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64 – MI INVITÒ ALLE SUE DIVINE NOZZE


64.1. Patire per la vostra gloria


Si trattenne il mio spirito in questa dolorosa situazione dal giorno 19 marzo 1822 fino al giorno 25 del medesimo anno 1822, festa dell’Annunciazione di Maria Vergine Santissima. In questa santa giornata, Dio si degnò trasferire il mio spirito in un ameno giardino di soavità ripieno, dove il mio spirito si ricreò. In questo luogo si degnò Dio di parlare al mio cuore con termini così eloquenti e sublimi, mostrandomi con questi il suo particolare amore. Mi diede ancora a conoscere, per mezzo di scienza infusami, cose molto alte e sublimi, che la mia bassa mente non sa spiegare, né manifestare. Posso solo dire di aver provato un’indicibile consolazione tutta propria di paradiso, che invigorì il mio spirito, abbattuto da tanto patimento sofferto negli anzidetti giorni, come ancora il mio corpo per le pene sofferte. Era sì impallidito e smorto e molto indebolito nelle forze, che alle volte mi pareva restasse estinto. Ancora il mio corpo partecipò di questo divino favore per il quale si rinvigorì nella forza. Ma questo bene fu poco durevole, mentre in questo ameno giardino non si trattenne il mio spirito che per soli tre giorni, nei quali ricevetti dei distinti favori dal mio Dio; ma, per avere trascurato lo scrivere, non posso darne alcuna contezza, né posso farne alcuna dimostrazione.

Passati i tre giorni suddetti, il mio spirito fu chiamato a soffrire altre ambasce, altre afflizioni mentali che non saprei come spiegarle. Queste facevano agonizzare la povera anima e per conseguenza ne pativa anche il corpo, ma questo patimento non era per me gravoso, ma dolce e soave, benché ne sentissi tutto il peso di queste mentali afflizioni. Mio appassionato Gesù, voi sapete per prova cosa sia mortalmente patire, voi ne foste il maestro, io sono la miserabile peccatrice vostra scolara indegnissima, voi insegnatemi a patire questa sorta di pene, ditemi, o mio amore, qual fosse la pena tale che voi soffriste nell’orto di Getsemani, ditemi voi qual fu la vostra pena nelle vostre agonie mortali, quando dall’albero della croce diceste le misteriose parole, da quale afflizione era sopraffatto il vostro santissimo spirito. Mio afflitto Gesù, vi prego, per questi acerbissimi interni patimenti che martirizzavano la vostra mente divina, ad aver compassione di me misera peccatrice, con l’insegnarmi questo per me nuovo modo di patire, ad onore e gloria vostra. Degnatevi, Dio mio, di non abbandonarmi in questo nuovo e doloroso conflitto. Così esclamavo, così pregavo in mezzo a tanti affanni e martiri.

64.2. Non la chiamare nube importuna


Così passai il resto della quaresima, stette il mio spirito in questa afflizione mentale per lo spazio di dieci giorni, vale a dire dal giorno 18, giovedì di passione, fino alla domenica di Resurrezione che fu il 7 di aprile 1822.

In questa giornata di gaudio e di letizia, ricevetti dal mio Dio un distinto favore, che compensò molto bene tutto quello che avevo patito e sofferto negli scorsi giorni. Oh! infinita bontà di Dio, che non si fa vincere di cortesia, ma con soprabbondanza di perfetta carità viene a compensare il mio patire, L’amor suo verso di me viepiù mi innamora e mi obbliga di fare di tutta me stessa un perpetuo sacrificio alla sua maggior gloria, abbandonandomi in tutto e per tutto al suo beneplacito.

Alla meglio che potrò e saprò, descriverò il fatto che mi seguì. Tutto ad un tratto Dio si degnò rapire il mio spirito in una maniera molto particolare e distinta, mi trovai in un istante tutta assorta in Dio. Illustrate furono in un momento le potenze dell’anima mia da un raggio di luce inaccessibile, in un istante mi trovai vicino a Dio. Oh, come si sprofondò il mio spirito nel proprio suo nulla, quanto mai si umiliò davanti al suo Dio. In questo profondo abbassamento, in cui mi ero sprofondata ed annientata per vedermi tanto vicina all’immensità di Dio, mi sentivo rapire il cuore di dolcezza di paradiso, un torrente di gaudio inondava il mio cuore, che mi faceva languire d’amore alla vista dell’oggetto amato. Ma nel tempo in cui godevo di questo grande bene, una candida nube mi privò di questa amabilissima vista. Questa candida nube venne tutta a circondare il mio spirito, in una maniera per la quale mi trovai come dentro questa medesima nube senza più vedere, né sentire cosa alcuna, priva affatto di quella bella vista che pocanzi godevo, più non vedevo quella luce suprema, nella quale io scorgevo il mio amorosissimo Dio, «Oh nube importuna, – dicevo perché dentro di me mi racchiudi? – perché mi privi dell’amabile vista del sommo mio bene?».

Ma intanto, da soave riposo fu sopraffatto il mio spirito e nell’intimo del mio cuore intanto portavo scolpita l’immagine del mio signor Gesù Cristo, al quale consacravo tutta me stessa, riposando nel suo divino beneplacito, e con amore santo e puro tutta a lui mi donavo. Nel tempo in cui stavo in questo dolce riposo, il mio Dio la nobile sua voce mi fece sentir: «Figlia», mi disse, «importuna la nube, non la chiamare, ma chiamala apportatrice dei miei più alti favori. E non ti avvedi che io, quale artefice geloso, dei miei lavori, mi servo di questa per occultare il nobile lavoro che sto facendo in te? questa serve a te da custodia e a me serve per introdurti nei più reconditi luoghi la dove io mi compiaccio di mostrare l’eccesso del mio divino amore».

A queste divine parole, il povero mio spirito si umiliò profondamente. Confessando la mia ignoranza avanti al mio Dio e umilmente gli domandai perdono piangevo ancora di tenerezza e di gratitudine, vedendomi piena di tanti demeriti e nonostante tanto favorita da Dio. A questo riflesso si accese una fiamma di carità tanto grande nel mio cuore, che non la potevo contenere, che mi faceva amare Dio con tanta purità e semplicità e vivo affetto, che non lo posso spiegare, provando nell’anima un bene vero di paradiso, che mi faceva languire di santo amore.

64.3. Un dolce martirio


Passai le tre feste della Santa Pasqua in un continuo rapimento di spirito, mentre Dio, per sua bontà, nella santa Comunione, tornava ad illustrare con i suoi splendidi raggi, la detta nube ed il mio spirito si trovava non solo illuminato, ma ricolmo di santi affetti verso Dio, e Dio si degnava favorirmi dei suoi più teneri e casti abbracciamenti; la povera anima mia intanto si struggeva, si liquefaceva, si stemperava d’amore al dolce calore di quel sole divino, che tutta intera possedeva e penetrava l’anima mia, questo bene fu in me poco durevole, perché passate le tre feste della Santa Pasqua, il giorno 10 di aprile, improvvisamente mancò il bel sole di giustizia di illuminare la detta nube, per conseguenza il mio spirito restò affatto privo di luce, e mi trovai coperta di tante tenebre senza sapere (se) dove ero, se dove mi trovavo.

La pace non mancava al mio cuore, ma tutta rassegnata alla volontà del mio Dio, che avesse permesso di farmi passare dalla luce alle tenebre in questa dolorosa situazione lodavo e benedicevo Dio, ma nel mio cuore provavo un dolce martirio, che tutta mi consumava in santi affetti, desiderando di rintracciare quella luce che avevo perduta, qual pena sia passare dalla luce alle tenebre, ognuno lo può immaginare, ma questa luce da me perduta non era sensibile, ma divina, e per conseguenza, molto maggiore e senza paragone era la mia pena, che io non posso di certo spiegarlo; solo a Dio è noto certa sorta di patimenti, che noi non possiamo spiegare. Nove giorni mi trovai in queste folte tenebre, cioè dal giorno 10 aprile 1822 fino al giorno 19 del detto anno.

64.4. Entra e riposa nel casto mio cuore


Il di 19 aprile 1822, primo giorno della novena del patrocinio del gran patriarca san Giuseppe, dopo la santa Comunione, per mezzo della detta nube, dove ancora dimora il mio spirito, per mezzo di un raggio divino, fu ad un tratto tutta illuminata la candida nube e sollevata al cielo da benefico vento e da una aurea celestiale di paradiso. Venne sospinta e portata fino al cielo empireo, dolcemente era questa nube da questo benefico venticello innalzata, e da luce inaccessibile era invitata e necessitata a viepiù inoltrarsi negli ampi spazi della divinità.

La nube intanto, così chiamata e necessitata, negli ampi spazi si ritrovò, in quell’istante il mio spirito ebrio di santo amore, si ritrovò; che cosa bella io vidi mai! Giammai veduta da me, non posso esprimere, non posso dire le cose magnifiche che io vidi dell’infinita beltà di Dio non posso esprimere, non posso dire non vidi mai cose così belle e mai provai uguale dolcezza, che mi stemperava il cuore di santo amore.

L’anima intanto unita a Dio lasciò il mio corpo del tutto privo di forza e di calore, per la forte impressione della divina comunicazione, che credevo proprio di morire.

L’amore di Dio io non potevo più contenere, la piena intanto dei santi affetti non potevo più comportar. Mi chiama e richiama il diletto Signore, Risponde l’anima: «Mio Dio, mio amore, confusa io sono dall’alta tua bontà». Il dolce invito per umiltà volevo ricusare.

Ma torna a chiamarmi l’amante Signore, Oh Dio, non mi regge in petto il cuore, di ricusar il suo invito: «Mio Dio, dimmi dove vuol che io venga? Ebria d’amore, il tuo invito accetto di tutto cuore». Così mi rispose l’amante Signore, senza parole, ma l’anima intende le sue espressioni, per intelligenza e per amore. Così mi chiamò: «Amata colomba, gradita mia sposa, Vieni al mio talamo. Entra e riposa nel casto mio cuore».

Oh dolce speme, oh dolce unione, oh santi affetti ditelo voi che io non reggo a tanto amore! Oh unione perfetta di due cuori insieme, in quel momento in un solo cuore il santo amore li trasformò.

Io non sapevo più se ero in me stessa, restai sopraffatta dallo stupore lo non sapevo più se il cielo, o la terra, fosse oramai la mia abitazione, Sentivo solo trasportato il mio cuore da puro e santo amore, che per ventiquattro ore, non fui più capace della naturale sensazione, benché facessi tutto il possibile per occultare quanto era passato nel mio spirito. Sono passati più di tre giorni ora che scrivo, e ancora nei propri sensi non posso del tutto rinvenire, ma un dolce sonno mi occupa il cuore.

L’amore, l’amore mi fa dormir ma l’anima intanto non dorme, sta desta, e tutta unita al suo Signor. Altro non cerca, altro non brama che di stare unita alla sua volontà, nauseando ogni desiderio ed ogni pensiero di questo mondo mortale. Lo sguardo in Dio fisso ritiene per esser pronta ad ogni suo cenno di puntualmente sempre obbedir.

Passati già sono non solo i tre giorni, ma altri sei giorni e ancora nei sensi non posso del tutto ritornar, un dolce sonno mi tiene occupata, una pace interna che mi rapisce 1’anima e il cuore. L’amore, l’amore mi fa languire, io più non reggo, mi par di morire, mio Dio, aiutami il tuo santo amore a sostenerlo non reggo a tanto amore mio Dio. Io chi sono? Una vilissima creatura tanto amata da te, oh qual confusione è questa per me! Io mi inabisso davanti la divina tua maestà, solo il tuo onore e la tua gloria mi protesto di solo amar.

Nella santa Comunione si aumentava ogni giorno più questo riposo, godendo un bene molto copioso, tutto amoroso, ma senza vedere, senza sapere, solo sentendo la voce del mio Signore che intimamente mi parlava così, con queste ed altre simili espressioni, che io non so rintracciare: «L’amata sen dorme, deh non la svegliate e non la turbate, quel sonno di amor, giace, e riposa in pace di amore L’amante suo cuore unito con me».

A queste espressioni si umiliava e annientava il mio cuore ebrio d’amore, proseguiva a dormire. Questo riposo, questo raccoglimento così intimo, durò nel mio spirito quindici giorni, cioè dal dì 19 aprile fino al giorno 5 maggio 1822. Il giorno 6 detto, tornai nella naturale sensazione, e mi destai da questo dolce e fruttuoso riposo.

Dal dì 6 maggio fino all’l di giugno 1822 il mio spirito sostenne molte tribolazioni e angustie di spirito, desolazioni, smarrimenti afflittivissimi, aridità, desolazione in maniera che non sapeva fare orazione, sicché passai il mese di maggio in un vero purgatorio, mentre le mie orazioni e operazioni altro non erano che distrazioni e pensieri che mi affliggevamo il cuore.

64.5. Simboli misteriosi


Il dì 1 giugno 1822, giorno della Santissima Trinità, dopo la santa Comunione, si concentrò tutto ad un tratto il mio spirito, in questo tempo mi parve di trovarmi in un luogo quanto mai bello, dove il mio spirito fu rivestito dalle sante virtù morali e teologali, venne purificato da un’ardente carità, si serviva intanto lo spirito di queste sante virtù per sollevarsi verso il suo Dio, con atti di profonda umiltà, di rispetto, di venerazione, di stima, di adorazione ed altri atti interni che somministrati mi venivano dalla stessa grazia di Dio, che così andava disponendo la povera anima mia purificandola da ogni imperfezione. Da questo luogo passò il mio spirito in altro luogo più alto e più sublime, dove all’anima le furono messi tre misteriosi segnali: un manipolo, di grande valore, un ringolo di prezzo inestimabile la cui bellezza non si può descrivere, un velo bianco molto risplendente che dalla testa mi copriva tutta fino ai piedi, il sinistro braccio mi fu armato di forte scudo.

Tralascio per un momento il racconto, e faccio la spiegazione di questi misteriosi segnali, per obbedienza del mio padre spirituale.

Il manipolo significa la virtù della fede, con la quale l’anima viene a fare tutte le sue operazioni; lo scudo significa la virtù della speranza, con la quale l’anima si difende, e si rende forte ed invincibile, tutta affidata nei meriti infiniti del Redentore divino, suo fedelissimo sposo. Il velo significa la virtù della carità, che copre l’anima dal capo fino ai piedi, per così dimostrare che tutto fa in virtù dell’amore il quale la rende bella e gradevole, avanti al divino cospetto. Il cingolo significa la virtù della castità, che le cinge i lombi e la rende pura e casta. I due fiocchi del medesimo cingolo significano la virtù della santa umiltà, queste due virtù sono per se stesse tanto congiunte ed immediate; che l’una sta congiunta all’altra, come il cingolo è unito ai due fiocchi, i quali sono il suo ricco ornamento. I due fiocchi vengono a denotare i due alti pregi di questa santa virtù.

64.6. Una stessa cosa con Dio


Proseguo il racconto. Dopo che Dio, per pura sua bontà, mi aveva così adornata, si degnò compiacersi dell’anima mia, nella sua compiacenza chiamò l’anima a sé e le donò un’agilità prodigiosa che mi rese in quell’istante capace di sollevarmi fino al cielo. Lo spirito penetrava con tanta sottigliezza, e agilità che liberamente andava al suo Dio, che fortemente la chiamava, e intimamente la toccava, con la divina sua grazia, così la sollevava e la rapiva e l’invitava alle sue divine nozze. Cosa mai dirò di questo sublime favore?

Non ho al certo termini di poterlo spiegare, per essere io ignorantissima, non ho maniera di poterlo manifestare. Con molta maggior forza tirava e sollevava Dio l’anima mia, di quello che un gran masso di calamita tiri ed unisca a sé un leggero ferro, ma l’anima mia unita al suo Dio perdeva affatto la sua proprietà, e per mezzo di trasformazione diveniva una stessa cosa con il suo Dio.

Dopo aver goduto di questo bene sommo, inarrabile ed incomprensibile, che non si può a qualunque bene paragonare, l’anima mia si ritrovò tutta raggiante di luce, e in luogo di trovarsi gli anzidetti ornamenti, si trovò che Dio l’aveva rivestita di un abito molto più bello, e gli aveva donati altri tre misteriosi segnali.

Questi erano uno scettro, che mi trovai nella sinistra mano, di una bellezza incomprensibile, nella destra mano mi trovai un bastone di comando, che io non so descrivere né paragonarlo, per essere cosa misteriosa e divina, una risplendente corona che cingeva la mia fronte; mi spiego: questi adornamenti non li vedevo nel mio corpo; ma bensì ne vedevo adorna l’anima mia, che in sembianza di leggiadra giovinetta la vedevo.

Nel vedere l’anima mia così bella e così adorna, piena di stupore mi rivolsi al mio Dio e con profonda umiltà così gli dissi: «Mio amorosissimo Dio, questi adornamenti non convengono ad una peccatrice che sono io. Io sono piena di rossore e di confusione, al riflesso dell’enorme mia ingratitudine ed iniquità; punitemi piuttosto, Dio mio, in luogo di favorirmi con tante grazie, perché queste vostre grazie, altamente mi confondono. Che voi Dio mio non lo vedete? Che voi non lo sapete che io altro non faccio che abusare delle vostre grazie, altro non faccio che oscurare la vostra gloria con tanta mia ingratitudine»? A questa verace riflessione, detti in un dirottissimo pianto, sprofondandomi nel proprio mio nulla. Ma l’infinita bontà di Dio, non volle vedermi così afflitta e addolorata in una giornata così solenne, che si era degnato di favorirmi con grazia così grande e particolare, prese dunque a consolarmi con dolci parole, e mi fece intendere quanto grande sia l’amore che porta all’anima mia, e che l’amor suo oltrepassa la mia viltà e miseria e mi rende degna dei suoi divini favori, mi spiego, ancora, quali fossero quei tre doni che aveva fatti all’anima mia, cioè lo scettro, il bastone, la corona.

Questa spiegazione la passo sotto silenzio, perché mi pare sarà molto più conveniente di farla vostra paternità reverendissima, per così risparmiarmi la confusione di manifestare i tratti amorosi di un Dio amante di me, povera e miserabile sua creatura, che con tutta ingenuità mi confesso per la più vile creatura che abbia la terra essendo io peggiore assai di tutti i demoni dell’infermo per i miei gravissimi trascorsi, come sono ben noti a vostra paternità reverendissima

La prego dunque di non obbligarmi di fare di questi misteriosi segnali la descrizione, e questo lo domando per carità, perché troppo confondono e umiliano il povero mio spirito.

Questa comunicazione mi tenne assorto lo spirito per molti giorni, e il mio corpo restò tanto estenuato nelle forze che, appena potevo reggermi in piedi, mancandomi perfino la voce, e poca o niente cognizione avevo delle cose sensibili, e di tratto in tratto ero alienata dai sensi. In questa situazione stetti per lo spazio di dieci giorni, che mi ridussi pallida e smorta che pareva avessi sofferto una grave malattia.

Tanto era dolcemente chiamato il mio spirito da Dio, che il mio corpo pareva incadaverito per i continui languori d’amore che mi comunicava lo Spirito divino.