pilato è benigno verso i seguaci del Nazareno. Lo era anche per Lui. Vi difenderemo"». «Ma se i giudei fanno da loro? Ieri sera erano loro i cattura-tori di Gesù! E, se dicono che noi siamo profanatori, hanno diritto di prenderci. Oh! i miei figli! Quattro ne ho! Dove saranno Giuseppe e Simone? Erano sul Calvario e poi sono scesi quando Giovanna non resse. Per aiutare e difendere le donne. Loro, i pastori, Alfeo... tutti! Oh! li avranno certo già uccisi. Senti che Giovanna è morente? Lo è certo per ferita. Ed essi, prima che potesse la plebe colpire una donna, l'avranno difesa e saranno morti... E Giuda e Giacomo? Il mio piccolo Giuda! Il mio tesoro! E Giacomo, dolce come una fanciulla! Oh, non ho più figli! Come la madre dei fanciulli Maccabei sono!... Piangono tutte disperatamente. Tutte meno la padrona di casa, che è andata a cercare un nascondiglio per il marito, e Maria Maddalena, che non piange. Ma getta fuoco dagli occhi, tornando la prepotente donna di un tempo. Non parla. Ma dardeggia le abbattute compagne, e il suo occhio le bolla di un epiteto molto chiaro: «Pusillanimi!». Passa del tempo così... Ogni tanto uno si alza, apre piano l'uscio, sbircia, torna a chiudere. «Che fa?», chiedono gli altri. E chi ha guardato risponde: «É sempre in ginocchio. Prega», oppure: «Pare che parli con qualcuno». E anche: «Si è alzata e gestisce andando su e giù per la stanza».

[senza data] Lamento della Vergine.
«Gesù! Gesù! Gesù! Dove sei? Mi senti ancora? La senti la tua povera Mamma che grida, adesso, il tuo Nome dopo averlo tenuto in cuore per tante ore? Il tuo Nome santo e benedetto, che è stato il mio amore, l'amore delle mie labbra che sentivano sapore di miele a dire il tuo Nome, delle mie labbra che ora, invece, a dirlo pare che bevano l'amaro che t'è rimasto sulle labbra, l'amaro dell'atroce mistura. Il tuo Nome, amore del mio cuore che si gonfiava di gioia quando lo diceva, così come si era dilatato per travasare il suo sangue e accoglierti e vestirti di esso quando sei sceso a me dal Cielo, così piccino, così minuscolo che avresti potuto posare nel calice della menta selvatica, Tu, tanto grande, Tu, il Potente, annichilito in un germe d'uomo per la salute del mondo. Il tuo Nome, dolore del mio cuore, ora che ti hanno strappato alle carezze della tua Mamma per gettarti fra le braccia dei carnefici, che ti hanno torturato sino a farti morire! Ne ho il cuore stritolato da questo tuo Nome, che ho dovuto chiudere dentro per tante ore e che cresceva il suo grido più cresceva il tuo dolore, fino a sbriciolarlo come cosa calpestata dal piede di un gigante. Oh! sì che il mio dolore è gigante e mi schiaccia, mi frantuma e non vi è nulla che lo possa sollevare. A chi lo dico il tuo Nome? Nulla risponde al mio grido. Anche se io urlassi sino a spezzare la pietra che chiude il tuo sepolcro, Tu non lo udresti, perché sei morto. Non la senti più la tua Mamma! Quante volte non ti ho chiamato, o Figlio, in questi trentaquattro anni! Da quando ho saputo che avrei dovuto esser Madre e che il mio Piccino si sarebbe chiamato "Gesù"! Tu non eri nato ed io, carezzandomi il seno dove Tu crescevi, chiamavo piano: "Gesù!", e mi pareva che Tu ti muovessi per dirmi: "Mamma!". Io ti davo già una voce. Me la sognavo già la tua voce. La udivo prima che fosse. E quando l'ho sentita, esile come quella di un agnellino appena nato, tremare nella notte fredda in cui sei nato, io ho conosciuto l'abisso della gioia... e credevo aver conosciuto l'abisso del dolore, perché era il pianto della mia Creatura che aveva freddo, che era in disagio, che piangeva il suo primo pianto di Redentore, ed io non avevo fuoco e cuna e non potevo soffrire in tua vece, Gesù. Non avevo che il seno per fuoco e guanciale, e il mio amore per adorarti, Figlio mio santo. Credevo aver conosciuto l'abisso del dolore... Era l'alba di quel dolore, era l'orlo di quel dolore. Ora è il meriggio, ora è il fondo. Questo è l'abisso, questo che tocco ora dopo esservi scesa in questi trentaquattro anni, sospinta da tante cose e prostrata nel fondo orrendo, oggi, della tua croce. Quando eri piccino, io ti cullavo cantando: "Gesù! Gesù!". Quale armonia più bella e santa di questo Nome, che fa sorridere gli angeli in Cielo? Esso per me era più bello del canto così dolce degli angeli nella notte del tuo Natale. Vi vedevo dentro il Cielo, tutto il Cielo vedevo attraverso quel Nome. Ed ora, a dirlo a Te che sei morto e non mi senti e non rispondi, come Tu non fossi mai stato, io vedo l'Inferno, tutto l'Inferno. Ecco, ora capisco cosa vuol dire esser dannati. É non potere più dire: "Gesù". Orrore! Orrore! Orrore!... Quanto durerà questo inferno per la tua Mamma? Tu hai detto: "In capo a tre giorni Io riedificherò questo Tempio". È tutt'oggi che mi ripeto queste tue parole per non cadere uccisa, per esser pronta a salutarti al tuo ritorno, a servirti ancora... Ma come potrò saperti morto per tre giorni? Tre giorni nella morte Tu, Tu, Vita mia? Ma come? Tu che tutto sai, poiché sei la Sapienza infinita, non lo sai lo spasimo della tua Mamma? Non te lo puoi figurare ricordando quando ti ho smarrito a Gerusalemme e Tu mi hai visto fendere la folla, che ti stava intorno, con il volto di una naufraga che tocca il lido dopo tanta lotta con l'onde e la morte, col viso di una che esce da una tortura spossata, svenata, invecchiata, spezzata? E allora ti potevo pensare unicamente smarrito. Potevo illudermi che era solo così. Oggi no. Oggi no. Lo so che sei morto. Non è possibile l'illusione. Ti ho visto uccidere. Ecco, anche se il dolore mi smemorasse, ecco qui il tuo Sangue sul mio velo che mi dice: "É morto! Non ha più sangue! Questo è l'ultimo, sgorgato dal suo Cuore!". Dal suo Cuore! Dal Cuore del mio Bambino! Del Figlio mio! Del mio Gesù! Oh! Dio, Dio pietoso, non mi far ricordare che gli hanno spaccato il Cuore! Gesù! Non posso stare qui, sola, mentre Tu sei là, solo. Io che non ho amato mai le vie del mondo e le folle, e Tu lo sai, da quando Tu hai lasciato Nazareth ti sono venuta sempre più sovente dietro, per non vivere lontano da Te. Non potevo vivere lontana da Te. Ho affrontato curiosità e schemi, non conto le fatiche perché esse si annullavano nel vederti, pur di vivere dove Tu eri. Ed ora io son qua sola. E Tu sei là solo! Perché non mi hanno lasciata nel tuo sepolcro? Mi sarei seduta presso il tuo gelido letto, tenendoti una mano nelle mie per farti sentire che t'ero vicina... No, per sentire che m’eri vicino. Tu non senti più nulla. Sei morto! Quante volte ho passato le notti presso la tua cuna, pregando, amando, beandomi di Te! Vuoi che ti dica come dormivi, coi pugnetti chiusi come due bocci di fiore presso il visino santo? Vuoi che ti dica come sorridevi nel sonno e, ricordandoti certo del latte della Mamma, dormendo facevi l'atto di succhiare? Vuoi che ti dica come ti svegliavi e aprivi gli occhietti e ridevi, vedendomi curva sul tuo viso, e tendevi le manine con gioia impaziente per esser preso, e con uno stridetto dolce come il trillo di un capinero reclamavi il tuo cibo? Ah! che ero beata quando ti attaccavi al mio seno e sentivo il tepore liscio della tua gota, la carezza delle tue manine sulla mia mammella! Non sapevi stare senza la tua Mamma. E ora sei solo! Perdonami, Figlio, d'averti lasciato solo. Di non essermi ribellata per la prima volta nella vita e di aver voluto restare là. Era il mio posto. Mi sarei sentita meno desolata se fossi stata presso il tuo funebre letto, ad accomodarti le fasce come un tempo, a mutarle... Anche se Tu non avessi potuto sorridermi e parlarmi, a me sarebbe parso di averti di nuovo piccino. Ti avrei accolto sul cuore per non farti sentire il freddo della pietra, il duro del marmo. Non ti ho tenuto anche oggi? Il grembo di una madre è sempre capace di accogliere il figlio, anche se è uomo. Il figlio è sempre un bambino per la sua mamma, anche se è un deposto di croce, coperto di piaghe e ferite. Quante! quante ferite! Quanto dolore! Oh! il mio Gesù, il mio Gesù tanto ferito! Così ferito! Così ucciso! No. No. Signore, no! Non può esser vero! Io sono pazza! Gesù morto? Io deliro. Gesù non può morire! Soffrire, si. Morire, no. Egli è la Vita! Egli è Figlio di Dio. É Dio. Dio non muore. Non muore? E allora perché si è chiamato Gesù? Che vuol dire "Gesù"? Vuol dire... oh! vuol dire: "Salvatore"! É morto! É morto perché è il Salvatore! Ha dovuto salvare tutti perdendo Se stesso... Non deliro. No. Non sono pazza. No. Lo fossi! Soffrirei meno! Egli è morto. Ecco il suo Sangue. Ecco la sua corona. Ecco i tre chiodi. Con questi, con questi me lo hanno trafitto! Uomini, guardate con che avete trafitto Dio, il Figlio mio! E vi devo perdonare. E vi devo amare. Perché Egli vi ha perdonati. Perché Egli mi ha detto di amarvi! Mi ha fatto Madre vostra, Madre degli assassini della mia Creatura! Una delle sue ultime parole, lottando contro il rantolo dell'agonia... "Madre, ecco tuo figlio... i tuoi figli!". Anche non fossi Colei che ubbidisce, avrei dovuto ubbidire oggi, perché era il comando di un morente. Ecco. Ecco, Gesù. Io perdono. Io li amo. Ah! mi si spezza il cuore in questo perdono e in questo amore! Mi senti che li perdono e che li amo? Prego per loro. Ecco, prego per loro... Chiudo gli occhi per non vedere questi oggetti della tua tortura, per poterli perdonare, per poterli amare, per poter pregare per loro. Ogni chiodo serve a crocifiggere una mia volontà di non perdonare, di non amare, di non pregare per i tuoi carnefici. Devo, voglio pensare di essere presso la tua cuna. Pregavo anche allora per gli uomini. Ma allora era facile. Tu eri vivo ed io, per quanto pensassi crudeli gli uomini, non giungevo mai a pensare che potessero esserlo tanto con Te, che li avevi beneficati oltre misura. Pregavo, convinta che la tua parola li avrebbe fatti più buoni. In cuor mio dicevo loro, guardandoli: "Siete cattivi, malati, ora, fratelli. Ma fra poco Egli parlerà, ma fra poco Egli vincerà in voi Satana. Vi darà la Vita perduta!". La vita perduta! Tu, Tu, Tu l'hai perduta la vita per loro, Gesù mio! Se, quando eri nelle fasce, io avessi potuto vedere l'orrore di questo giorno, il mio dolce latte si sarebbe mutato in tossico per il dolore! Simeone l'ha detto: "E una spada ti trapasserà il cuore". Una spada? Una selva di spade! Quante ferite ti hanno fatto, Figlio? Quanti gemiti hai avuto? Quanti spasimi? Quante gocce di sangue hai versato? Ebbene, ognuna è una spada in me. Sono una selva di spade. In Te non c'è lembo di pelle che non sia piagato. In me non ce ne è che non sia trafitto. Mi trapassano le carni e penetrano nel cuore. Quando attendevo la tua nascita, ti preparavo le fasce ed i pannilini filando il lino più morbido della terra. Non ho guardato al prezzo per poter possedere lo stame più liscio. Come eri bello nelle fasce della tua Mamma! Tutti mi dicevano: "É bello il tuo Bambino, Donna!". Eri bello! Dal bianco del lino sporgeva la tua rosea faccina, avevi due occhietti più azzurri del cielo e la testolina pareva avvolta in una nebbia d'oro, tanto i tuoi capellini erano biondi e soffici. Sapevano di fior di mandorlo appena sbocciato. Credevano che io ti profumassi. No. Il mio Tesoro non aveva che il profumo delle fasce lavate dalla sua Mamma, scaldate, baciate dal suo cuore e dal suo labbro. Non ero mai stanca di lavorare per Te... E ora? Ora non ho più nulla da fare per Te. Da tre anni eri lontano da casa. Ma eri ancora lo scopo dei miei giorni. Pensare a Te. Alle tue vesti. Al tuo cibo: intridere la farina e farne pane, curare le api per darti il miele, vegliare sulle piante perché ti dessero frutta. Come le amavi, le cose che ti portava la tua Mamma! Nessun cibo di ricca mensa, nessuna veste di preziosa stoffa t'erano come queste tessute, cucite, curate, colte dalle mani della tua Mamma. Quando ti raggiungevo, Tu mi guardavi subito le mani, come quando eri piccino ed io e Giuseppe ti davamo i poveri doni per farti sentire che eri il "nostro" Re. Non sei mai stato goloso, Bambino mio; ma era l'amore che cercavi, era questo il tuo cibo, e nelle nostre premure trovavi quello. Anche ora trovavi, cercavi quello, povero Figlio mio così poco amato dal mondo! Ora più nulla. Tutto è compiuto. Non farà più nulla per Te la tua Mamma. Non hai più bisogno di nulla. Ora sei solo... ed io son sola... Oh! felice Giuseppe che non si è trovato a questo giorno! Io pure non ci fossi più stata! Ma allora Tu non avresti avuto neppure questo conforto di vedere la tua povera Mamma. Saresti stato solo sulla croce come sei solo nel sepolcro. Solo con le tue ferite. Oh! Dio! Dio, quante ferite ha il Figlio tuo, il Figlio mio! Come le ho potute vedere senza morire, io che tramortivo quando da piccino ti facevi male? Una volta sei caduto nell'orto di Nazareth e ti sei ferito la fronte. Poche gocce di sangue. Ma io, che m'ero sentita morire vedendo gocciare il tuo sangue nella circoncisione, e Giuseppe dovette sostenermi perché tremavo come una che muore, mi pareva che quella ferita minuscola t'avesse ad uccidere, e più col pianto che coll'acqua e coll'olio l'ho medicata, e non ho avuto bene se non quando non ha dato più sangue. Un'altra volta, imparavi a lavorare, ti feristi con la sega. Una piccola ferita. Ma era come se la sega mi avesse divisa nel mezzo. Non ho avuto requie che quando, sei giorni dopo, ho visto risanata la tua mano. Ed ora? Ed ora? Ora hai le mani, i piedi, il costato aperto, ora la tua carne cade a brandelli, ora hai la faccia contusa, quella faccia che io non osavo sfiorarti col bacio, e impiagata la fronte e la nuca. E nessuno ti ha dato medicamento e conforto. Guardami il cuore, o Dio che mi hai percossa nella mia Creatura! Guardalo! Non è piagato come il Corpo del Figlio tuo e mio? I flagelli sono scesi come grandine su me, mentre Egli era colpito. Che è la distanza per l'amore? Io ho patito la tortura di mio Figlio! L'avessi patita io sola! Fossi io sulla pietra sepolcrale! Guardami, o Dio! Non goccia sangue il mio cuore? Ecco il cerchio delle spine. Lo sento. É una fascia che me lo stringe e perfora. Ecco il foro dei chiodi: tre stili infissi nel cuore. Oh! quei colpi! quei colpi! Come non è crollato il Cielo per quei colpi sacrileghi nelle carni di Dio? E non poter urlare! Non poter lanciarmi e strappare l'arma agli assassini e farne difesa per la mia Creatura già morente. Ma doverli udire, udire... e non far nulla! Un colpo sul chiodo, e il chiodo entra nelle carni vive. Un altro colpo, ed entra più ancora. E un altro, e un altro, e si spezzano le ossa e i nervi, e viene trafitta la carne del mio Bambino e il cuore della sua Mamma! E quando ti hanno alzato sulla tua croce? Quanto devi aver sofferto, Figlio santo! Vedo ancora lacerarsi la tua mano nella scossa della caduta. Ho il cuore lacerato come essa. Sono contusa, flagellata, punta, colpita, trafitta come Te. Non ero con Te sulla croce. Ma guardala, la tua Mamma! É diversa da Te? No, non c’è differenza di martirio. Anzi, il tuo è finito. Il mio dura ancora. Tu non odi più le accuse bugiarde; io le sento. Tu non odi più le bestemmie orrende. Io le sento ancora. Tu non senti più il morso delle spine e dei chiodi e la sete e la febbre. Io sono piena di punte di fuoco e sono come chi muore di arsione e delirio. Almeno una goccia d'acqua mi avessero lasciato darti. Il mio pianto, se la ferocia degli uomini negava al Creatore l'acqua da Lui creata. Ti ho dato tanto latte, perché eravamo poveri, Figlio mio, e nella fuga in Egitto avevamo tanto perduto e avevamo dovuto rifarci un tetto, dei mobili e vesti e cibo, né sapevamo quanto l'esilio sarebbe durato, né cosa avremmo trovato tornando al paese. Ti ho dato il latte oltre il solito tempo, perché Tu non sentissi mancanza di cibo. Sinché non fu presa la capretta, la tua capretta fui io, Bambino della tua Mamma. Tu avevi già tanti dentini, e mordevi... Oh! gioia vederti ridere nel giuoco infantile! Tu volevi camminare. Eri tanto sano e forte. Io ti sorreggevo per ore e ore, e non sentivo spezzarsi le reni nello stare curva su Te, che facevi i tuoi passetti e dicevi ad ogni passo: "Mamma, Mamma!". Oh! beatitudine sentirti cantare quel nome! Lo dicevi anche oggi: "Mamma, Mamma!". Ma la tua Mamma non poteva che vederti morire! Neppure accarezzarti i piedi potevo! I piedi? Ah! non avrei potuto, anche se fossero stati alla portata della mia mano, toccarli, per non accrescerne il tormento. Come dovevano soffrire i tuoi poveri piedi, o mio Gesù! Fossi potuta salire a Te e mettermi fra il legno e il tuo Corpo, e impedire che nelle convulsioni dell'agonia Tu urtassi contro il legno! La sento ancora la tua testa battere nel legno negli ultimi sussulti. E quel suono, quel suono mi fa impazzire. L'ho nella testa... come un martello... Torna, torna, Figlio caro, Figlio adorato, Figlio santo! Io muoio. Non reggo a questa mia desolazione. Mostrami di nuovo il tuo volto. Chiamami ancora. Io non posso pensarti senza voce, senza sguardo, spoglia fredda e senza vita. Oh! Padre, soccorrimi Tu! Gesù non mi sente! Non è finita la Passione? Non è tutto compiuto? Non bastano questi chiodi, queste spine, questo sangue, questo mio pianto? Ancora dell'altro ci vuole per guarire l'uomo? Padre, ti nomino gli strumenti del suo dolore ed il mio pianto. Ma questo è il meno. Quello che lo ha fatto morire sovrumanamente straziato è stato il tuo abbandono. Quello che mi fa urlare è il tuo abbandono. Non ti sento più! Dove sei, Padre santo? Ero la Piena di Grazia. L'Angelo l'ha detto: "Ave, Maria, piena di Grazia, il Signore è con te e tu sei benedetta fra tutte le donne". No. Non è vero! Non è vero! Io sono come una maledetta da Te per il suo peccato. Tu non sei più con me. La Grazia si è ritirata come se io fossi una seconda Eva peccatrice. Ma io ti sono sempre stata fedele. In che t'ho dispiaciuto? Hai fatto di me ciò che t'è parso, e ti ho sempre detto: "Si, Padre. Son pronta". Possono dunque mentire gli angeli? E Anna, che m'ha assicurato che Tu mi avresti dato il tuo angelo nell'ora del dolore? Sono sola. Non ho più grazia agli occhi tuoi, non ho più Te, Grazia, in me. Non ho più angelo. Mentono dunque i santi? In che ti ho dispiaciuto, se essi non mentono ed io ho meritato quest'ora? E Gesù? In che ha mancato il tuo Agnello puro e mansueto? In che ti abbiamo offeso che, oltre al martirio dato dagli uomini, si debba avere la tortura incalcolabile del tuo abbandono? Lui, Lui poi, che t'era Figlio e che ti chiamava con quella voce che ha fatto rabbrividire la Terra e scuotersi in un singulto di pietà. Come hai potuto lasciarlo solo in tanto tormento? Povero Cuore di Gesù che ti amava tanto! Dove è il segno della ferita del Cuore? Eccolo. Guarda, Padre, questo segno. Qui è l'impronta della mia mano penetrata nello squarcio della lanciata. Qui... qui... Non pianto, non bacio della sua Mamma, che ha arsi gli occhi e consumate le labbra per il piangere e il baciare, lo cancellano. Questo segno grida e rimprovera. Questo segno, più del sangue di Abele, grida a Te dalla Terra. E Tu, che hai maledetto Caino e ne hai fatto le vendette, non sei intervenuto per il mio Abele, già svenato dai suoi Caini, ed hai permesso l'ultimo spregio! Tu gli hai stritolato il Cuore col tuo abbandono e hai lasciato che un uomo lo mettesse a nudo, perché io lo vedessi e ne fossi stritolata. Ma di me non importa. É di Lui, di Lui che ti chiedo e ti chiamo a rispondere. Non dovevi... Oh! perdono! Perdono, Padre santo! Perdona ad una Madre che piange la sua Creatura... É morto! É morto il Figlio mio! Morto col Cuore squarciato! Oh! Padre! Padre, pietà! Io ti amo! Noi ti abbiamo amato e Tu ci hai tanto amati. Come hai permesso che fosse ferito il Cuore del nostro Figlio? Oh! Padre!... Padre, pietà di una povera donna! Io bestemmio, Padre! Io serva tua, tuo nulla, oso rimproverarti! Pietà! Sei stato buono. Sei stato buono. La ferita, l'unica ferita che non gli ha fatto male, è questa. Il tuo abbandono ha servito a farlo morire avanti al tramonto per evitargli altre torture. Sei stato buono. Tutto fai con fine di bontà. Siamo noi creature che non comprendiamo. Sei stato buono. Buono sei stato! Dilla, anima mia, questa parola, per levare il mordente del tuo soffrire al tuo soffrire. Dio è buono e ti ha sempre amata, anima mia. Dalla cuna a quest'ora ti ha sempre amata. Ti ha dato tutta la gioia del Tempo. Tutta. Ti ha dato Lui stesso. É stato buono. Buono. Buono. Grazie, Signore. Che Tu sia benedetto per la tua infinita bontà! Grazie. Gesù, dico "grazie" anche per Te. Questa almeno non l'hai sentita, Figlio mio! Io sola l'ho sentita nel mio, quando ho visto il tuo Cuore aperto. Ora è nel mio la tua lancia, e fruga, e strazia. Ma meglio così! Tu non la senti. Ma Gesù, pietà! Un segno da Te! Una carezza, una parola per la tua povera Mamma dal cuore straziato! Un segno, un segno, Gesù, se mi vuoi trovare viva al tuo ritorno!».

[29 marzo 1945]
Un picchio risoluto all'uscio fa sobbalzare tutti. Il padrone di casa fugge coraggiosamente. Maria di Zebedeo vorrebbe che il suo Giovanni lo seguisse e lo spinge verso il cortile. Le altre, meno la Maddalena, si stringono l'una coll'altra gemendo. É Maria di Magdala che va dritta e forte all'uscio e chiede: «Chi bussa?». Una voce di donna risponde: «Sono Niche. Ho una cosa da dare alla Madre. Aprite! Presto. La ronda è in giro». Giovanni, che si è svincolato dalla madre ed è corso presso la Maddalena, lavora intorno ai molteplici serrami, tutti ben assicurati questa sera. Apre. Entra Niche con la servente ed un uomo nerboruto che le scorta. Chiudono. «Ho una cosa...», e piange Niche e non può parlare... «Che? Che?». Le sono tutti addosso, curiosi. «Sul Calvario... Ho visto il Salvatore in quello stato... Avevo preparato il velo lombare perché non usasse i cenci dei boia... Ma era tanto sudato, col sangue negli occhi, che ho pensato darglielo perché si asciugasse. Ed Egli lo ha fatto... E mi ha reso il velo. Io non l'ho usato più... Volevo tenerlo per reliquia col suo sudore e il suo sangue. E vedendo l'accanimento dei giudei, dopo poco, con Plautina e le altre romane Lidia e Valeria, insieme, abbiamo deciso di tornare indietro. Per paura che ci levassero questo lino. Le romane son donne virili. Ci hanno messe nel mezzo, io e la servente, e ci hanno protette. É vero che sono contaminazione per Israele... e che toccare Plautina è pericolo. Ma ciò si pensa in tempi di calma. Oggi erano tutti ubbriachi... A casa ho pianto... per ore... Poi è venuto il terremoto e sono svenuta... Rinvenuta, ho voluto baciare quel lino e ho visto... oh!... Vi è sopra la faccia del Redentore!... «Fa' vedere! Fa' vedere!». «No. Prima alla Madre. É il suo diritto». «É tanto sfinita! Non resisterà...» «Oh! non lo dite! Le sarà di conforto, invece. Avvertitela!». Giovanni bussa piano all'uscio. «Chi è?». «Io, Madre. Fuori è Niche... É venuta nella notte... Ti ha portato un ricordo... un dono... Spera darti conforto con quello». «Oh! un solo dono mi può confortare! Il sorriso del suo Volto...» «Madre!». Giovanni l'abbraccia per tema che cada e dice, come confidasse il Nome vero di Dio: «Quello è. Il sorriso del suo Volto, impresso nel lino con cui Niche lo ha asciugato sul Calvario». «Oh! Padre! Dio altissimo! Figlio santo! Eterno Amore! Siate benedetti! Il segno! Il segno che vi ho chiesto! Fàlla, fàlla entrare!». Maria si siede perché non si regge più e, mentre Giovanni fa cenno alle donne, che occhieggiano, che Niche passi, Ella si ricompone. Niche entra e si inginocchia ai suoi piedi con la servente accanto. Giovanni, ritto in piedi, presso Maria, le tiene il braccio dietro le spalle come per sorreggerla. Niche non dice una parola. Ma apre il cofano, estrae il lino, lo spiega. E il Volto di Gesù, il Volto vivo di Gesù, il doloroso e pur sorridente Volto di Gesù, guarda la Madre e le sorride. Maria ha un grido di amore doloroso e tende le braccia. Le donne le fanno eco dal vano dell'uscio dove si affollano. E la imitano nell'inginocchiarsi davanti al Volto del Salvatore. Niche non trova una parola. Passa il lino dalle sue alle mani materne e si curva poi a baciarne il lembo. E poi esce a ritroso, senza attendere che Maria rinvenga dalla sua estasi. Se ne va... É già fuori, nella notte, quando pensano a lei... Non resta che chiudere il portone come era prima. Maria è di nuovo sola. In un colloquio d’anima con l'effigie del Figlio, perché tutti si ritirano di nuovo. Altro tempo passa. Poi Marta dice: «Come faremo per gli unguenti? Domani è sabato...». «E non potremo prendere nulla...», dice Salome. «E bisognerebbe farlo... Molte libbre di abe e mirra... ma era così mal lavato...». «Bisognerebbe avere pronto tutto per l'aurora del primo giorno dopo il sabato», osserva Maria d'Alfeo. «E le guardie? Come faremo?», chiede Susanna. «Lo diremo a Giuseppe, se non ci lasciano entrare», risponde Marta. «Non potremo da noi spostare la pietra». Risponde la Maddalena: «Oh! in cinque dici che non potremo? Siamo robuste tutte... e l'amore fa il resto». «E poi verrò io con voi», dice Giovanni. «Tu no proprio. Non voglio perdere anche te, figlio». «Ma non ci pensare. Basteremo noi». «Ma intanto... Chi ci dà gli aromi?». Restano tutte accasciate... Poi Marta dice: «Potevamo chiedere a Niche se era vero di Giovanna... delle sommosse...». «É vero! Ma ebeti siamo. Potevamo allora prendere anche gli aromi. Isacco era sul suo uscio quando tornammo...». «In palazzo sono molti vasetti d'essenze, e c’è incenso fino. Vado a prenderli». E Maria Maddalena si alza dal suo posto e si mette il manto. Marta grida: «Tu non andrai». «Io andrò». «Sei folle! Ti prenderanno!» «Tua sorella ha ragione. Non andare!». «Oh! che inutili e urlanti femmine che siete! Invero che Gesù aveva una bella schiera di seguaci! Avete già esaurito la vostra riserva di coraggio? A me, invece, più ne uso e più me ne viene». «Andrò io con lei. Sono un uomo». «E io sono tua madre e te lo proibisco». «Sta' buona, Maria Salome, e sta' buono, Giovanni. Vado sola. Non ho paura. So cosa è girare di notte per le vie. L'ho fatto mille volte per il peccato... e dovrei temere ora che vado per servire il Figlio di Dio?». «Ma oggi la città è in rivolta. Hai sentito l'uomo». un coniglio. E voi con lui. Io vado». «E se ti trovano i soldati?». «Dirò: "Sono la figlia di Teofilo, siro, servo fedele di Cesare. E mi lasceranno andare. E poi... L'uomo davanti ad una donna giovane e bella è un trastullo più innocuo di un filo di paglia. Lo so, per mia vergogna...». «Ma dove vuoi trovare profumi in palazzo se esso è disabitato da anni?». «Lo credi? Oh! Marta! Non ricordi che Israele vi obbligò a lasciarlo perché era uno dei miei luoghi di ritrovo con gli amanti? In esso io avevo tutto quanto serviva a farli più folli ancora di me. Quando fui salvata dal mio Salvatore, io ho nascosto, in un luogo noto a me sola, gli alabastri e gli incensi che usavo per le mie orge d'amore. Ed ho giurato che unicamente il pianto sul mio peccato e l'adorazione di Gesù santissimo sarebbero state le acque profumate e gli ardenti incensi di Maria pentita. E di quei segni di un culto profano del senso e della carne ne avrei solo usato per santificarli su Lui e dargli unzione. Ora è l'ora. Vado. Restate. E tranquille. Con me viene l'angelo di Dio e nulla di male mi accadrà. Addio. Vi porterò notizie. E a Lei non dite nulla... Le aumentereste l'affanno...». E Maria di Magdala esce sicura, imponente. «Madre, questo ti insegni... E ti dica: "Non fare che il mondo dica che tuo figlio è un vile". Domani, anzi oggi, perché già è data la seconda vigilia, io andrò cercando i compagni, come Ella vuole...». «É sabato... non puoi...», obbietta Salome per trattenerlo. «"Il sabato è morto", dico io pure con Giuseppe. L'èra nuova è iniziata. Altre leggi, altri sacrifici e cerimonie in essa». Maria Salome china la testa sui ginocchi e piange senza più protestare. «Oh! poter sapere di Lazzaro!», geme Maria di Cleofa. «Se mi lasciate andare lo saprete. Perché i compagni, Simone Cananeo ne ha avuto l'ordine, sono stati condotti, da lui, da Lazzaro. Gesù lo disse, me presente, a Simone». «Ohimé! Tutti là? Allora tutti perduti!». Maria Cleofa e Salome piangono desolate. Passa altro tempo fra pianti e attese. Poi torna Maria Maddalena. Trionfante, carica di borse piene di vasetti preziosi. «Vedete che nulla è accaduto? Ecco qui: oli di ogni genere, e nardo, e olibano, e benzoino. Non c'è la mirra e l'abe... Non volevo amarezze io... Le bevo tutte ora... Ma intanto intrideremo queste, e domani prenderemo... oh! pagando, Isacco darà anche di sabato... Prenderemo mirra e abe». «Ti hanno vista?». «Nessuno. Non c'è in giro neppure un pipistrello». «I soldati?». «I soldati? Io credo che russino nei loro giacigli». «Ma le sedizioni... gli arresti...». «Li ha visti la paura di quell'uomo...». «Chi è nel palazzo?». «Ma Levi e la moglie. Tranquilli come pargoli. Gli armati sono fuggiti... ah! ah! bei prodi abbiamo, per mia fede!... Sono fuggiti appena seppero della condanna. Dico il vero: Roma è dura e usa il flagello... Ma con questo si fa temere e servire. Ed ha uomini, non conigli... Oh! sì! Egli diceva: "I miei seguaci conosceranno la mia stessa sorte". Umh! Se molti romani diverranno di Gesù, ciò può essere. Ma se deve avere martiri fra gli israeliti! Resterà solo... Ecco. Questo è il mio sacco. E questo è di Giovanna, che... Si. Non solo vili, ma mentitori siamo. Giovanna non è che accasciata. Lei ed Elisa si sono sentite male sul Golgota. Una è una madre che ebbe morto il figlio, e sentire i rantoli di Gesù la fecero stare male. L'altra è delicata, non usa a tanto cammino e a tanto sole. Ma niente ferite, niente agonie. Piange, come noi, certo. Non di più. Si rammarica di essere stata condotta via. Domani verrà. E manda questi aromi. Quelli che aveva. Con lei era rimasta Valeria, per ordine di Plautina, ed ora se ne è andata con gli schiavi alla casa di Claudia, perché loro hanno molti incensi. Quando verrà, perché anche lei, per grazia del Cielo, non è una lepre sempre tremante, non mettetevi ad urlare come sentiste il gladio alla gola. Su. Alzatevi. Prendiamo dei mortai. Lavoriamo. Piangere non giova. O, almeno, piangete e lavorate. Sarà stemperato col pianto il nostro balsamo. Ed Egli lo sentirà su di Lui... Sentirà l'amore nostro». E si morde le labbra, per non piangere e per dare forza alle altre, veramente disfatte. Lavorano con lena. Maria chiama Giovanni. «Madre, che hai?». «Questi colpi...». «Tritano gli incensi...». «Ah!... Ma... perdonate... Non fate quel rumore... mi sembrano i martelli...». Infatti i pestelli di bronzo contro il marmo dei mortai fanno proprio un rumore di martelli. Giovanni lo dice alle donne, e queste escono nel cortile per essere udite meno. Giovanni torna dalla Madre. «Come li hanno avuti?». «É andata Maria di Lazzaro. A casa sua, e da Giovanna... E anche altri ne verranno portati...». «Non è venuto nessuno?». «Nessuno dopo Niche». «Ma guardalo, Giovanni, come è bello anche in quel suo dolore!». Maria si assorbe a mani giunte contro il telo, che ha steso contro un cofano tenendolo fermo con dei pesi. «Bello, sì, Madre. E ti sorride... Non piangere più... Già qualche ora è passata. Meno da attendere il suo ritorno...», e intanto Giovanni piange... Maria lo accarezza sulla gota. Ma guarda solo l'effigie del Figlio. Giovanni esce, accecato dal pianto. Anche la Maddalena, che è tornata a prendere delle anfore, è nelle stesse condizioni. Ma dice all'apostolo: «Non bisogna farsi vedere piangere. Perché, se no, quelle là non sanno più fare nulla. E fare si deve...». «... e credere si deve», termina Giovanni. «Si. Credere. Se non si potesse credere, sarebbe la disperazione. Io credo. E tu?». «Io pure...». «Lo dici male. Non ami ancora abbastanza. Se amassi con tutto te stesso, non potresti non credere. L'amore è luce e voce. Anche contro le tenebre della negazione e il silenzio della morte dice: "Io credo"». É splendida la Maddalena, così alta e imponente, imperiosa nella sua confessione di fede! Deve avere il cuore torturato. E i suoi occhi bruciati di pianto lo dicono. Ma l'animo è invitto. Giovanni la guarda ammirato e mormora: «Tu sei forte!». «Sempre. Lo fui tanto che seppi sfidare il mondo. Ed ero senza Dio, allora. Ora che ho Lui, sento di sapere sfidare anche l'inferno. Tu, che sei buono, non dovresti essere che più forte di me. Perché la colpa deprime, sai? Più di una consunzione. Ma tu sei innocente... Per questo ti amava tanto...». «Anche te amava...». «E io non ero innocente. Ma ero la sua conquista e...». Bussano al portone con forza. «Sarà Valeria. Apri». Giovanni lo fa senza paura, dominato dalla calma di Maria. É infatti Valeria coi suoi schiavi, che portano la lettiga da cui ella è scesa. Entra salutando latinamente: «Salve». «La pace sia con te, sorella. Entra», dice Giovanni. «Posso offrire alla Madre l'omaggio di Plautina? Anche Claudia ha contribuito. Ma se non è dolore per Lei il vedermi». Giovanni entra da Maria. «Chi bussa? Pietro? Giuda? Giuseppe?». «No. É Valeria. Ha portato resine preziose. Te le vorrebbe offrire... se non ti dà pena». «Devo superare la pena. Egli ha chiamato al suo Regno i figli d'Israele e i pagani. Tutti ha chiamato. Ora... è morto... Ma io sono qui per Lui. E tutti ricevo. Entri». Valeria entra. Si è levato il mantello oscuro ed è tutta bianca nella sua stola. Si inchina fino a terra. Saluta e parla. «Domina. Tu lo sai chi siamo. Le prime redente dall'oscurantismo pagano. Fango e tenebre eravamo. Tuo Figlio ci ha dato alla e luce. Ora è... è addormentato in pace. Sappiamo i vostri usi. E vogliamo che anche i balsami di Roma siano sparsi sul Trionfatore». «Dio vi benedica, figlie del mio Signore. E... perdonate se non so dire di più...». «Non ti sforzare, Domina. Roma è forte. Ma sa anche comprendere il dolore e l'amore. Ti capisce, Madre Dolorosa. Addio». «La pace sia con te, Valeria! A Plautina, a voi tutte, la mia benedizione». Valeria si ritira, lasciando i suoi incensi e altre essenze. «Lo vedi, Madre? Tutto il mondo dà per il Re del Cielo e della Terra». «Sì», dice Maria. «Tutto il mondo. E la Madre non avrà potuto dargli che il pianto». Un gallo canta allegro in qualche posto vicino. Giovanni sussulta. «Che hai, Giovanni?», chiede la Vergine. «Pensavo a Simon Pietro...». «Ma non era con te?», chiede la Maddalena che è rientrata nella stanza. «Si. In casa di Anna. Poi ho capito che dovevo venire qui. E non l'ho mai più visto». «Fra poco è l'alba». «Si. Aprite». Aprono le impannate, e i volti sembrano ancor più terrei nella luce verdolina dell'alba. La notte del Venerdì Santo è finita.