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65 – LE CHIAVI DEL PURGATORIO


Passati i sopraddetti dieci giorni, vale a dire dal dì 2 giugno 1822 fino all’11 detto, passò il mio spirito a soffrire vari patimenti, particolarmente per essere l’anima chiamata da particolare cognizione dei propri peccati e di basso concetto di se stessa, conoscendo al vivo la mia propria viltà e miseria mi disfacevo in lacrime amarissime di dolore di avere tanto offeso Dio; questa cognizione mi rendeva odiosa a me stessa mi aborriva, mi vilipendiava, mi umiliava, mi confondeva, conoscendo tanto male in me che mi affannava, mi occupava il cuore in guisa che mi pareva di morire; questa cognizione, questo patimento però non mi faceva perdere la santa confidenza in Dio, ciò nonostante provavo un dolore, un’afflizione che mi faceva proprio agonizzare, alle volte avevo bisogno di distrarmi da questo affannoso pensiero, perché mi pareva di morire.

65.1. Insegnamenti di san Giovanni Battista


In questa situazione si trattenne il mio spirito 11 giorni, vale a dire dal giorno 13 fino al dì 24 giugno 1822, festa del grande precursore santo Giovanni Battista, mio grande protettore ed avvocato.

Nella santa Comunione si concentrò tutto ad un tratto il mio spirito, in questo tempo mi parve trovarmi in una vasta e deliziosa campagna, dove vedevo San Giovanni Battista che mi invitava a salire un alto monte e mi diceva che non mi fossi fermata a godere dell’amenità di quella fiorita campagna, ma che mi fossi compiaciuta di salire l’alpestro monte, che lui mi avrebbe in questo cammino scortata e guidata dalle parole del Santo, l’anima mia lasciò l’amena pianura e obbediente intraprese a salire l’altissimo monte alpestro, andando appresso al Santo che si era fatto mio condottiero, in questo arduo cammino.

Non lasciava il Santo in questo faticoso cammino di dare all’anima santi insegnamenti riguardanti le celesti dottrine facendomi conoscere le vane apparenze dei beni transitori di questo basso mondo, e mi faceva comprendere il pregio grande dei beni eterni.

Alle sue parole si infiammava il mio cuore di carità verso Dio, in guisa tale, che mi mancano i termini di poter spiegare i mirabili effetti che provavo in me di grazia sì grande; umili grazie rendevo al Santo per avermi istruita ed insieme riempita di carità. I suoi santi insegnamenti io non so ridire, mentre per via d’intelligenza, io comprendevo il suo misterioso parlare, mi fece conoscere quanto ancora mi devo umiliare per avere ricevuti da Dio tanti favori.

Quando fui alla sommità del monte, mi fece vedere quanto l’anima mia per virtù di Dio, si trova distante dalla massa del mondo e quanto si trova vicina a Dio. «Mira», mi disse il Santo, «deh, mira quanto è grande l’infinita bontà di Dio verso di te. Vedi quanto lungi sei da quel vile e basso mondo che contiene tanti viventi, che altro non cercano che le cose vilissime della terra, Dio fu prodigo verso di te. Approfittati della sua particolare grazia, corrispondi fedele all’infinito suo amore, non vedi a quale alto grado ti sublimò?».

Alle sue parole l’anima mia profondamente si umiliò, e restò come estatica fuori di se stessa. Vedendo il mondo che io abito, tanto lontano da me, lo vedevo migliaia di miglia lontano e come sotto i miei piedi, mentre il monte dove io mi trovavo era altissimo, quasi vicino al cielo. Terminato il santo colloquio, mi additò una celletta che era sopra quel monte, dico celletta perché mi manca il termine proprio, e non saprei a qual cosa paragonarla per essere cosa misteriosa e divina. Questo era un luogo di sicurezza per l’anima, dove i nemici, né le proprie passioni mi potevano molestare, questa era tutta di pietra lavorata in maniera che si rendeva impenetrabile. Vi era una piccola porticella, il Santo prima di farmi entrare in essa, mi fece vedere molti angeli che al di fuori la custodivano, poi mi fece entrare nella suddetta e di propria mano chiuse a chiave la porta, facendomi così intendere che non è in mia libertà il sortire da essa.

Nell’entrare in quella beata solitudine intesi ricrearmi lo spirito da dolcezza, e da soavità celestiale e divina, che mi fece ardere ad un tratto il cuore di puro e santo amore. La celletta per essere al di sopra tutta aperta e senza tetto, l’anima mia godeva i benefici influssi del cielo, mi spiego: godeva in qualche maniera la vicinanza di Dio e dei beni celestiali, i quali beni tenevano assorto il mio spirito, in guisa che, per lo spazio di tre giorni non fui capace di cosa alcuna sensibile, mi regolavo per mezzo della medesima grazia di Dio di operare per abito senza la riflessione sensibile, sebbene in questi casi me la passo chiusa nel mio oratorio privato, sortendo da esso, per la pura necessità, servendomi del mezzo termine di sentirmi incomodata.

65.2. Mi pareva di essere la creatura peggiore


Passati i suddetti tre giorni all’anima mia le fu comunicato un particolar lume di propria cognizione e di basso concetto di se stessa, unito ad una contrizione dei propri peccati, caricandomi ancora dei peccati altrui, forse commessi per colpa mia; trovandomi in questa dolorosa situazione, altro non facevo che piangere amaramente chiedendo perdono al mio Dio, che conoscevo di averlo tanto offeso e oltraggiato. Ammirando l’infinita sua bontà, che si fosse degnato di non precipitarmi all’inferno, come meritano le gravi mie colpe, ma quello che più mi affliggeva e rendeva implacabile il mio dolore era nell’osservare d’essere tanto beneficata dal Signore. Dopo tanta enorme gratitudine, i benefici di Dio, le sue misericordie queste erano quelle che facevano maggiore il dolore mio, queste sì che mi affliggevano e mi contristavano a un segno tale, che mi pareva che non vi fosse creatura più vile di me, peggiore di me, e che la mia ingratitudine fosse peggiore assai di tutti i demoni dell’inferno.

Lascio immaginare a vostra paternità reverendissima a quale eccesso arrivò il mio dolore; questa angustia, questa pena, può chiamarsi un cumulo evidente di pene, che non possono manifestarsi, questa pena però non toglieva all’anima mia la santa fiducia in Dio, solo riempiva di amarezza il mio cuore e così mi struggeva la contrizione, mi confondevo, mi umiliavo, odiavo me stessa, per vedermi tanto ingrata al mio amato Creatore e Redentore. In questa dolorosa situazione si trattenne il mio spirito per lo spazio di tre giorni.

65.3. Voglio che quest’anima vada in paradiso


Il dì 28 giugno 1822, vigilia dei gloriosi apostoli santi Pietro e Paolo, terzo giorno della suddetta mia afflizione, mi portai a fare la santa Comunione in San Carlo alle Quattro Fontane, dove vidi, dopo essermi comunicata, una lapide nuova, poco distante da dove mi ero posta in ginocchio, senza mia volontà, gli occhi in quella lapide mi si fermavano, più volevo ritirarli, viepiù la vista sulla lapide si fermava, fui dunque obbligata a leggere contro la mia volontà, e leggo: qui riposano le ceneri di Carolina Alvarez. Pensai che questa fosse una donna anziana, di vecchia età, che avesse in vita frequentato la suddetta chiesa, e per sua devozione lì stessa sepolta; formato questo pensiero, così sento dirmi con voce mesta e dolente: «Non sono vecchia come tu credi; ma sappi che sono di giovanile età, sovvengati chi io sono pure in vita mi conoscesti! leggi con attenzione che mi rammenterai». Torno a leggere con riflessione la lapide e ben conobbi esser questa la figlia del celebre scultore Alvarez che cinque anni or sono abitava incontro alla mia casa e per conseguenza questa figliola la conoscevo, sapevo ancora che era passata all’altra vita l’anno 1821, nella sua giovanile età di anni 16 o 17. Supponendo che già stesse in paradiso, così io le dissi: «Anima benedetta, che già sei in cielo, prega per me, misera peccatrice». Così mi rispose la suddetta: «Sappi che ancora sono dalla giustizia di Dio ritenuta in purgatorio, da te aspetto il suffragio e la liberazione da questo orrido carcere! La tua preghiera molto mi può giovare, impégnati per me presso l’altissimo Dio, perché io possa andarlo presto a godere per tutta l’interminabile eternità, se mi ottieni questa grazia io ti prometto di ottener grazia da Dio per Anna, tua figlia».

A queste parole intesi tutto commuovermi lo spirito, e piangendo così le risposi: «E che cosa posso farti io, anima benedetta, che sono tanto miserabile e peccatrice, che devo confessare, a mia confusione, che sono la creatura più vile della terra?». Proseguendo a piangere, non sapevo cosa dovevo fare per liberare questa anima, trovandomi tanto sprofondata nel mio proprio nulla; pensai di parlare, quella mattina medesima, al mio padre spirituale, sicché lo feci chiamare e tornai per la seconda volta in confessionario, e gli raccontai quanto mi era accaduto.

Il lodato padre, vedendomi piangere, e sentendo da me che non sapevo come fare per aiutare questa anima con voce grave così mi disse: «Fatevi coraggio che se voi conoscete di essere una peccatrice, non vi dovete smarrire per questo, avete i meriti di Gesù Cristo, in questi dovete avere tutta la fiducia. Presentatevi all’eterno Padre, chiedetegli questa grazia in nome del suo santissimo Figliolo, e per gli infiniti suoi meriti, e non abbiate paura che non solo questa anima potete liberare dal purgatorio, ma anche mille, se vuole, e andate che siete una sciocca. Io» mi disse, «vi comando che preghiate per questa anima che domani voglio che se ne vada in paradiso. Veramente siete una sciocca che non vi sapete approfittare della grazia che vi fa il Signore, ricordatevi che più volte si è degnato di consegnarvi le chiavi del purgatorio, dite dunque a Gesù Cristo che ve le ridia per scarcerare questa anima, ditegli che questo è il comando del vostro confessore, ditegli che, se gli piace vi faccia fare questa obbedienza, chiedetelo a Dio per la sua infinita carità, vedrete che non vi negherà la grazia».

Alle parole del mio padre ad altro non pensai che di puntualmente obbedirlo, col fare quanto mi aveva comandato. In quel giorno mi diedi tutto il carico di suffragare questa anima, visitando la Via Crucis ed altre preghiere e mortificazioni; pregai ancora il principe degli apostoli per essere la sua vigilia. La mattina, festa del suddetto principe san Pietro, nella santa Comunione, la quale feci in suffragio della detta anima, si concentrò il mio spirito tutto in Dio, in questo tempo così mi intesi parlare dalla suddetta, ma senza vederla: «Ti rendo infinite grazie tra poco me ne vado al paradiso, sarò sempre memore della tua carità, torno a prometterti di ottenere da Dio grazia per Anna, tua figlia, non dimenticherò i miei genitori, ai quali spero ottenere la misericordia. Pregherò ancora per il tuo padre spirituale, al quale devo la sollecita mia liberazione dal Purgatorio, per il comando che ti ha imposto».

Circa un’ora e mezza dopo viepiù si concentrò il mio spirito, e mi parve trovarmi in quell’anzidetta celletta, collocata sopra quell’altissimo monte, come già dissi. Da questa altura vidi la bella anima di Carolina Alvarez che se ne volava al cielo in mezzo ad un bello splendore di chiarissima luce; ma quello che osservai con mio stupore fu di vedere che portava un bello scapolare trinitario, tutto risplendente, con la croce rossa e turchina, lunga e larga quanto era lo scapolare. Domandai come le convenisse quel nobile segnale, mi fu risposto per essersi Dio degnato di annoverare questa anima sotto il glorioso stendardo dell’ordine Trinitario per avere il di lei padre consegnato il suo cadavere ai Padri Trinitari con molto affetto di devozione e per altri motivi che per prudenza si tacciono. Fu il mio spirito invitato a ringraziare la Santissima Trinità, per avergli compartito questo favore; finalmente si sollevò al cielo quella benedetta anima così risplendente di gloria, così ne perdetti la vista, restando nel mio cuore un giubilo di Paradiso, che mi durò un’intera giornata. Questa vista sollevò il mio spirito a contemplare l’infinita bontà di Dio e le sue infinite perfezioni, l’infinito suo amore verso di noi, poveri figli di Adamo. Si internò tanto il mio spirito in questi sentimenti, che per tre giorni continui mi tennero fuori dai propri sensi, perché ogni giorno più si accresceva in me la cognizione delle perfezioni di Dio, che l’anima fu tanto penetrata dal santo amore di Dio, che credevo di perdere la vita.

Dio mi dava tanta attività e forza d’amore, che per mezzo della sua divina grazia tanto l’anima si inoltrò, che arrivò a lottare con il santo amore di Dio.

Oh, chi sapesse spiegare questo fatto, potrebbe arrivare in qualche maniera a manifestare quanto mai sia grande l’amore che Dio porta a noi miseri mortali! Ma io sono molto ignorante, e per conseguenza insufficiente affatto di poterlo spiegare, perché mi mancano i giusti termini di poterlo manifestare, ma la povera anima mia ne prova in sé i buoni effetti, di queste divine, scienze che le vengono dettate dalla divina sapienza, per le quali viene l’anima a fare certe operazioni soprannaturali e quasi divine, per la partecipazione che Dio fa di sé all’anima. Queste operazioni sono per me del tutto nuove, per essere digiuna affatto di queste celesti dottrine.

65.4. Sopraffatta dallo Spirito del Signore


Questo divino favore mi tenne assorta per tre giorni, vale a dire dal giorno 30 giugno fino al 3 luglio 1822, volevo occultare i buoni effetti che cagionò nell’anima mia questo favore, lasciando di copiare dal giornale quanto sarò per dire, che a bella posta avevo tralasciato di trascrivere, ma per comando espresso del mio padre spirituale, torno a riprendere il filo del mio racconto e lo termino per obbedire.

Sopraffatta l’anima dallo Spirito del Signore, si lascia guidare dove esso vuole, abbandonandosi tutta al suo divino beneplacito, sicché lo Spirito del Signore la conduce, la guida, l’innalza, la fa penetrare, l’ammaestra, la fa amare, la fa umiliare, la fa inabissare nel proprio suo nulla; così in queste occasioni l’anima mia viene ammaestrata e penetrata dal santo amore, ma in questa divina scuola, prima si pratica il bene, e poi se ne ha la cognizione, in maniera che prima ne godo i buoni effetti e poi ne ho la cognizione.

Queste illustrazioni seguono in me, senza prevenzione, senza meditazione, in guisa tale che io non so mai né come principiano né come finiscono, né come questi favori vadano a terminare; non sono che spettatrice di quanto va seguendo nel mio spirito, godendone i mirabili effetti, in anticipazione della cognizione.

Questi distinti favori sono, in vero, molto disdicevoli in me, che sono piena di miserie e peccati, e non possiedo l’ombra della virtù, io veramente ne resto stupefatta e piena di rossore, nel vedere Dio che tanto mi favorisce, e mi ama, io non so a che attribuirlo, stolta che sono, vado dicendo fra me stessa: questi sono i frutti del merito infinito di Gesù Cristo. Ah Gesù mio, riprendo vigore, e mi rallegro in voi, mio sommo bene, ma torno a guardare me stessa, e mi confondo. Vorrei corrispondere a tanto amore, ma confesso che non lo so fare, questa mia cattiva corrispondenza è il mio continuo martirio, ah Gesù mio nascondetemi nella piaga amorosa del vostro santissimo costato.

Con queste ed altre espressioni l’anima mia si riposava dolcemente in Dio, affidata nei suoi meriti, godevo una pace di paradiso. Terminati i suddetti tre giorni, improvvisamente si cambiò la luce in tenebre, e il povero mio spirito se ne restò pacificamente in mezzo a tanta oscurità, in quelle dense tenebre, volevo sollevare il mio cuore a Dio, e non potevo, perché mi mancava l’intelligenza e la cognizione; cercavo il mio Dio e non lo trovavo, qual pena sia mai questa di passare dalla luce chiarissima alle più folte tenebre, non è in vero possibile il poterlo manifestare, mentre l’anima teme, in questo stato, di offendere il suo Dio.