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47 – L’EUCARISTIA È IL CENTRO DELLA MIA VITA
47.1. Un gaudio di paradiso
Dal
18 marzo 1819 fino al 21 giugno del medesimo anno godei di questo bene
di celebrare la santa Messa in casa, nella mia cappella, tre volte la
settimana, facendo la santa Comunione tutte e tre le volte, mi
comunicavo con tanto fervore di spirito e con tanta devozione che tutto
il giorno me la passavo in cappella in orazione. I giorni precedenti
alla santa Comunione mi trattenevo in cappella per prepararmi a
ricevere questo divino sacramento. I giorni che ricevevo questo divino
sacramento mi trattenevo in cappella per il rendimento di grazie;
sicché tutta la settimana la passavo in lunga ed assidua orazione.
Molte
furono le grazie che in questo tempo mi compartì il Signore, per sua
infinita bontà; ma per aver trascurato lo scrivere, molte ne passeranno
sotto silenzio, non avendo di queste alcuna memoria scritta nel mio
stracciafoglio, ossia giornale.
In questi quattro mesi di marzo,
aprile, maggio e giugno, che si celebrò la Messa nella mia cappella,
come si è detto di sopra, molti furono i favori che mi compartì il mio
Dio, con l’accordarmi, per mezzo dei miei poveri suffragi, di liberare
molte anime dal purgatorio. Tre volte la settimana si celebrava la
santa Messa, e tutte e tre le volte mi comunicavo.
Nella santa
Comunione ero favorita dal Signore in speciali maniere: ora mi si dava
a vedere Gesù Cristo sotto la forma di amoroso pastorello, che tutto
amore accarezzava la povera anima mia, che sotto la forma di pecorella
la vedevo vicino al suo amato pastore, tutta pura, tutta bella, nel
seno amoroso del suo celeste pastore, la vedevo riposare e
accarezzandola la stringeva tra le sue santissime braccia, stampando
sopra la fronte della sua amata pecorella molti baci, la faceva nel suo
castissimo seno riposare. Frattanto che il mio spirito in questa guisa
era favorito dall’infinita bontà di Dio, era sollevata la mia mente da
pensieri sovrumani, nell’ampiezza dei cieli apprendevo le divine
scienze, le alte cognizioni di Dio e della sua infinita immensità.
A
quella estasi prodigiosa ascendeva la povera anima mia, quali e quante
intelligenze di spirito le venivano comunicate dal divino Spirito! Oh
quante lacrime versavano i miei occhi di amore, di tenerezza, di
gratitudine, riconoscendomi indegna di questi celesti favori, mi
umiliavo profondamente e ringraziavo incessantemente l’infinita bontà
del mio Dio, godendo nel mio cuore un gaudio di paradiso.
Tanto
erano grandi le cognizioni che Dio mi dava nella santa Comunione, della
sua infinita potenza, sapienza e bontà, che passavo l’intere settimane
in un certo sopimento di spirito, che mi rendeva affatto il corpo privo
di forze, di maniera che dovevo per molti giorni guardare il letto, e,
a seconda delle frequenti comunicazioni, soffrivo ancora dei mortali
deliqui.
Tanto forte mi si comunicava Dio all’anima, che il
corpo restava incadaverito e per vari giorni privo di forze, godendo
nell’intimo un bene straordinario, che mi faceva desiderare la
mortificazione e la penitenza. Appena mi reggevano le forze, che
incessantemente pregavo il mio padre spirituale a darmi la licenza di
usare le penitenze che ero solita usare prima di questa malattia; ma la
carità di questo mio padre spirituale non mi contentava, ma mi negava
la licenza di poter usare ogni sorta di penitenze.
Io mi
raccomandavo al Signore e gli dicevo: «Mio Dio, se è vostra ispirazione
questo desiderio che io sento in me di mortificare il mio corpo, per
vostra gloria e in sconto dei miei gravi peccati, voi, mio amoroso
Signore, date lume al mio direttore, perché mi accordi la licenza; ma
se non è vostra volontà, allontanate da me questo desiderio».
Ma
il desiderio si faceva maggiore, perché ogni giorno più il mio spirito
era illuminato per mezzo della grazia e degli speciali favori, che il
mio Dio si degnava comunicarmi, per mezzo dei quali riconoscevo
l’infinita bontà di Dio e la grande mia ingratitudine. Giusto mi pareva
di far penitenza dei miei peccati, per così dare una qualche
soddisfazione all’amore tradito, a un Dio offeso.
47.2. Ancora penitenze
Sicché
tanto pregai, finché mi venne dal mio direttore accordato per la novena
della santissima Trinità, che fu il dì 18 maggio 1819, ripresi ad
esercitarmi nella penitenza, dormendo, come per il tempo passato, in
terra col solo strapuntino, dormendo vestita, mangiando ogni
ventiquattr’ore cibi di magro, non usando cibi di carne di sorta
alcuna; ma in vari tempi faccio uso di latticini, la disciplina
quotidiana, la catenella dalla mattina alla sera, cinque e sei ore di
orazione al giorno, ma il più delle volte passo tutta la giornata in
orazione.
Questo è il metodo che ho sempre tenuto, e che sono
tornata a riprendere dopo la suddetta infermità. Tutto questo che ho
detto, e che dirò, non ad altro fine lo dico che per obbedire a vostra
paternità reverendissima, che mi comanda di dargli un rendimento di
conto di tutte le mie operazioni, tanto esterne che interne, e di
quanto passa nel mio spirito, nel tempo dell’orazione o in altro tempo,
sicché mi protesto di scrivere per obbedienza, per rendere onore e
gloria al mio buon Dio, che nelle orazioni più volte mi ha comandato di
scrivere.
47.3. La presenza di Dio è la mia delizia
Molti
furono i favori che Dio si degnò di compartirmi, dopo la suddetta
infermità, che furono i mesi di marzo, aprile, maggio e giugno, che per
speciale grazia accordatami dal Santo Padre, papa Pio VII, attesi i
miei incomodi di salute, di poter celebrare nella mia cappella tre
volte la settimana la santa Messa.
Questo fu l’anno 1819. In
questo tempo che non potevo sortire di casa, me la passavo quasi tutti
i giorni in solitudine, mi trattenevo dalla mattina alla sera in
cappella in orazione. L’assidua orazione non mi tediava, ma mi ricreava
l’anima e il corpo. Continua era la presenza di Dio, e tanto speciale
la cognizione e la chiara vista che sempre godevo del mio Dio, che mi
teneva occupata la mente e il cuore, godendo nel mio spirito un
paradiso di contento.
Nella santa Comunione, che facevo tre
volte la settimana nella mia cappella, perché non potevo sortire di
casa per i miei incomodi di salute, ero favorita dal Signore con
distinti favori, ratificandomi le promesse già fatte nel tempo passato,
che sarei vittoriosa dei miei nemici: mondo, demonio e carne, e che la
sua santa grazia mi avrebbe assistita fino all’ultimo respiro della mia
vita, promettendomi il mio Dio, per sua infinita bontà, il suo divino
aiuto in tutti i momenti della mia vita, come in effetti ne ho provato
e tuttora ne provo i buoni effetti della sua santa grazia: una quiete
di spirito, un raccoglimento interno, che mi tiene assidua alla
presenza di Dio, dove trovo tutta la mia delizia.
47.4. Il mio paradiso in terra: la solitudine
Questo
lume interno della presenza di Dio, mi fa bramare la solitudine, mi fa
fuggire ogni sorta di conversazione, benché innocenti, benché sante. La
solitudine per me è il mio paradiso in terra, dove trovo ogni delizia,
ogni bene. Sì, trovo nella solitudine non solo ogni bene, ma trovo
l’autore di ogni bene, trovo il mio Dio, che si trattiene con me
all’amichevole, trattandomi con santa confidenza, come si tratta
un’amica, come si tratta una sorella, come un padre amante tratta
l’amata sua figlia, come un amante sposo ama l’amata sua sposa; in
questi termini si degna Dio trattare la povera anima mia nella santa
orazione e in altri tempi, che mi occupo negli affari domestici della
mia propria casa, varie volte mi è accaduto che, in mezzo alle
faccende, il mio Dio mi ha rapito lo spirito e il mio corpo se n’è
restato come uno stupido, senza poter più agire, ma tutto attratto si
vedeva il mio corpo, perdendo ogni sensazione, restavo per qualche
tempo alienata dai sensi, priva affatto di ogni idea sensibile.
Ma
in questo tempo, che il mio corpo era così alienato dai sensi, cosa mai
godeva la povera anima mia di bene spirituale non è veramente
spiegabile. Io godevo un paradiso di contenti, per essere in queste
occasioni tanto favorita dal mio amorosissimo Dio, ora facendomi
penetrare i cieli, dandomi cognizioni molto alte della sua immensità,
ora facendomi gustare un bene spirituale tanto grande che assorbiva
tutto il mio spirito e inondava il mio cuore di dolcezza di paradiso,
che mi faceva gridare: «Basta, non più, mio Dio, io non vi posso più
contenere! Basta, mio Dio, non più reggo a tanta dolcezza, a tanta
soavità vien meno il povero mio spirito, tanto bene non lo posso più
contenere. Mio Dio, voi siete un bene incomprensibile, siete un bene
inarrabile, siete un bene sopra ogni bene! In voi solo, mio Dio, trovo
ogni mio contento, ogni mia soddisfazione, ogni mia fatica! In voi solo
confido, in voi solo spero, mio Dio, mio amore, mio tesoro, mio sommo
bene, mio tutto, quando sarà che vi possederò per tutta l’interminabile
eternità?».
Con questi e simili altre esclamazioni sfogavo gli
affetti del povero mio cuore, ferito dal dardo della divina carità, che
mi faceva ardere giorno e notte di santo amore. Questo incendio di
carità mi faceva struggere e consumare, ora piangendo amaramente e con
dirotto pianto e con abbonanti lacrime le offese fatte al mio Dio, ora
temendo di perderlo, si struggeva il mio cuore in lacrime di amore, di
timore, di dolore; pensavo così: «Fino che avrò vita, sempre sarò in
pericolo di perdere il mio Dio, il mio sommo bene; che vita infelice è
questa mai!». «Mio Dio», tornavo a ripetere, «mio Dio, mio sommo amore,
dunque ti posso perdere durante la mia vita! Mio Dio, levatemi la vita,
che sono contenta di perderla mille volte in mezzo ai più spietati
tormenti, per il solo timore di perdere voi, bontà infinita!».
47.5. Per la santa Chiesa e la conversione dei peccatori
Questi
continui sentimenti erano accompagnati da una dirotta pioggia di
lacrime, che dagli occhi miei si versavano giorno e notte. Ah, aver
goduto tanto bene! ah, aver avuto molto lume di Dio per conoscere le
sue infinite perfezioni; in questa occasione della mia grave infermità,
cagionatami per mezzo di tanti patimenti, che volontariamente mi ero
offerta di patire per amore del mio Dio e per sostenere la santa Chiesa
cattolica e per la conversione dei peccatori, l’aver, in mezzo a tante
pene, gustato un bene infinito, che era il mio Dio, che mi si
comunicava all’anima con tanta chiarezza, con tanta dolcezza, con tanta
soavità, che mi pareva veramente di godere un paradiso di contento, di
gaudio, di santo amore, che tutto tutto m’incendiava il cuore di viva
fiamma di carità, e in mezzo a questo divino ardore, prendevo maggior
lena di sempre più patire per amore del mio Dio, che così voleva che
patissi, per il bene della santa Chiesa e per la conversione dei poveri
peccatori.
Mi fece il mio Dio vedere quante anime traviate
voleva ricondurre nel giusto sentiero dei suoi santi comandamenti e
della sua divina legge; per mio mezzo voleva fare quest’opera tanto
gloriosa. A questa cognizione, a questa vista sì mirabile del braccio
onnipotente di Dio, che tutto può per mezzo della sua immensità, si
umiliò profondamente il povero mio spirito, e riconoscendomi affatto
indegna, affatto incapace di questa opera sì santa, sì gloriosa, qual è
di condurre all’amoroso seno di Dio le anime traviate, e fare di queste
anime preziosi giardini per deliziare il sovrano re del cielo e della
terra, si confondeva profondamente la povera anima mia e ricusava di
accettare l’invito, ricusava di accettare l’impresa gloriosa; diceva:
«Mio Dio, volgete il vostro sguardo verso tante vostre fedeli spose,
che vi amano con tanto amore, queste sono buone per una simile impresa,
io sono la creatura più vile che abita la terra, io altro non faccio
che disonorare il vostro divino onore, che oscurare la vostra gloria.
Allontanatevi da me, mio Dio, che sono una vile creatura, la più
peccatrice, la più indegna».
Macché, a queste parole di eterna
verità, il mio Dio più impegnato, più innamorato di me si dimostrava e
con dolci parole così prese a parlare: «Ah, figlia», mi disse,
«allontana da te il soverchio timore! Acconsenti pur di buona voglia ai
miei desideri. Io ti darò la grazia, io ti darò l’aiuto, il mio braccio
forte ti sosterrà. Opera pure per la mia gloria, per il mio onore.
Impiegati in vantaggio dei tuoi prossimi, e vedrai cosa saprà fare il
mio amore per beneficarti. Io sarò sempre con te, e se io sono con te,
chi sarà contro di te? chi ti potrà nuocere? chi ti potrà sovrastare? E
per renderti certa che sempre mi possederai, ecco che nel tuo cure, per
mezzo del mio divino amore, faccio in te una singolare impressione di
me».
A queste divine parole cosa mai di prodigioso
seguisse in me, io non so manifestare. Fui sopraffatta da un bene
divino che sollevò il mio spirito nell’altezza dei cieli, dove fui
sopraffatta da particolare intelligenza di spirito e da sovraumane
cognizioni, che mi facevano in qualche maniera conoscere il mio Dio,
per quel Dio che egli è: immenso, incomprensibile, infinito. A
cognizione così grande la povera anima era sopraffatta dalla
meraviglia, dallo stupore. Una viva fiamma di carità m’incendiava il
cuore, e intimamente mi univa al mio Dio, che mi perdevo affatto nella
sua immensità.
47.6. L’abito di terziaria dei trinitari scalzi
Il
dì 30 maggio 1819, festività della Pentecoste, dopo la santa Comunione,
che feci nella mia cappella, si raccolse intimamente il povero mio
spirito, e si tratteneva con il dolce suo bene, con il suo sovrano
Signore, e senza strepito di parole, ma in sommo silenzio, se ne stava
avanti al suo Dio, umiliandosi profondamente, e, riconoscendosi indegna
di ogni bene, si profondava nel proprio suo nulla e adorava l’ospite
suo sovrano; il divino Signore mi faceva intendere che avessi richiesto
l’abito di terziaria dell’Ordine dei padri trinitari scalzi. A questa
interna illustrazione io veramente mi opposi, pensando che mai mi si
sarebbe accordato una tale licenza dal mio padre spirituale, sicché non
mi potevo risolvere a dirgli quanto era seguito nel mio spirito il
giorno della Pentecoste, che davo in un dirotto pianto al solo
pensarlo; ogni giorno più sentivo nel mio cuore vivamente questa
ispirazione, che mi obbligava a parlare al mio padre spirituale e fare
la suddetta richiesta, ma mi pareva veramente che mi mancasse il
coraggio di fare una simile domanda, riconoscendomi affatto indegna di
tanto onore.
Volevo ritenere racchiuso questo sentimento nel
profondo del mio cuore, e l’avevo quasi deliberato, quando da forza
superiore fui obbligata a manifestarlo, sicché il giorno della
Santissima Trinità, il dì 6 giugno 1819 del medesimo anno, dopo la
santa Comunione, che feci nella mia cappella con molta devozione e
grande raccoglimento, e con profonda umiltà e profluvio di lacrime fui
nuovamente obbligata dal Signore a manifestare al mio padre spirituale,
che aveva celebrato la santa Messa nella mia cappella, il suddetto
sentimento, cioè chiedere il santo abito di trinitaria scalza, di
essere per carità ammessa nel numero delle terziarie di detto Ordine e
di vestire il santo abito, con tutte le debite licenze del Padre
Generale dell’Ordine Trinitario.
Manifestai dunque questo
sentimento al mio padre spirituale con dirotto pianto, che non potevo
contenere, con umile e rispettosa preghiera feci la richiesta, esposi i
miei desideri, manifestandogli quanto era accaduto nel mio interno. Il
lodato padre, vedendomi tutta immersa nel pianto e che le mie parole
erano soffocate dalle lacrime e dai sospiri, mi fece coraggio, e mi
disse che mi fossi raccomandata al Signore, che avrebbe scritto al
Padre Generale, e se fosse volontà di Dio, sicuramente avrei ottenuto
la grazia.