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63 – ALLA SOMMITÀ DELLA GLORIA DI DIO
63.1. Comunioni sacrileghe
Mi
portai in questa medesima giornata del 27 dal mio padre spirituale, il
quale mi domandò come avevo passato la notte del santo Natale, e mi
obbligò di manifestargli quanto mi era accaduto nello spirito. Io, per
obbedienza, gli comunicai il surriferito fatto, il medesimo mi domandò
se mi ero ricordata di raccomandare i poveri peccatori, io gli risposi:
«Padre mio, mi sono dimenticata, in quei momenti, affatto di tutti; ho
perfino dimenticato che gli uomini, che vivono in questo mondo, fossero
capaci di offendere Dio, mentre in quei momenti altro non conoscevo che
amore».
Il suddetto padre mi gridò e mi disse: «Così voi amate
il vostro prossimo, che ve ne siete dimenticata? Io», mi disse, «vi
comando di fare per i peccatori una forte preghiera al Signore,
acciocché li illumini».
Con umile sommissione gli risposi che
avrei fatto quanto mi comandava, e che da miserabile peccatrice, avrei
fatto subito, per questi, la preghiera. Difatti, all’istante, mi portai
in una chiesa, dove si celebrava la messa cantata, e pregai il Signore
per i poveri peccatori, come mi aveva comandato il mio padre
spirituale. Fatta la preghiera, così sento dirmi: «Mira, o figlia, come
viene oltraggiato il mio amore da questi uomini ingrati, che
sacrilegamente hanno la temerarietà di ricevermi, non per ossequiarmi,
ma per dileggiarmi».
E difatti, fisso l’interno sguardo, e vedo,
con somma mia pena ed orrore, tanti uomini con la bocca aperta e molto
spalancata, con un palmo di lingua fuori della bocca, con i capelli
dritti, con gli occhi stravolti e spaventati, a guisa di spiritati,
sopra la loro lingua avevano l’impressione della sacrosanta particola,
il loro aspetto era tanto spaventevole e brutto che faceva orrore; a
questa vista così funesta, io ebbi proprio a morire dalla pena e dallo
spavento, che mi cagionò un male tanto grande nell’anima e nel corpo,
che credevo di morire in chiesa; ma, per misericordia di Dio, dopo
qualche poco di tempo, potei tornare alla mia casa, accompagnata da una
delle mie figlie, che si credeva di non potermici condurre, perché
parevo un cadavere, per il gran male che avevo sofferto.
Il
resto della giornata lo passai un poco in piedi, e un poco sopra il
letto, non potendo reggere la grave afflizione e travaglio di spirito,
al riflesso delle tante e gravi offese che riceve il Signore da tanti
uomini ingrati.
Tre giorni restò afflitto il mio spirito e
cagionevole ancora il mio corpo per questo fatto, ma poi il Signore,
per sua infinita bontà, tornò a dare la calma e la pace al mio spirito,
col dissipare questa funesta vista, così cessò la grave mia afflizione.
E così potei iniziare il nuovo anno 1822 in somma tranquillità di
spirito, non avendo altro pensiero che di perfezionare la povera anima
mia con l’acquisto delle sante virtù, non avendo altro desiderio che di
prepararmi alla morte. Bramando di lasciare questa spoglia mortale, il
mio spirito altro non cerca che di tornare al suo principio e al suo
fine, che è Dio: questo desiderio mi fa perdere ogni altro pensiero, e
ogni altro qualunque desiderio. Mi pare propriamente di vivere in
questo mondo in un duro esilio, mi pare di essere fuori del mio centro,
altro non desidero che di terminare i miei giorni nella pace del
Signore, per potermene tornare donde ne ebbi origine.
Ah, sì, al
mio Dio, per poterlo amare e incessantemente ringraziare e benedire per
tutta l’interminabile eternità, affidata alla sua divina grazia e nei
suoi infiniti meriti.
63.2. Sentimenti dopo la comunione
Il
dì 6 gennaio 1822, dopo la santa Comunione, si raccolse e tutto si
concentrò il mio spirito, alla considerazione di aver ricevuto un Dio
d’infinita maestà, tutta in se stessa si annientava la povera anima
mia, e sprofondata nel proprio suo nulla, si umiliava profondamente
davanti al suo Signore sacramentato, stringendolo amorosamente nel mio
petto, versando grande copia di lacrime d’amore e di tenerezza, alla
riflessione che un Dio d’infinita maestà non avesse orrore di
trattenersi con un’anima tanto miserabile e peccatrice come è la mia.
63.3. Il tempio della mia anima
Nel
tempo che ero sopraffatta dallo stupore, alla considerazione
dell’infinita bontà di Dio, che mi arrossiva e confondeva per la mia
grande viltà e scelleratezza, sentivo ancora grandissima pena che un
Dio d’infinita maestà si trattenesse in luogo tanto vile ed abbietto,
quanto è la povera anima mia.
Il mio Dio, per sua infinita
bontà, si degnò di sollevarmi da questo profondo annientamento, che mi
recava tanta pena e tanta afflizione. Così si degnò Dio di parlare alla
povera anima mia, che stava gemendo fra mille affanni e pene: «Figlia»,
mi disse Dio, «figlia amata, figlia, solleva la tua mente, rallegrati
con l’infinita mia bontà. Dà uno sguardo all’anima tua: io l’ho formata
mio tempio, mia abitazione, osserva, quale edificio io la formai». A
queste parole, fisso lo sguardo della mente e vedo un tempio, un
edificio così bello, che io non ho termini per poterlo spiegare, non so
se tempio o edificio possa chiamarsi cosa così bella, che con parole
non si può spiegare, io la chiamerò opera grande della mano onnipotente
di Dio, procurerò, per mezzo della grazia del Signore, di fare di
questo edificio che io vidi, la descrizione, alla meglio che potrò, ma
conosco bene che mi mancano i giusti termini per poterlo indiziare.
Questo
era un fabbricato quadrato ed insieme rotondo, dentro il quale vi erano
innalzate e stabilite preziose colonne, di una pietra tanto bella che
io non saprei a qual pietra assomigliarla. Erano queste colonne nel
numero di dodici, erano così ben disposte in simmetria, che io restai
incantata nel rimirarle; il cornicione di questo fabbricato era tanto
bello che non so descriverlo. La sommità di questo non aveva soffitto,
ma era tutto aperto che si vedeva il cielo in molta vicinanza. Ma il
più bello, il più nobile, il più vago ed amabile che vi era in questo
luogo era Dio medesimo che, con grande magnificenza, si tratteneva nel
mezzo del suddetto tempio, nella cui sommità se ne stava assiso sopra
la sua gloria, sostenendosi senza alcun punto di appoggio.
Qual
meraviglia, quale stupore, quale contento arrecò al mio cuore, vedere
il mio Dio assiso sopra la sua gloria, nel mezzo del tempio,
sostenendosi da se stesso, con la sua onnipotenza. Ben si avvide Dio
dello stupore che ne aveva concepito il mio spirito restato estatico
nel vedere tanta magnificenza: «Non ti stupire, o figlia», mi disse Dio
io non ho bisogno di un sostegno, né di punto di appoggio; ma io sono
il sostegno stesso!».
A queste parole, illuminato il mio spirito
da questa verità, mi umiliai profondamente e, con grande copia di
lacrime, confessai la mia grande ignoranza.
Una moltitudine si
santi angeli si trattenevano ai piedi di quelle colonne, stavano tutti
genuflessi, con sommo rispetto e riverenza, lodando e benedicendo Dio,
mostrando insieme la loro ammirazione nel vedere l’opera del Signore.
Il mio spirito, non meno di questi spiriti celesti, si annientava e
umiliava profondamente, sopraffatto da tanta magnificenza, sentivo un
amore grande verso il mio Dio e insieme di dolore, per averlo offeso.
Nel
tempo che mi struggevo in lacrime, per i santi affetti che uniti
insieme facevano prova di levarmi la vita in ossequio al mio Dio, io
non so come fosse, né saprei certamente ridirlo, stando in questi umili
ossequi e profondo abbassamento di tutta me stessa, mi trovai alla
sommità della gloria di Dio, ai suoi piedi santissimi, sotto la forma
di tenera agnelletta. Da qual timore fui sopraffatta nel vedermi tanto
vicina al mio Dio, che piena di santo timore mi nascondevo fra gli
splendori della sua medesima gloria, per non essere da Dio, né dai
santi angeli, osservata, tanto era il mio abbassamento, annientamento e
propria cognizione, che in mezzo a tanta magnificenza altamente mi
confondevo e profondamente mi umiliavo; ma come questo favore non
bastasse a dimostrarmi l’amore che mi porta Dio, benché io ne sia tanto
indegna ed immeritevole, volle per eccesso della sua infinita bontà,
volle farmi un altro favore, ed è che, presa nelle sue santissime
braccia la piccola agnelletta, la strinse amorosamente al castissimo
suo seno, dopo averla così teneramente abbracciata, la bendò con le sue
mani e la condusse con lui, portandola nelle sue santissime braccia, le
fece trapassare i cieli, io niente vedevo, per essere così bendata
nell’intelletto, ma godevo un bene nell’anima tutto proprio di
paradiso, una profonda umiltà, una semplicità di spirito, una purità di
mente, un’ardente carità verso il mio Dio, che non ho termini per
poterlo spiegare.
Si degnò Dio di attingere l’agnelletta in
certe preziose acque e di propria mano lavarla, e poi condurmi in altro
soggiorno, così mi disse: «Figlia, ringrazia l’infinito mio amore che
gratuitamente in questo giorno ti fa degna di sì alto favore, sappi che
ti degno di passare ad un alto grado di perfezione».
63.4. Così per nove giorni, poi…
Si
trattenne la povera anima mia in questo felice soggiorno nove giornate,
godendo un bene tutto spirituale e santo, benché dell’amenità di questo
bellissimo luogo io non ne godevo che i soli buoni effetti, per essere
stata da Dio bendata nell’intelletto, perciò mi mancava la vista e la
cognizione di vedere e speculare l’amenità di questo amenissimo luogo,
ma questo non privava l’anima mia di goderne in se stessa i buoni
effetti di un puro e santo amore, tutta mi struggevo in santi affetti
verso l’amoroso mio Signore, riconoscendomi indegnissima di questi
eccelsi favori, passati i suddetti nove giorni, essendo il giorno 26
gennaio 1822. Mancarono alla povera anima i buoni effetti che fino ad
allora aveva goduto, e fui sopraffatta da una penosissima desolazione
di spirito, il mio intelletto fu oscurato da tenebre densissime, che
più non sapevo dove fossi, né dove mi trovassi; mi pareva di aver
perduto il mio Dio, piangevo, mi affliggevo, facevo al mio Dio umile
ricorso, ma questo non bastava, perché non si faceva da me ritrovare,
andava ogni giorno più crescendo a dismisura la mia pena, aggiungendosi
a questa pena un grande timore di perdere il mio Dio, e perderlo per
sempre. Questo timore era la mia pena maggiore, che mi portava quasi ad
agonizzare, e rendeva l’anima all’ultima desolazione. In questo stato
di grave afflizione, si giungeva un altro timore, mi pareva che il
demonio mi avesse tramato una forte insidia, per la quale dubitavo di
essere vittima di questo nemico con l’acconsentire alle sue perverse
suggestioni, in questa maniera mi andavo struggendo e consumandomi
nell’afflizione, dubitando ogni momento di fare qualche grave offesa al
mio Dio, in questo stato di cose altro non facevo che ricorrere
umilmente a Dio, trattenendomi lungamente in orazioni, sebbene queste
orazioni erano ripiene di affanni e di amarezze; perché, se mi
trattenevo a considerare l’infinita bontà di Dio, vieppiù mi affliggevo
al riflesso della mia grande ingratitudine; se meditavo la passione di
Gesù Cristo, questa mi rimproverava la mia cattiva corrispondenza,
sicché mi pareva sempre di essere perseguitata giustamente dalla divina
giustizia.
Oltre a ciò altri affanni e pene che mi facevano
propriamente agonizzare, si aggiungeva a queste pene un grandissimo
desiderio di possedere Dio e possederlo per sempre. Io lo speravo negli
infiniti meriti di Gesù Cristo, ma dicevo a me stessa: «Anima mia, e
chi ti assicura di corrispondere alla grazia, senza la quale
corrispondenza non puoi certamente salvarti? Osserva quanto già ne
abusasti, a quante grazie tu non hai corrisposto! E potrà Dio più
soffrire tanto eccesso di tua ingratitudine? Sarà obbligato di certo a
condannarti all’inferno per tutta l’eternità».
A tutti questi
riflessi, qual funesto quadro mi si presentava alla mente, non è
spiegabile, tutte le ingratitudini usate verso il mio Dio facevano
prova di levarmi la vita. Per l’eccessivo dolore piangevo dirottamente
le mie ingratitudini, le detestavo di vero cuore e con proposito fermo
e stabile promettevo di non dare a Dio mai più il minimo disgusto; ma
tutto questo non giovava a rendere contento il mio cuore, mesto e
dolente, che, sopraffatto da una profonda mestizia, dubitava ogni
momento di fare qualche grave offesa a Dio.
Esaminavo
rigorosamente la mia coscienza, e non trovavo alcuna cosa che mi
gravava, mentre dei peccati, dopo averli confessati nella sacramentale
confessione, trovavo di averli sempre pianti e detestati di vero cuore
con vero proposito di morire mille volte, che tornare ad offendere Dio;
cercavo ancora quali fossero i miei desideri, e trovavo che non sono
che di piacere al mio Dio e di adempire, in tutti i momenti della mia
vita, la sua santissima volontà, vivendo tutta abbandonata al suo
divino beneplacito, questi erano nelle mie orazioni i sentimenti più
frequenti e venivano da me ratificati nella giornata con molta
frequenza.
Eppure, chi lo crederebbe? il mio povero spirito non
ne trovava alcun sollievo, trovava solo pene, afflizioni, travagli e
angustie.
63.5. Così Dio parlò alla sua «agnella»
Cosicché
dal dì 16 gennaio 1822 fino al primo febbraio del medesimo anno, vale a
dire 15 giorni, stette in questa desolazione il mio spirito; il giorno
2, festa della purificazione di Maria Vergine santissima, Dio si degnò
di sollevarmi da questa gravissima angustia, col compartirmi un favore
celeste che tranquillizzò in un momento il mio povero spirito, afflitto
e desolato.
Dopo la santa Comunione, si concentrò il mio
spirito, e fu ad un tratto tutto assorto in Dio, in questo tempo, mi
trovai in un luogo quanto mai bello e delizioso, che io non so
descrivere la sua bellezza, in questo luogo vedevo Dio che si
compiaceva e deliziava con la povera anima mia, che sotto la forma di
agnelletta tornai a rivedere.
Questa la vedevo tutta
risplendente e bella, al collo teneva legata una leggera catena d’oro
intarsiata di gemme preziose d’infinito valore. Dio si degnava di
tenerla presso di sé, per mezzo di questo nobile e prezioso legame, a
sé l’univa, appresso di sé la conduceva, compiacendosi di vederla tanto
vicina a lui. Così Dio prese a parlare con la sua agnella: «Rallegrati,
o mia diletta, allontana da te il soverchio timore, non vedi che con
vincolo indissolubile sei unita a me, non potranno giammai i tuoi
nemici separarti da me; vivi sicura. amami con fedeltà: ché il tuo
amore saprò abbondantemente premiare nel tempo e nell’eternità».
A
queste amorose parole la povera anima mia si annientò in se stessa, e
con lacrime abbondantissime, proruppe in accenti di amore ardentissimo
verso il suo buon Dio e di umiltà profondissima, confessando la propria
miseria e la propria viltà. Attribuendo questo speciale favore
all’infinita bontà di Dio, riconoscendomi affatto indegna delle sue
divine misericordie.
Per tre giorni restò impresso nella mia
mente questo favore ricevuto da Dio, e nell’anima ne godetti i buoni
effetti. In questi tre giorni, nella santa Comunione, tornavo a vedere
la stessa cosa, che Dio, per sua bontà, teneva l’anima mia al suo
fianco sotto la forma di agnella, la quale vedevo che in quel luogo
vagava di qua e di là, per godere l’amenità del delizioso luogo in cui
si trovava. La vedevo sempre fissa, rimirando il suo divino pastore,
per timore di perderlo di vista e per non privarsi del piacere che
sentiva nell’anima di godere la sua amabile presenza, che nel cuore mi
destava un amore puro e santo che allontanava ogni desiderio, ogni
pensiero mondano e sensibile; questi tre giorni li passai tutta assorta
in Dio.
63.6. Persi di vista il mio Dio
Passati i tre
giorni, perdetti la vista del mio Dio, niente più vidi, niente più
capivo della situazione dell’anima mia. Oh Dio, qual pena! Non è
esprimibile! Ecco, tutto ad un tratto, si trovò il mio spirito in folte
tenebre, in questa penosa sottrazione, con somma premura andavo
cercando il divino mio pastore, fra gemiti e pianti, affannosi sospiri.
Andavo fra selve, monti e boschi, raminga cercando il mio amato
pastore; ma, per quante diligenze facessi, non lo potevo rintracciare,
mi affliggevo, amaramente piangevo, per avere così rapidamente perduto
il mio amato tesoro. Dubitavo di aver dato a lui qualche disgusto,
piangevo dirottamente, rimproverando me stessa per averlo perduto di
vista, ne incolpavo la mia negligenza, la mia cattiva corrispondenza.
Ah sì, a questa ne davo la colpa: «Avete ragione», dicevo, «avete
ragione, o mio Dio, di abbandonarmi! Confesso umiliata la mia
ingratitudine. Deh, Gesù mio, perdonatemi per carità, prendetevi
qualunque soddisfazione, castigatemi come volete, ma fatevi dalla
povera anima mia trovare. Io non reggo senza vedervi. Io ho perduto
l’intima vostra presenza, per carità scopritevi al mio intelletto.
Ditemi dove siete nascosto. Dove siete andato tanto lontano da me».
Con una canzoncina amorosa, sfogavo il mio dolore, ne pongo qui varie strofette:
Piango,
né può giammai finire il pianto mio, finché il mio caro Dio, non giungo
a ritrovar. Dove, mio ben, tu sei?Ove da me ne andaste lontano, e mi
lasciasti misera senza te. Dove mi porto, o guardo, orrore io vedo e
sento, tutto mi fa spavento, tutto mi è pene e dolore, mi strazia e non
mi uccide, spietata ognor la morte e chiuse ohimè le porte, scampo non
trovo più. E se per me non mai,vi fosse, o Dio, perdono, sappi che tua
pur sono e sempre tua sarò. Ti amo, sebben mi vedo nemica agli occhi
tuoi, fuggimi quanto vuoi, sempre ti seguirò.
63.7. Breve riposo per il mio spirito
Fatte
queste ed altre simili esclamazioni, mi davo in preda al dolore, acciò
facesse crudo scempio di me; in questa afflittissima situazione, si
trovò il mio spirito per lo spazio di nove giornate, cioè dal giorno 6
febbraio 1822 fino al dì 15 del suddetto mese. Furono per me, questi
nove giorni, molto dolorosi, che non ho termini di poterlo spiegare. Ma
vostra paternità reverendissima, molto bene sa e m’insegna, cosa mai
sia questa sorta di patimenti spirituali, che si può dire per verità
che a Dio solo sono noti, potendoli accrescere e diminuire a suo
piacimento. Questi portano l’anima ad un patire sopra le proprie forze,
essendo questo un patire fuori dai propri limiti, che non si può
manifestare, e senza una grazia speciale e soprannaturale del Signore
non si potrebbe reggere, ma si andrebbe a soccombere se non nell’anima
almeno nel corpo. Passato il giorno nono di questi gravi patimenti,
essendo propriamente derelitta del tutto, il Signore si degnò per la
sua infinita bontà sollevarmi da queste pene.
Ero in orazioni
nella mia cappella, circa le ore cinque della notte, vale a dire un’ora
e mezza prima della mezzanotte, tutto d’un tratto Dio si degnò di
sollevare il mio spirito, e per via di intelligenza mi diede a vedere
il cammino che aveva fatto il mio spirito in quelle nove giornate di
patimenti. Mi consolò col farmi vedere che era già terminato per me
questo scabrosissimo cammino, e che era ormai giunta l’ora di dare al
mio spirito, affaticato e stanco, un breve riposo. Come difatti seguì.
Adesso, alla meglio che potrò, darò ragguaglio di quanto seguì nel mio
spirito, e dei buoni effetti che sperimentai nell’anima. Mi accingo
dunque a raccontare il fatto, alla maggior gloria di Dio, e per
obbedire alla vostra paternità reverendissima, che mi ha comandato di
scrivere, invoco l’aiuto dello Spirito Santo per potermi spiegare.
63.8. Un tesoro di immenso valore
Il
dì 15 febbraio 1822, mi trattenevo in cappella ad orare, come già
dissi, si sollevò ad un tratto il mio spirito e da perfetta quiete fui
sopraffatta. In questo tempo vidi il mio spirito che stava in un’orrida
foresta, tutta intralciata di montuosi boschi e solitarie selve, che il
solo vedere luogo così deserto e afflittivo intimoriva il mio cuore. La
maggior pena era sentirsi in quel solitario luogo, lo strepitio ed il
ruggito di molti animali feroci le cui grida facevano terrore; questi
animali feroci, io ben conoscevo, erano i miei spietati nemici, che
tutti congiurati contro di me, cercavano a tutti i costi di
spaventarmi, perché avessi retrocesso il cammino, e non mi fossi più
inoltrata. In questo solitario luogo vedevo il mio spirito tremare,
ramingo, negletto, vestito di bianca e rozza tonaca, nelle mani portava
un tesoro di grande valore, che cercava con ogni diligenza di custodire
e mettere in salvo, mentre i miei nemici cercavano di involarlo dalle
mie mani: lo vedevo dunque tutta sollecitudine affrettarsi per il
dritto sentiero, per rendere sicuro questo tesoro dalle mani dei
nemici. Obbligato era il mio spirito di portarlo allo scoperto e nelle
proprie mani, a vista dei propri nemici, senza poter loro occultare un
tesoro di s’immenso valore. Questo mi pare che voglia significare, al
mio sciocco parere, che 1’anima non può occultare ai suoi nemici di
amare il suo tesoro che è Dio, deve dunque portarlo allo scoperto, che
come nelle mani, a fronte dei suoi nemici, e dalle loro insidie, dove
l’anima, in questo penoso cammino, fidarsi puramente di Dio e con
frequente ricorso pregarlo di abbreviare questo penoso cammino, che se
fosse più lungo, di certo, l’anima non potrebbe reggere e andrebbe a
pericolo di morire, per i gravi patimenti che, senza una grazia
speciale di Dio, non si può a questa sorta di patimenti sopravvivere.
Vedevo dunque il mio spirito affaticato e stanco, per il laborioso
viaggio che aveva già fatto. Era ancora tutto grondante di gelido
sudore, per le pene sofferte, ciò nonostante, non curando la propria
fatica, affrettava il passo, camminando con molta celerità teneva
sempre fisso lo sguardo nel suo amato tesoro, dubitando ad ogni passo,
che dai suoi nemici non gli venisse rapito.
63.9. La maggiore consolazione: vedere Dio
Ma
buono fu per me, che Dio per sua bontà, mosso a compassione, dall’alto
di un monte, poco distante, mi si fece vedere, applaudendo con somma
gioia, il mio spirito, che tanto si fosse affaticato, per amor suo, mi
diede a vedere che era già in salvo. Il resto del video che mi restava
da fare era breve, e lo vedevo tutto scortato dagli angeli santi, i
quali mi facevano coraggio a non aver timore dei miei nemici, mentre
loro vigilavano alla custodia dell’anima mia. Erano in quel luogo per
difendermi dalle insidie dei miei nemici. La cortese esibizione di
queste milizie angeliche, l’impegno che mostrarono questi celesti
personaggi di difendermi, e custodirmi dai miei nemici, questo fu per
me di molta consolazione. Ma la maggiore mia consolazione fu di vedere
Dio medesimo, tutto cinto di luce, che da quel monte scendeva con sommo
giubilo, il quale si fece incontro alla povera anima mia per
abbracciarla. A vista così esuberante di amore, a eccesso di sì
straordinaria carità di un Dio di infinita maestà, la povera anima mia,
sopraffatta da questo eccesso di bontà, cento e mille affetti insieme
vennero ad assalire il mio cuore. L’amore, il rispetto, la riverenza,
l’umiltà profondissima, l’annientamento di tutta me stessa. Alla sua
divina presenza si prostrò la povera anima mia, genuflessa ai suoi
santissimi piedi tutta dolente e compunta, altro non cercava dal suo
Dio che il perdono dei suoi gravi peccati e la grazia di amarlo con
fedeltà nel tempo e nell’eternità. Ma Dio, dimentico affatto di tutti i
miei trascorsi, acceso del suo santo amore, abbracciò il mio spirito e
dolcemente lo fece nel suo castissimo seno riposare, mostrando i suoi
purissimi affetti verso l’anima mia, non meno, ma assai più che un
amoroso padre, che va incontro ad un’amata sua figlia, che abbia fatto,
per amor suo, un lungo e penoso viaggio. E chi mai potrà ridire, qual
gaudio di paradiso, sperimentò il mio cuore! Oh, come ad un tratto
cessarono tutte le mie pene! Un torrente di dolcezza divina, scorreva
nel mio spirito, che mi faceva godere un bene inenarrabile. La celeste
consolazione fu permanente in me, per molti giorni.
63.10. Ti porterò sulle mie spalle
Il
dì 7 marzo 1822, mi trattenevo in orazione molto profonda, quando ad un
tratto il mio spirito si trovò alla sponda di un grande lago, le cui
acque erano tutte spumacciose e lezze, che facevano orrore al solo
mirarle. Io conoscevo bene, che questo grande torrente lo dovevo
passare, e non sapevo come dovevo fare. Mi sentivo struggere il cuore,
mancandomi la maniera ed il mezzo per fare ciò. Ero per questo tutta
mesta e dolente, ricorrevo al mio Dio con fervide preghiere acciò mi
aiutasse. Fatta questa preghiera, mi si presentò il grande patriarca
san Giuseppe, il quale con voce piacevole, così mi disse: «Figlia,
perché tanto ti rattristi? Temi tu di passare quelle acque? Ah, non ti
affliggere per questo, perché io sopra le mie spalle ti tragitterò da
questa all’altra sponda, altro non devi fare che sostenerti sopra le
mie spalle, in questa guisa non patirai naufragio».
Dopo dette
queste parole, disparve il grande patriarca, lasciando nel mio cuore
un’indicibile consolazione ed una ferma speranza nella sua
cordialissima esibizione. Umilmente lo ringraziai, caldamente mi
raccomandai alla valevolissima sua protezione, ciò nonostante, sentivo
tutto il peso della mia grave tribolazione, trovandomi immersa nelle
folte tenebre dell’intelletto, uno smarrimento sentivo nello spirito,
che mi rendeva afflitta e mesta, dubitando di annegare in quelle
spumacciose acque. Non mi mancava per questo la fiducia nel santo
patriarca, ma ne andavo meditando le sue parole. Dicevo fra me stessa:
«Mi ha detto «sostieniti sopra le mie spalle che io ti tragitterò da
questa all’altra sponda», dunque, io devo da me sostenermi? E come farò
mai, io che sono tanto debole e miserabile? E se mi manca la forza di
sostenermi, io sarò perduta per colpa mia? Perché sostenersi sopra le
altrui spalle, se corri il pericolo di cadere? Dunque io non sono
sicura di scampare questo pericolo. E difatti, è così, perché non mi ha
detto san Giuseppe che mi avrebbe portato sopra le sue braccia, allora
sarei stata sicura, ma mi ha fatto ben intendere che ci vuole la mia
cooperazione».
A questa riflessione, piena di timore, mi
rivolgevo al mio Dio, e lo pregavo con calde lacrime a darmi aiuto per
sostenermi ferma ed immobile sopra le spalle del santo patriarca, per
così scampare il grave pericolo che mi sovrastava, di annegare in quel
precipitoso torrente. Ogni giorno andava crescendo il mio timore e
maggiore si faceva sempre più la mia pena.
63.11. Il timore di perdere il mio Dio
In
questo stato di affanni e pene passai dodici giornate, vale a dire dal
giorno 7 marzo fino al giorno 19, festa del santo patriarca, nel qual
giorno mi trovai con indicibile contento tragittata all’altra sponda di
quel funestissimo e pericolosissimo lago. E così mi trovai fuori da
questo pericolo, per la quale grazia resi infiniti ringraziamenti al
Signore e al mio grande protettore san Giuseppe.Ma non cessarono per
questo le pene mie e le mie gravi afflizioni, perché mi trovai sola,
raminga, in una solitaria campagna senza veruno che mi additasse il
giusto sentiero di quella. Piangevo, pregavo il mio Dio di non
abbandonarmi in questa mesta solitudine. «Degnatevi», gli dicevo, «mio
amorosissimo Dio, di aver pietà di me, misera peccatrice; mostratemi la
strada che mi conduce a voi, io sono del tutto smarrita in questa
vostra campagna; mio sommo bene, mio sommo amore, voi lo vedete! Voi lo
sapete che io non amo altro che voi, mio Dio. Io vi cerco con tanta
ansietà e non vi trovo. Eppur io vi sento in me, nel tempo stesso in
cui non vi vedo il cuor mio pur vi possiede, mi pare certo che voi
siete con me. Ma questa cognizione era nel mio spirito molto occulta,
era momentanea e non durevole, mentre appena l’anima andava per
rallegrarsi di stare unita con il suo Dio, più non lo trovava, né lo
sentivo in me. In questo tempo mi sentivo proprio struggere d’amore
verso di lui, che ben spesso il mio spirito era sopraffatto da un
deliquio di santo amore, che mi alienava dai propri sensi, per la
passione amorosa e dolorosa insieme, perché ad ogni istante temevo di
perdere il mio Dio. Questo è un martirio dell’anima tanto afflittivo
che non ci sono termini sufficienti di poterlo spiegare. Nobile è per
se stesso questo patire, ma tanto afflittivo che non si può spiegare.
L’anima per questo perde ogni impressione sensibile ed umana, perde
ogni gusto, ogni sollievo sensibile, ogni premura, ogni umana cura, ma
tutto le si rende insipido e senza gusto, tutte le cose del mondo più
non conosce, e che più per questa anima mia più non vi fossero, vivendo
dimentica affatto di tutto il sensibile, solo le sue premure tutte sono
di rintracciare l’amato suo Dio, pensa solo di andare appresso al suo
Signore, qual perduto amante.
Mi trattenevo dunque in questa
vasta ed amena campagna, ma la sua amenità io non curavo, solo il mio
Dio io ricercavo, in questo solo, tutto occupato era il mio cuore, ma
il peggio era che in questo soggiorno, ora si faceva notte ed ora
giorno; di tratto in tratto era sopraffatto il mio intelletto da folte
tenebre e, per conseguenza, perdevo affatto la vista e l’intelligenza
di ogni cosa e mi trovavo del tutto smarrita. In questo stato di cose
ricorrevo alla fervida preghiera, tramandando dal cuore infuocati
sospiri, i quali tutti li inviavo per rintracciare il sommo mio bene,
servendomi ancora delle strofe dei salmi del divino ufficio, per così
dimostrare a Dio la mia ambascia e la mia grave afflizione. Gemevo,
languivo in mezzo a tanta pena, senza però la minima perturbazione, ma
cara e grata mi era questa mia pena che non l’avrei cambiata con tutto
l’oro del mondo, e né con tutte le sue false consolazioni.