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66 – PADRE AMANTE E DIO DI MAESTÀ INFINITA


In questa afflittiva situazione si trattenne il mio spirito per lo spazio di otto giorni, vale a dire dal 4 fino all’11 del detto mese di luglio 1822. La mattina del dì 13 nella santa Comunione, per mezzo di un raggio di luce, Dio per sua bontà si fece ritrovare dalla povera anima mia, e come potrò io spiegare i santi affetti dell’anima verso il suo Dio? Questa si trattenne qualche tempo con il suo Dio, quale affettuosa fanciulla, che ritrova il caro padre suo, a braccia aperte gli andò incontro, e con molte lacrime di tenerezza e di amore si prostrò genuflessa ai suoi piedi santissimi, ringraziandolo che si era fatto ritrovare, lo adorai quale Dio di maestà, lo venerai qual padre amante, con lui sfogai gli amorosi affetti del mio cuore, mi trattenevo con lui qual tenera figlia che si compiace nel caro padre suo, e il mio Dio con me si tratteneva con tanto trasporto d’amore, che io non lo posso spiegare; passò dunque l’anima mia in santi colloqui con il caro padre suo, questo si faceva con una purità e semplicità di spirito, che io non lo saprei spiegare.

Passai poi tutta la giornata in santo raccoglimento, la sera prima di andare a riposare mi trattenevo nel mio oratorio, in orazioni, secondo il mio solito, intesi ad un tratto intimamente chiamarmi dal mio Dio, in un modo molto particolare, che io non so spiegare, va l’anima rapidamente a questo tocco interno di Dio, che la obbligò, che la necessitò ad andare dove lui la chiamava; restò intanto il mio spirito estatico, e non sapeva il perché, solo sapeva di stare con il suo Dio.

Molto volentieri sarei restata in orazione tutta la notte, ma non avendo il permesso dal mio padre spirituale non volli arbitrarmi di restare tutta la notte, come ancora per avere le forze molto deboli. Dopo essermi un poco trattenuta, andai a riposare, senza però perdere la divina impressione, io non so dire se il mio riposo naturale, sonno potesse chiamarsi, mentre riposava il corpo, ma stava desto il mio cuore e nell’intimo dell’anima godevo un bene molto particolare.

La mattina mi destai, e non sapevo se in questo mondo ancora mi trovavo, tanto era grande il raccoglimento interno e la pace del cuore, che ancora conservavo. L’amore non mi faceva capire dove mi trovavo, se dentro o fuori dal corpo fosse ancora il mio spirito, procuravo di scuotermi e di destarmi, per quanto potevo, ma il mio spirito era tutto occupato nel rendere umili grazie al suo Dio; ma io non sapevo il perché.

In questo tempo intesi una melodia di armoniche voci, che più che mai sopivano il mio cuore, così sentivo cantare da voci dolci e amabili, ma io il giusto senso non sapevo interpretare.

Ecco le loro parole: Os iusti meditabitur sapientiam et lingua eius loquetur iudicium, lex Dei eius in corde ipsius: et non supplantabuntur gressus eius.

Da questi armonici canti mi avvidi di avere, in quella santa notte, ricevuto grazie da Dio, io sapevo di avere goduto un grande bene nell’anima, ma non sapevo qual fosse la grazia che mi aveva compartita il mio Dio.

66.1. Prese particolare possesso dell’anima mia


La mattina, vale a dire il giorno 14 luglio 1822, nella santa Comunione, il Signore mi manifestò la grazia, il favore che mi aveva compartito ed era di avere preso un particolare possesso dell’anima mia. Ma siccome io sono in queste divine scienze ignorantissima, in luogo di consolarmi, non poco mi rattristai, volgendomi piena di lacrime a Gesù Cristo, che stringevo affettuosamente nel mio petto, per averlo ricevuto nella santissima Comunione, così gli dissi: «Ah Gesù mio, io non capisco come va questa cosa, io fino dai primi momenti che mi donai tutta a voi, per mezzo della vostra santa grazia, vi donai tutta me stessa e vi feci assoluto padrone dell’anima mia, vi donai la mia volontà, la mia libertà, il mio arbitrio e tutto quanto sono, nell’anima e nel corpo; e questa offerta, sono ormai più di venti anni che io l’ho fatta di tutto cuore, come dunque mi dite adesso che avete preso particolare possesso dell’anima mia? Gesù mio, che non ne siete stato finora il padrone? Questa cosa veramente mi affligge, ditemi, Gesù mio, per carità, non mi avete voi sempre posseduta? Eppure posso dire che in venti e più anni non è passato giorno che io questa offerta non l’abbia ratificata, mediante la vostra santa grazia».

Piangevo e mi affliggevo non poco, per non distinguere il giusto senso della grazia ricevuta; ma Gesù Cristo non volle vedermi così afflitta, prese a consolarmi e mi fece intendere che sempre mi aveva posseduta, ma che in quella notte si era, per sua bontà, compiaciuto in modo speciale nell’anima mia, per via d’intelligenza mi diede a conoscere cosa significava questo particolare e speciale possesso che si era compiaciuto di prendere nell’anima mia, sicché ricevuta questa cognizione, umilmente confessai la mia ignoranza, e dall’afflizione, il mio Dio mi fece passare ad una consolazione celestiale e divina, che mi fece umilmente ringraziare, lodare, benedire il Signore.

Presento questi fogli a vostra paternità reverendissima, acciò li esamini, la prego di osservare per minuto, se queste cose che seguono nell’intimo dell’anima mia, vi sia illusione o inganno del demonio, la prego per carità di manifestarmelo con ogni libertà, per quiete della povera anima mia, che tutta al suo savio parere e consiglio si affida.

Quando scrive per ubbidienza niente le è permesso di celare per umiltà. Sia lodata la Santissima Trinità, che tanto ama le sue immagini, santificate col prezioso sangue di Gesù Cristo. Sino al 14 luglio 1822 inclusive.

66.2. Dissapori con una figlia


Dal giorno 14 luglio 1822 fino al 31 detto. Ebbi molto a soffrire di pene interne ed esterne: interne per molte oscurità e aridità di spirito, esterne per diversi travagli e disgusti ricevuti da parenti, e da altre persone, che cercavano di sollevarmi una delle mie due figlie, col biasimare la mia condotta, facendole credere che il mio vivere ritirato dal mondo, era l’ostacolo al suo collocamento matrimoniale, dandole a credere ancora, che vi era chi l’aveva richiesta; ma, atteso il mio vivere ritirato, aveva ricusato di apparentarsi con me.

La semplicetta credette quanto le dissero, e molto se ne afflisse, per questo oggetto sentiva dello sdegno contro di me e della mia condotta, e non si avvedeva che questa era una larva del demonio, per mettere in discordia e in confusione la mia casa, e così da un paradiso di pace, divenisse una Babilonia di confusione; ma come piacque a Dio, la figliola mi manifestò quanto le avevano detto, come ancora il dissapore e lo sdegno che sentiva verso di me, per questo racconto che le avevano fatto i parenti, con molte lacrime la figliola mi narrò il tutto, chiedendomi umilmente perdono, mi disse che, per quanta resistenza faceva per discacciare questo pensiero, questo dissapore che sentiva contro di me, viepiù questo dissapore, questo sdegno la molestava contro sua voglia.

Il Signore mi fece la grazia di ascoltare tutto il suo ragionamento con molta tranquillità di spirito e serenità di volto, assicurandola che io sentivo una grande carità verso di lei, e non mi trovavo offesa punto dal suo racconto, mentre chiaramente conoscevo essere questa una forte tentazione del demonio alla quale lei doveva resistere; le dissi ancora molte altre cose che tranquillizzarono il suo spirito. Nonostante le suddette angustie, non mancò il mio Dio, per sua bontà, in questo tempo di consolarmi e compartirmi delle grazie, segnatamente a vantaggio delle anime sante del Purgatorio.

66.3. La vicenda del monaco certosino


Un fatto riporto, per obbedire al mio padre spirituale, che me ne ha fatto un assoluto comando. il racconto lo faccio per extensum, per essere questa l’obbedienza che mi ha imposto.

Il lodato mio padre in Gesù Cristo, nel mese di maggio del 1822 ricevette una lettera dalla Spagna, dove veniva informato da un amico che il suo fratello certosino si trovava malato di un’infermità di petto e che erano quattro mesi che guardava il letto, e per l’estrema debolezza non aveva potuto scrivere di proprio pugno, che il suddetto si era dato ad una profonda malinconia, non permettendogli le indebolite sue forze né di leggere, né di scrivere, né di recitare il divino ufficio, e che si trovava in una grande desolazione di spirito, temendo della sua eterna salute.

Il mio padre spirituale mi fece sentire la lettera, che gli aveva scritto l’amico del suo fratello certosino, mi disse di raccomandarlo al Signore, che se era in piacere della volontà di Dio l’avesse fatto guarire.

Il suddetto mio padre volle celebrare la santa Messa nel mio oratorio privato, per il suo fratello infermo, io unii al suo santo sacrificio la povera mia Comunione, il Signore, per sua bontà, mi fece intendere che il suddetto infermo sarebbe morto. Nel partire dalla mia casa, il mio padre spirituale tornò a dirmi che avessi pregato per il suo fratello, io gli risposi che non facesse speranza sopra la vita del suo fratello, perché il Signore mi pare se lo voglia portare in paradiso.

La notte del 28 maggio, vale a dire 25 giorni prima della morte del suddetto infermo, ecco cosa seguì nel mio spirito: stavo orando nel mio oratorio, poco dopo la mezzanotte, il mio spirito era tutto raccolto in Dio, godendo nell’intimo dell’anima un riposo, una quiete, una pace propria di paradiso, tutto ad un tratto mi parve di vedere da lungi il suddetto infermo, in una situazione molto afflittiva e dolente. Mosso il mio spirito dalla compassione, mi rivolgo al mio Dio, e con umile sentimento di carità lo prego di mandarmi a consolare, a confortare l’infermo.

Questa preghiera la feci con tanto fervore e fiducia, che il Signore, per sua bontà, mi accordò la grazia: «Va’», mi disse il mio Dio, «va’ qual messaggera di pace. A mio nome di’ al mio servo che presto sarà con me in paradiso, per segno di questa verità io gli donerò pace, tranquillità e unione perfetta al mio divino volere, e una certa speranza di godermi per tutta l’interminabile eternità».

Ricevuta l’ambasciata, in senso molto migliore di quello che io ho saputo scrivere, attesa la mia grande ignoranza, ad un tratto mi parve di trovarmi nella camera dell’infermo, si avvicinò il mio spirito al suo piccolo letto e fece l’ambasciata, per la quale lo spirito dell’infermo esultò in Dio, e pieno di gaudio celeste fece i suoi cordiali ringraziamenti all’Altissimo; quanto grandi fossero i suoi ringraziamenti verso il suo Dio, per avergli compartita la suddetta grazia, non mi è possibile poterlo ridire.

Con il mio spirito si mostrò molto grato, per avergli portato questa consolante nuova, mi promise di raccomandarmi alla Santissima Trinità.

Ritornata in me stessa, mi trovai tutta aspersa di lacrime, per la tenerezza di questo fatto, proseguii a lodare, benedire e ringraziare il Signore di tutto l’accaduto. La mattina seguente, riflettendo a quanto era seguito nel mio spirito la notte, disprezzai questo fatto, e non ebbi coraggio di manifestarlo al mio padre spirituale, prendendo questa cosa per una alterazione della mia fantasia; come ancora tacqui il suddetto fatto, per non affliggere il mio padre per la vicina morte del suo santo fratello.

Dissi fra me stessa: «con la lettera che riceverà, lo saprà». E difatti il mio padre mi scrisse un biglietto, dove mi diceva che aveva ricevuto la lettera che il suo fratello il 12 di giugno 1822 era passato all’eternità. La lettera lo notiziava che quindici giorni prima della sua morte aveva acquistato una pace, una tranquillità imperturbabile, ed erano terminate tutte le sue desolazioni ed afflizioni, rendendo il suo spirito a Dio nella pace del Signore, aveva fatto una morte da santo.

Il mio padre spirituale, ricevuta la lettera della morte del suo fratello, all’Ave Maria, mi scrisse un biglietto secco secco, senza accennarmi, né punto né poco, la santa morte che aveva fatto il suo fratello, mi scrisse solo tre righe che tali e quali qui trascrivo:

Il mio fratello certosino il 12 morì, se si trova in purgatorio e non sorte domani alla mia messa, sarete grandemente castigata. Dio vi benedica!

Proseguo il racconto. Letto il biglietto, subito mi ritirai nel mio oratorio, chiedendo lume al Signore, acciò mi avesse fatto conoscere lo stato di questo defunto. Il Signore, per sua bontà, mi fece intendere essere di già gloriosa la sua anima in cielo.

Fu tanto forte questo sentimento, che non potei per questa anima santa fare in quella notte il minimo suffragio, nonostante il mio spirito non restava appagato di questa sola notizia, tornai a pregare il Signore e così gli dissi: «Mio Dio, a me non basta questa sola notizia, per assicurarmi della verità».

Così intesi intimamente rispondermi: «Domani mattina, alla Messa del tuo padre spirituale, ne avrai tutta la sicurezza».

Mi porto dunque la mattina in chiesa, ad ascoltare la santa Messa del suddetto mio padre. Il Signore, per sua bontà, mi diede a vedere la gloria grande che godeva l’anima di questo suo servo, ma perché il grande splendore della sua gloria il mio spirito non poteva contenere, mi diede il mio Dio a vedere il solo albore del suo splendore.

Questo bastò per farmi provare una consolazione di spirito tanto grande, che non ho termini di poterlo esprimere: il suo splendore era assai più bello di quello che sia bello il sole nello spuntar nel bel mattino, assai più, e senza paragone più bello.

Oh come tutta si ricreò la povera anima mia per mezzo di questo bello splendore, la mia mente fu sollevata da celesti pensieri, la dolcezza e la soavità inondava il mio cuore e mi faceva lodare e benedire il mio Dio, ammirando l’infinita sua bontà.

Questo bene fu durevole in me per vari giorni, mentre quando mi ponevo in orazione, ricordevole dell’accaduto fatto, tornavo a godere un bene nell’anima molto grande, che mi univa al mio Dio.

66.4. La contemplazione della passione e morte di Gesù


Nel mese di settembre 1822, come già dissi nei precedenti fogli, il mio spirito fu chiamato da Dio a meditare, a contemplare la passione e morte di Gesù Cristo.

Molto si internò l’anima in questi dolorosi misteri, che più volte credetti di morire, mentre Dio, per sua infinita bontà, mi partecipava in parte le pene sofferte nella sua santissima umanità, come sarebbe l’angustia, l’affanno, la tristezza che provò il suo spirito santissimo nell’orto del Getsemani; il mio spirito nel compassionare le sue pene, per via di compassione ed intima unione, era chiamato da Dio a partecipare, a patire simili ambasce, simili pene, unite a certe cognizioni intellettuali e divine, che la povera anima mia era sollevata sopra se stessa e veniva inebriata di puro e santo amore.

Quanto fosse fruttuosa all’anima mia questa orazione, io non ho termini di poterlo spiegare, ma tanto era buona questa orazione per la salute dell’anima, tanto era pregiudizievole per la salute del corpo, mentre per gli interni ed esterni patimenti il mio corpo s’indebolì tanto nelle forze, che sono ridotta un cadavere in piedi, la continua occupazione che il mio spirito ha con il suo Dio mi fa odiare me stessa e la società, mentre l’occupazione interna mi impossibilita ogni sorta di conversazione e trattenimento sociale, benché lecito ed onesto; ma siccome io non mi ritrovo in un deserto e sono necessitata di conversare con il mio prossimo, questa per me è una grandissima pena, fuggo più che posso la compagnia altrui, altro non amo che la solitudine, per conversare con il mio Dio. La solitudine la chiamo «il mio paradiso in terra»; il mio spirito, quando si trova in compagnia, sta sempre in stato di violenza, a tal segno che ne soffre anche il corpo, che si leva tutto in un gelido sudore per la pena che patisce.

Il povero mio spirito non trova più alcuna soddisfazione terrena, solo trattare con il suo Dio gli piace, e in Dio e con Dio resta pienamente contento e soddisfatto.

Questo non deve recare meraviglia, mentre noi vediamo tutto giorno che gli amanti del secolo vanno perduti dietro ai loro amori e, se sono colpiti dal genio e dalla passione, si fanno servi, schiavi dell’oggetto che amano, dimenticando la loro stima, la loro reputazione, le ricchezze, gli onori, la roba, non trovando più in tutto questo la loro soddisfazione, altra consolazione non trovano che di stare con l’oggetto che amano, e se tanto può l’affetto terreno, qual meraviglia recherà a chi legge che la povera anima mia, colpita dal santo amore, sia perduta amante di un Dio che la creò? e con lo sborso del suo preziosissimo sangue la riscattò?

Ah, sì, tutto poco sarà. Benché potessi per amore del mio Dio milioni di volte sacrificare me stessa con i più acerbi tormenti, questo sarebbe onore per me e non corrispondenza, mentre conosco che, per quanto mai io potessi fare e patire, non potrò giammai corrispondere ai tanti benefici e all’infinito amore che porta Dio, per sua bontà, alla povera anima mia peccatrice.

Tutto questo che ho detto e sono per dire, valga solo per glorificare il mio amorosissimo Dio, e per sempre più confondere l’anima mia nel profondo della santa umiltà e nel basso concetto di me stessa; conoscendomi, per mezzo della grazia di Dio, di essere la creatura più vile, più peccatrice che abita la terra: questa verità è per me tanto certa e sicura, che la confesso con tutta l’ingenuità del mio cuore, avanti a Dio e agli angeli ed i santi del paradiso, avanti a tutti gli uomini che abitano la terra, che io sono la creatura più vile, più miserabile che abita la terra.

Di questa chiara cognizione che mi dona Dio, per sua bontà, io lo ringrazio continuamente e lo prego incessantemente di levarmi prima la vita, se mai per mia grande disgrazia avesse a mancarmi questa chiara cognizione, questo umile sentimento che lo tengo tanto caro quanto tengo cara l’anima mia.