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58 – TI FARÒ PARTECIPE DELLA MIA POTESTÀ
58.1. Volevo tacere per non essere molesta
Riprendo
il filo del racconto. Come poc’anzi ho detto, stetti altri quindici
giorni guardando il letto. Il mio padre spirituale per sua bontà ogni
giorno mi favoriva a celebrare la santa Messa, e mi somministrò in
questi giorni la santissima Comunione. Dovevo guardare il letto più per
la continua alienazione dei sensi che per la naturale debolezza per le
grandi e continue comunicazioni celesti e speciali favori di Dio.
Si
degnava Dio trattenere la povera anima mia in certi colloqui con la sua
divina sapienza, ma così belli, ma così alti ed eleganti che l’anima ne
restava rapita e santamente innamorata, godendo un bene di paradiso.
Restava estatica e tutta assorta in Dio per le alte cognizioni che
riceveva, che se in quel tempo avessi potuto scrivere, avrei detto
grandi cose riguardanti l’infinita bontà di Dio, molto profittevoli e
di molta consolazione per le anime che si danno alla vera sequela di
Gesù crocifisso.
Oh quanto sono ricche quelle anime che
abbandonando il mondo e la sua vanità, disprezzando se stesse. Cercano
solo, con l’esercizio delle sante virtù, imitare l’umanato Signore e,
per quanto sia possibile, copiare in se stesse i propri suoi lineamenti
e del crocifisso, loro maestro, essere perdute amanti. Questa è la vera
ricchezza, questa è la vera scienza, questa è la nostra vera, verissima
nostra felicità.
Riprendo a raccontare come passai i suddetti
quindici giorni che dovetti guardare il letto, alla meglio che mi sarà
possibile, proseguirò a manifestare i divini favori ricevuti, così
porrò fine a questo mio racconto, riservandomi, in fine di questo, di
manifestare altri patimenti sofferti in tempo della mia grave
tribolazione poc’anzi detta, volendoli a bella posta tacere per non
essere tanto molesta a chi legge, nel sentire tante barbare sciagure,
che mi pare si renda impossibile che si possano credere da chi legge e
da chi ascolta. Eppure la tribolazione fu assai più maggiore di quello
che possa mai da me dirsi, perché mi mancano i termini per poterlo
spiegare. Dio solo, che si degnò assistermi ed aiutarmi, lui solo
comprende quanto fosse il mio patire nella sua totalità.
Volevo
dunque occultarli, ma per espresso comando del mio padre spirituale mi
conviene narrarli alla meglio che so e posso del che farò in fine di
questo racconto dei surriferiti quindici giorni.
58.2. Avrai parte nel mio regno
Il
giorno 21 febbraio 1821 nel prepararmi per fare la santa Comunione, mi
diede Dio a godere nell’intimo dell’anima mia un gaudio, una dolcezza
straordinarissima, tutta propria del paradiso. Trovandomi immersa in
questo gran bene, chiedevo con tutta l’effusione del mio cuore al mio
Dio, di tornare per amor suo a patire nuovamente tutto quello che negli
scorsi giorni avevo di già patito e sofferto, mentre era tanto grande
l’amore e la carità che sentivo verso il mio Dio, che mi pareva poco
quello che avevo sofferto e patito. Chiedevo con somma ansietà di
viepiù patire per amor suo.
Piacque tanto a Dio questo mio desiderio che così si degnò parlarmi: «Mia
dilettissima figlia, oggetto delle mie più alte compiacenze, inòltrati
senza timore nei più ampi spazi della mia divinità. Il mio amore ti
trasse dal tuo proprio nulla per unirti perfettamente, per via d’amore
e di compiacenza, alla mia divinità. Compiaciti dunque, o figlia, di
godere di questo gran bene che ti somministra la mia medesima umanità
divina. Ecco l’amor tuo per la mia grazia fin dove giunse! Morta a te
stessa risorgi per me a una nuova vita. Tertia die resurrexit a
mortuis. Avrai parte nel mio Regno ed intanto in terra ti farò
partecipe della mia potestà. La mia potenza, la mia sapienza, la mia
bontà in te voglio magnificare, per dimostrare l’amore che ti porto.
Per mezzo della mia grazia sei divenuta terribile all’inferno, e alla
tua voce la potestà delle tenebre resterà confusa e il suo orgoglio
resterà da te, in mio nome, vinto e soggiogato, giacché per mezzo della
mia grazia arrivasti tanto oltre che potesti levarmi dalla mano il
terribile decreto».
A questi amorevolissimi tratti
dell’infinita bontà del mio Dio, qual fosse il profondo della mia
umiliazione non mi è possibile il poterlo ridire. Non trovavo termini
sufficienti per potermi inabissare nel proprio mio nulla, per quanto
era grande il sentimento di propria cognizione. Con abbondanti lacrime
ed intima sommissione esprimevo il vivo sentimento del povero mio cuore
al mio amorosissimo Dio, mostrandogli il mio amore e l’ardente mio
desiderio di compiacere in tutto e per tutto la sua santissima ed
amabilissima volontà.
In questi sentimenti amorosi passavo dal
mio letto le intere giornate, godendo un bene che mi rapiva il cuore e
mi teneva tutta assorta in Dio.
Per non dissipare il mio
spirito, in questi quindici giorni me ne stavo sempre chiusa all’oscuro
senza ricevere nessuno, fuorché quelle persone che erano di pura
necessità, servendomi a bella posta del mezzo termine della debolezza
per godere nella solitudine e nella quiete di quel bene che mi veniva
somministrato dalla grazia di Dio in larga copia.
58.3. Voglio morire crocifissa per amore del Signore
Il
giorno 22 febbraio 1821, la divina sapienza prosegue a parlare con la
povera anima mia, manifestandomi cose degne della sua infinita
grandezza, ma non posso dare di queste ragguaglio, perché precisamente
non le ricordo. Solo accennerò i sentimenti vivi dell’anima che,
sopraffatta dalla divina carità, si tratteneva ai piedi della croce,
parlando con il crocifisso suo bene, sapienza infinita.
L’anima
mia, ebbra di santo amore, così esclamava piangendo e sospirando,
chiedeva all’amato suo Signore di patire, così gli diceva: «Con te
voglio, o Signore, portare la mia croce e nella tua doglia atroce io ti
voglio seguir. Ma troppo inferma e lassa, donami tu coraggio in questo
alto e arduo viaggio della mia eternità. Dubito di smarrirmi sul monte
del dolore, ma il tuo santo amore mi riempie di speranza il cuor. Col
tuo prezioso sangue già mi segnasti i passi che io devo camminar.
Dunque ché più tardare? Sopra il Calvario io per suo amore crocifissa
voglio morire. Ricevi intanto, o mio Signore, la forte brama di questo
mio cuore, che fedeltà torna a giurar. Non che potranno né affanni, né
pene mai dividermi dal sommo mio bene, creature tutte, intendetemi
bene, quello che amo è il mio Gesù. Né terra, né mare, né il cupo
infernale dividermi mi possono dal mio Gesù. È tanta la fiamma che mi
arde nel seno che l’alma vien meno languire la fa. Oh croce, oh chiodi,
oh spine, non più tardate a farmi morir». Con queste ed altre amorose
espressioni la povera anima mia sfogava l’ardente brama di patire per
amore del suo Dio crocifisso.
Non tardò punto l’amato Signore a dare amoroso riscontro all’anima della sua gratitudine, così prese a parlare: «Qual
contento mi dài, o diletta mia figlia, nel vederti presso di me, scevra
affatto di ogni altro amore e di ogni affetto. Qual contento dài al mio
cuore, di quanta compiacenza mi sei. Io saprò ben premiare il tuo
amore».
A queste amorose espressioni viepiù si accresceva
la brama di patire. La mattina seguente quando mi favorì il mio padre
spirituale, per celebrare nella mia cappella la santa Messa ed insieme
somministrarmi la santissima Comunione, che io dal mio letto, priva di
forze ricevevo: «Padre mio», gli dissi, «mi faccia la carità, nel santo
sacrificio della Messa di questa mattina, torni nuovamente ad offrirmi
al Signore. Ratifichi di bel nuovo la mia offerta a Dio, gli dica pure
da parte mia che se è di suo piacere e di sua soddisfazione di vedermi
patire, io sono pronta per compiacerlo fino da questo momento, di
tornare a patire non solo tutto quello che ho sofferto e patito negli
scorsi giorni, ma ancora di più».
Il mio buon direttore molto si
meravigliò ed insieme si rallegrò di vedere in me tanta fortezza e
prontezza di patire per amore di Dio e in vantaggio del mio prossimo.
Ne ringraziò e ne diede lode a Dio, il quale per sua bontà si degnava
darmi tanta grazia. Mi promise di farlo con tutto l’affetto del suo
cuore. Io gli soggiunsi che avesse nella cappella bruciato sopra del
fuoco un poco di zucchero, che io intendevo di struggermi, per amore
del mio Dio, come incenso sul fuoco. Così si fece. Nel tempo che si
innalzava quel fumo, il mio spirito godeva una dolcezza, una soavità
propria di paradiso, che mi ricreò l’anima e il corpo.
58.4. Roma liberata dal grande castigo
Il
giorno 6 del medesimo mese di febbraio 1821, ebbi un preciso comando
dal Signore: che mi fossi portata alla chiesa di San Giovanni in
Laterano per ossequiare lui, la sua divina maestà, e fare i dovuti
ringraziamenti per la grazia ricevuta di aver liberata la città di Roma
dal grande castigo che la sovrastava, come si è già detto nei passati
fogli. Ed insieme avessi formato l’intenzione di prendere possesso di
quella chiesa a nome di tutti i cattolici, essendo la detta chiesa la
dominante di questa nostra città di Roma, questo atto io lo dovevo fare
per riacquistare il diritto che si era perduto di possedere la cattedra
dell’infallibile verità di Chiesa santa, come si è già detto a suo
luogo nei passati fogli. Mi fece conoscere Dio che a me conveniva di
riprendere questo possesso di già perduto, mentre io lo avevo
riacquistato per mezzo della sua divina grazia, con l’aver sostenuto
virilmente per amor suo un diluvio di gravissimi patimenti.
La
mattina seguente il giorno 27 detto, io comunicai al mio direttore
quanto Dio mi aveva comandato. Il buon religioso, al mio parlare,
raccapricciò e restò altamente sorpreso, parendogli veramente
impossibile il poterlo eseguire, mentre era tanto grande la mia
debolezza e prostrazione di forze che, se parlavo un poco a lungo,
venivo meno e avevo bisogno per rinvenire di odorare dell’aceto. E
questa gita io sapevo che si doveva fare il primo di marzo. Umanamente
pareva impossibile che mi potesse riuscire, neppure per lo spazio di
altri quaranta giorni. Ciò nonostante mi rispose il mio direttore che,
sebbene questo pareva impossibile, se Dio lo vuole mi darà la grazia,
la forza di poterlo fare, che se Dio voleva fare questo prodigio di
rendermi immantinente le forze, perché mettessi in pratica i suoi
divini ordini, credeva in dovere di non opporsi, sicché mi dette tutto
il permesso e la licenza di poterlo eseguire.
Il primo di marzo
1821, dunque, feci la mia gita a San Giovanni in Laterano, nel giorno
di giovedì. Mi alzai dal letto di buon ora, feci la santa Comunione
nella mia cappella, secondo il solito. Celebrò la santa Messa il mio
padre spirituale, e da quella mattina in poi mi tornarono le forze e
non dovetti più guardare il letto, fuori che quando il mio spirito era
tanto chiamato intimamente da Dio. Dovetti allora ricorrere ad
adagiarmi sopra il letto, perché restavo alienata dai sensi, e questo
lo facevo per occultare i favori celesti che ricevevo dal mio Dio a
quelli della mia casa, immaginandosi che fosse naturale debolezza.
La
gita si fece in carrozza, accompagnata dalle mie due figlie. Questo si
fece per espresso comando del prudente mio direttore che andassi in
carrozza, ma io avrei avuto tanto coraggio e spirito di fare il viaggio
a piedi, benché dalla mia abitazione vi sia molta lontananza. Il mio
buon amico e fratello in Gesù Cristo, che tutto sapeva unitamente al
mio padre spirituale, con altra carrozza in mia compagnia vennero a San
Giovanni, sopraffatti dallo stupore nel vedermi piena di spirito, senza
aver neppure bisogno di appoggiarmi.
Ascoltai una Messa, feci
tutta la navata di San Giovanni, mentre da una porta entrai e
dall’altra uscii. Feci la Scala Santa senza neppure appoggiarmi. Nel
ritornare a casa visitai la chiesa di Santa Maria Maggiore, e così
compii e soddisfeci a quanto mi aveva comandato Dio. Mi diede a
conoscere Dio che molto aveva gradito il povero mio ossequio e il mio
rendimento di grazie. Mi benedì, mi chiamò «sua amica carissima, figlia
obbediente alla sua divina volontà», mi fece ossequiare da molti santi
Angeli, mostrandomi a loro qual figlia sua prediletta arbitra del suo
cuore. Questa moltitudine di santi Angeli mostravano le loro alte
ammirazioni nel vedere la povera anima mia peccatrice tanto amata e
tanto favorita dal loro Creatore e supremo Signore. Pieni di gioia e di
contento tripudiavano di gaudio e con piena allegrezza cantavano inni
di gloria al loro Signore, magnificando le sue infinite misericordie.
Ne provarono ancora i buoni effetti delle divine misericordie le anime
sante del Purgatorio, perché io chiesi in grazia al Signore la loro
liberazione.
In quella santa giornata che Dio, per pura sua bontà, si mostrava tanto propenso e tanto liberale verso di me, che mi diceva: «Chiedi
quanto vuoi che tutto otterrai», mi approfittai di questa buona
occasione, gli dissi: «Mio Dio, padre delle divine misericordie, vi
prego di aprire le porte del Purgatorio, affinché vengano tutte quelle
anime benedette a lodarvi e benedirvi per tutta l’interminabile
eternità».
Al momento, per comando di Dio, andarono in
volo molti santi Angeli a dischiudere quelle ferali porte, e un numero
immenso di quelle sante anime se ne volarono al cielo, corteggiate dai
loro santi Angeli custodi.
Non dimenticai ancora di pregare per
la salute eterna di tutti i miei benefattori, e nuovamente mi promise
Dio che li avrebbe tutti salvati. Mi diede Dio a conoscere, ancora,
molte cose riguardanti i presenti bisogni della santa Chiesa e le sue
giuste determinazioni, che a suo tempo avrebbe prese sopra di essa.