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62 – RIPARARE IL DANNO ETERNO DI TANTE ANIME
Il
giorno 8 dicembre 1821, festa dell’Immacolata Concezione di Maria
Santissima sempre Vergine, nella santa Comunione, dopo aver ricevuto
questo divino sacramento eucaristico, questo celeste pane di vita
eterna, con profonda umiltà e con sincero affetto mi riconoscevo
indegnissima di sì alto favore. Ero profondata nel proprio mio nulla,
tutta intenta a piangere le gravi mie colpe e le enormi mie
ingratitudini.
Io dicevo: tanto ingrata verso Dio e Dio tanto
liberale e benefico verso di me. A confronto così dissonante si
struggeva il mio cuore in lacrime d’amore, di gratitudine e di dolore
per averlo tante volte offeso. Con fermo proposito promettevo al mio
Dio di amarlo e servirlo con ogni fedeltà e con tutta l’ampiezza del
mio povero cuore e con tutta l’estensione dell’anima mia.
Nel
tempo che stavo così concentrata e che l’anima mia si deliziava con il
suo Dio sacramentato, tenendolo nel mio petto lo stringevo al cuore con
sommo affetto e mi compiacevo di offrirgli tutta me stessa senza
intervallo, senza riserva. Nel tempo dunque che mi trattenevo in santi
colloqui con il mio Dio, tutti diretti alla mia eterna salute, mi sento
dire nell’intimo dell’anima: «Mira, o figlia, quanto è disprezzato il
mio amore da questi uomini ingrati!». Volgo lo sguardo e vedo ad un
tratto tutta le iniquità che inondano la terra, tutte le indignazioni
che si commettono contro l’infinita maestà di Dio. Oh come restò la
povera anima mia addolorata ed afflitta, che si annientò nel proprio
suo nulla confondendosi altamente per vedere tanto offeso ed
oltraggiato Dio. Tutte queste indignazioni io le vedevo molto da
lontano, ma bene distinguevo un immenso popolo che, dato in preda alla
dissolutezza e ad ogni sorta di iniquità, correvano tutti dietro alle
loro passioni pervertendo le massime del santo Evangelo, mettendosi
sotto i piedi la santa legge di Dio e i suoi santi comandamenti,
calcandoli con sommo disprezzo e con orgoglio ben grande.
Vedevo
Dio sdegnato per questo che, a mano armata, voleva punire la loro
baldanza e la loro temerarietà e sfrontatezza. Mosso Dio dal suo
giustissimo furore, con colpo di spada tagliente voleva nel mondo
scaricare il funesto colpo dell’irritato suo sdegno col far piombare
sopra questi temerari un severo castigo.
Aveva già misurato il
colpo, quando la povera anima mia, spettatrice di questo funesto fatto,
accesa di carità verso il mio prossimo, mossa dalla compassione, per
non vedere una simile strage, piena di spavento e di terrore insieme,
per vedere Dio sdegnato, ciò nonostante la fraterna carità vinse il
grave mio timore. Spiccai quasi un rapido volo e mi presentai avanti al
mio Dio, e con umilissima preghiera e profondissimo rispetto mi
presentai genuflessa al suo augustissimo trono, il quale mi abbagliava
la vista per la sua immensità, e così lo pregai: «Mio Dio, Padre del
nostro Signore Gesù Cristo, abbiate pietà di noi, miseri peccatori.
Protector noster, aspice, Deus, respice in faciem Christi tui. Mio Dio,
Padre delle divine misericordie, non ci abbandonate al furore della
vostra inesorabile giustizia, noi meritiamo il flagello, è vero, per la
nostra iniquità, ma vi prego di ricordarvi che Gesù Cristo è morto in
croce per noi».
62.1. Placai lo sdegno di Dio
Con
queste ed altre simili parole terminavo la mia preghiera. Sopraffatta
dalla fiducia negli infiniti meriti di Gesù Cristo, con santo ardire mi
approssimavo a Dio, e ritenni il colpo già vibrato dalla mano
onnipotente di Dio. Sospeso che ebbi il funesto colpo, mi prostrai ai
suoi santissimi piedi. «Eccomi», gli dissi, «o mio Dio, Padre del mio
Signore Gesù Cristo, eccomi prostrata avanti a voi, disponete di me
come più vi aggrada, prendete sopra di me qualunque soddisfazione, ma
placate il vostro giustissimo sdegno. Non castigate, non condannate
questi uomini miserabili all’eterna morte, ma usategli misericordia. Vi
prego di ricordarvi la preghiera che vi fece il vostro santissimo
figliolo sopra la croce, che vi disse: Padre, perdona questi
miserabili, che non sanno quello che fanno. Anche io, da miserabile
peccatrice come sono, unita agli infiniti meriti di Gesù Cristo, vi
dico: Pater dimitte illis, non enim sciunt quid faciunt».
Con
questi ed altri termini ed amorose espressioni placai lo sdegno di Dio,
che si degnò sospendere un colpo così fatale e lacrimevole, mentre
questo castigo che aveva vibrato Dio nel mondo, per molti abitanti di
esso, non sarebbe stato solo temporale, ma sarebbe stato eterno. Motivo
per cui il povero mio spirito ne ebbe tanta compassione, che in quel
momento, per impedirlo, mi sarei fatta straziare dai più crudeli
tormenti, senza più avere alcun riguardo di me stessa né al mio proprio
interesse spirituale, per riparare il danno eterno di tante povere
anime, che a migliaia sarebbero piombate all’inferno.
Quando
tornai nei propri sensi, ricordai che il mio padre spirituale mi aveva
comandato di non fare più offerte di patire senza il suo permesso. Mi
trovai molto afflitta, dubitando di aver mancato alla santa obbedienza.
Mi portai subito dal lodato mio padre spirituale, e piangendo gli feci
il suddetto racconto, e gli dissi che in quel momento non ricordai
l’obbedienza che mi aveva imposto, mentre il mio spirito era restato
tanto sopraffatto dalla carità, e per non vedere tante anime
eternamente perdute, io mi ero offerta di patire, per placare la divina
giustizia, unendo la mia povera offerta a quella che fece Gesù Cristo
Signore nostro sopra l’albero della croce.
A suo esempio il mio
spirito è stato portato dalla sua carità a farmi fare questo
sacrificio. In quel funestissimo momento non potei fare a meno di
offrirmi, perciò le domando perdono, scusa se non l’ho obbedito.
«Figlia», mi rispose il suddetto padre,
«non vi affliggete per questo, Dio come padrone vi ha fatto una
sorpresa. State quieta che non avete disobbedito, perché conosco bene
che vi deve essere in quel momento mancato il tempo alla riflessione.
Dio vede il mio cuore, sa perché vi ho fatto questo comando. Io altro
non desidero che voi facciate in tutto e per tutto la sua santissima
volontà. Questi sono i miei sentimenti, state quieta e contenta».
Le
sue parole molto mi consolarono e restò quieto e contento il mio
spirito, ma la povera mia umanità di questa offerta ne sentiva tutto il
peso, tutto l’aggravio, rappresentandomisi alla mente gli acerbi
patimenti sofferti nelle altre due forti sanguinose battaglie, già
sostenute con la potestà delle tenebre, e i molteplici supplizi che mi
avevano fatto patire con tanta crudeltà e strazio, che mi credevo
certamente di finire la vita.
62.2. Scusatemi, mio Dio!
Tutte
queste riflessioni mi recavano un timore ben grande; dubitando della
mia debolezza, dicevo fra me stessa: chissà se reggo la diabolica
malizia, chissà che io non tradisca il mio Dio con l’arrendermi alle
loro diaboliche suggestioni, o come farò mai? Piena di mestizia e di
timore mi rivolsi al mio Dio e gli dissi: «Mio caro Padre, degnatevi di
non abbandonare una povera vostra figlia, che in voi confida, in voi
spera. Mi sono offerta a voi, è vero, per amore dei miei fratelli, che
voi mi avete comandato di amare come me stessa. Se mi sono ardita
levarvi il flagello dalla mano, spero di non essermi opposta al vostro
divino volere, mentre io con le mie deboli forze non avrei al certo
potuto fare la minima resistenza al vostro onnipotente braccio. E come
potevo io fare a voi, mio onnipotente Signore, una simile resistenza?
Io che sono un nulla? E che per i miei gravissimi peccati merito ogni
momento di essere sepolta viva nell’inferno! Credo certamente che la
vostra infinita bontà e misericordia abbia voluto trionfare sopra la
mia viltà e debolezza; dunque, mio amorosissimo Dio, non vi sdegnate
contro di me per la resistenza fattavi, mentre mi protesto che altro
non voglio, altro non bramo che l’adempimento perfetto della vostra
santissima volontà, unicamente a voi voglio piacere, in tutti i momenti
della mia vita. Ah, Gesù mio amabilissimo, io mi rivolgo a voi,
proteggetemi, difendetemi, ditemi se io sono in grazia vostra, se voi
mi soccorrerete in tutti i miei bisogni. Ah, non mi abbandonate, per
carità, al furore della divina giustizia, che vuole da me
soddisfazione, quale soddisfazione le potrò dare io, che sono tanto
scellerata e tanto peccatrice? Io, verme della terra, ho disarmato il
suo braccio onnipotente. Ah Gesù mio, io mi confondo! Mi sono offerta a
sostenere il suo sdegno, come farò io a sostenerlo? Dove mi nasconderò
per non essere perseguitata dal suo giusto furore? Aiutatemi Gesù mio,
aiutatemi per carità. Nascondetemi nella piaga amorosa del vostro
sacratissimo costato. Intra vulnera tua absconde me, et ne permittas me
separari a te. Ab oste maligno defende me».
62.3. Tu sei per me spada, scettro e corona
Fatta
la suddetta preghiera, dette queste ultime parole, con viva fede,
speranza e amore ardente, con profluvio di lacrime che a larga copia
dagli occhi versavo, parte per il grave timore di vedermi perseguitata
dalla divina giustizia, parte per il grande amore che sentivo verso
Dio, compiacendomi di essere ancora da lui perseguitata, per dargli
piacere, e così soddisfare pienamente la sua santissima volontà.
Piangevo
ancora per vedermi assicurata nel cuore amorosissimo di Gesù Cristo, in
questa piaga santissima l’anima mia si abbandonò, godendo una perfetta
calma si sopì tutta in Dio, e dolcemente riposò nella speranza, nella
fiducia che le comunicava il medesimo Dio.
Dopo essermi così
dolcemente riposata ed insieme ricreata nell’amor santo di Dio, se ne
stava il mio spirito in una perfetta tranquillità, godendo un intimo
raccoglimento di tutte e tre le potenze dell’anima le quali stavano in
perfetto silenzio tutte riposate ed intimamente unite in Dio; mentre
stavo in questo perfetto e dolce riposo, così mi parlò Dio, a mia
confusione ben grande, ecco le sue parole che per obbedienza le scrivo,
profondata nel proprio mio nulla. «Figlia», mi disse, «diletta mia,
amica mia, sposa mia, riposa in pace, non temere il furor dei tuoi
nemici, chi ti potrà nuocere, chi ti potrà sovrastare, se io sono con
te? Tu sei spada al mio fianco, sei scettro nella mia mano, sei corona
nel mio capo...» A queste misteriose parole, si destò il mio spirito,
senza però alterare la pace e la tranquillità che godeva, più col
sentimento del cuore e con l’affetto dell’anima andavo nella mia mente
considerando e contemplando le suddette misteriose parole.
«Mio
Dio», diceva, «verità infallibile, come? io spada al vostro fianco, io
scettro nella vostra mano, io corona nel vostro santissimo capo?». E
con lacrime abbondantissime, mi umiliavo profondamente: «Mio Dio, io
che sono la più indegna peccatrice che abita la terra e non merito che
dal vostro augusto trono gettiate neppure un’occhiata sopra di me?». E
piangendo dirottamente, mi trovai molto umiliata e mortificata, perché
non distinguevo il senso delle suddette misteriose parole; ma un raggio
di eterna luce rischiarò la mia mente e mi fece bene intendere il
significato delle misteriose parole; e così tutta mi consolai ed ecco
il sentimento che ne ebbi: «Le parole che udisti non tendono che alla
mia gloria, mia diletta figlia, non ti rammaricare in te stessa, tu
dubiti di troppo inoltrarti, hai ragione, l’umile tuo sentimento mi dà
piacere, ma il tuo soverchio timore nasce perché non sai interpretare
il giusto senso delle mie parole, ma riflettile bene, perché per mezzo
della mia grazia, nel giusto senso le comprenderai».
E difatti
così fu. Conobbi chiaramente che la spada a nulla vale per se stessa,
se non quando è impugnata da una mano guerriera, che la sappia
adoperare; uno scettro a cosa serve? solo si stima in mano di un
potente sovrano; cos’è per se stessa una corona, nobilitata viene allor
quando il sovrano lascia che cinga il suo capo regio o imperiale;
sicché vengono questi ornamenti medesimi a nobilitarsi, ad ingrandirsi,
per la nobiltà del personaggio che si degna di usarli.
Persuasa
di questa verità, mi compiacqui altamente in Dio e nella medesima sua
grandezza, compiacendomi e sprofondandomi nella mia bassezza,
confessando con straordinario giubilo di essere un nulla dinanzi al
cospetto di Dio, come ancora al cospetto del cielo e della terra, e di
tutti gli uomini. Qual consolazione rechi alla povera anima mia la
cognizione di questa verità, non mi è certo possibile poterlo spiegare,
perché l’anima allora si trova nella vera sua proprietà e vera
cognizione quando con giustizia conosce e confessa essere un vero
nulla, e così viene a rendere tutto l’onore e la gloria all’immenso,
all’incomprensibile Dio, per il quale la povera anima mia si strugge
d’amore in lacrime per la compiacenza di conoscere il bene sommo che è
Dio e in Dio.
Dal giorno 8 dicembre 1821 fino al giorno 23 del
medesimo mese, il mio povero spirito l’ha passati in gravi patimenti ed
affannose pene; ma queste medesime pene erano alleggerite dai conforti
che mi venivano, di tratto in tratto, somministrati dalla grazia del
Signore, specialmente nella quotidiana santa Comunione, assicurandomi
Dio della sua speciale protezione e del suo aiuto, in tutti i miei
travagli ad afflizioni di spirito di cui ne andava ricolmo. Così
restava consolato e fortificato il mio spirito in tante e sì acerbe
pene.
62.4. Dio mi si fece vedere sotto forma di Bambino
Il
dì 25 dicembre 1821, vigilia del santo Natale, Dio si degnò di ricreare
il mio spirito, ad un tratto sollevarlo da tutte le pene che aveva
sofferto negli scorsi giorni, riempiendolo di gaudio celeste, facendomi
godere un bene di paradiso, mi si fece vedere sotto la forma di
Bambinello, tutto raggiante di splendida luce.
A vista così
mirabile e divina, quanto mai restasse la povera anima mia sopraffatta
da tanto splendore divino, io non so spiegarlo, quali fossero i miei
accenti, quali fossero le mie parole non saprei dirlo, quali fossero
gli affetti del povero mio cuore non so di certo rintracciarli, quali e
quanti fossero i devoti miei sentimenti verso Dio, non so di certo
manifestarlo. Mi umiliai, mi sprofondai nel proprio mio nulla, mi
prostrai genuflessa ai suoi piedi, e in spirito e verità tutta al
divino infante mi consacrai, tutta a Gesù Bambino mi donai, godendo di
una vista sì amabile e cara, mi scordai affatto di tutte le miserie di
questo basso mondo e di tutti gli abitanti di esso.
Godevo un
vero paradiso di contento, che comunicato mi veniva da quella luce
inaccessibile e divina. Quando godevo di questo grande bene inarrabile
ed incomprensibile, fui sopraffatta da un santo timore di perderlo,
ricordandomi di essere ancora viatrice su questa misera terra ed in
pericolo di perdere questo gran bene, e perderlo ancora per sempre.
A
questa riflessione qual fosse la pena mia a Dio solo è nota, mentre io
non la so esprimere; una dirotta pioggia di lacrime dagli occhi versai,
dalla pena che con affannosi sospiri, mi rivolsi al mio Bambinello
Signore e gli dissi: «O Gesù mio, chi mi assicura di possedermi per
sempre? Voi solo potete darmi questa sicurezza! Ah non tardate più di
assicurare il mio povero cuore, voi ben conoscete quanto grande è la
pena mia, ah, Gesù caro, vi prego, per l’amore che mi dimostrate nel
vostro santo Natale, di darmi la sicurezza che io per sempre vi amerò,
sì che vi voglio amare e amare per sempre, e per tutta l’interminabile
eternità. Questa grazia la voglio, Gesù mio, non me la negate per
carità, perché voi mi vedrete morire ai vostri santissimi piedi, per il
grande desiderio che io sento di amarvi».
Con queste ed altre
simili espressioni il mio povero cuore era tutto infiammato di santa
carità, e così acceso del santo amore di Dio, che più non poteva
contenerlo. Ero fuori di me stessa, ed in questa situazione andavo
ripetendo: «Gesù mio, datemi la sicurezza di amarvi e di amarvi in
eterno. E se per mia somma disgrazia non vi avessi ad amare per
l’eternità, vi prego, vi supplico di levarmi la vita in questo momento
che per pura vostra misericordia la povera anima mia vi ama e vi ama di
cuore. Voi lo vedete, voi lo sapete se in questo momento vi amo! Vi
prego di aver pietà del mio cuore, che già per il passato feriste del
vostro santo amore».
Fatte queste espressioni, non potendo più
reggere, né contenere l’amore e la santa carità che faceva dolce
strazio del mio povero cuore, mi abbandonai in braccio del medesimo
amore, acciocché facesse dolce scempio di me.
62.5. Ho scolpito nel tuo cuore il mio nome
In
questo tempo fui rapita da dolcissimo sonno, e l’anima mia godeva una
perfetta quiete di soavità ripiena; in questo tempo che dolcemente
riposavo, tornai a vedere il divino infante, il mio caro Gesù, che
nelle sue mani divine teneva il mio cuore. Scolpito in esso cuore
vedevo a caratteri d’oro ed indelebili il nome santissimo di Gesù e
sentivo dirmi: «Vivi sicura che, mi amerai, e mi amerai per sempre, ho scolpito nel tuo cuore il mio nome, non potrai dimenticarlo giammai».
Queste
amorose parole furono per me di tanta consolazione, che restai
pienamente contenta, rendendo infinite grazie al Signore, che si fosse
per sua infinita bontà compiaciuto di appagare le ardenti mie brame,
umiliandomi profondamente per la grazia ricevuta riconoscendomi affatto
indegna, resi le dovute grazie al Signore.
Il giorno 27 dicembre
1821, avevo passato questi tre giorni in una perfetta quiete e in una
pace di paradiso, godendo nell’anima una dolcezza tutta spirituale, mi
sentivo tutta trasportata dal santo amore di Dio, non avendo altro
pensiero che perfezionare la mia povera anima, per renderla così grata
al suo amorosissimo Dio.