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32 – I «PECCATI» DEI SANTI


32.1. Libera le anime dei suoi parenti


Il giorno 6 novembre 1815 nella santa Comunione era il mio spirito in sommo raccoglimento, quando mi si presentò l’anima del mio padre naturale defunto, che ormai sono nove anni che piamente morì qual visse.

Vedevo la sua anima bella tutta ammantata di luce, con me si rallegrò per l’alto favore compartitomi dall’eterno Dio. La povera anima mia si umiliò, profondamente, e mostrando a lui la mia sconoscenza verso l’infinito amore di Dio, con abbondanti lacrime deploravo le mie colpe.

Il mio padre, a questa mia confessione, non si rattristò, ma mi pregò di raccomandare caldamente all’eterno Dio tutti i suoi e miei parenti defunti.

La povera anima mia prontamente obbedì, porgendo all’Altissimo, con tutto il fervore, le mie povere suppliche, per suffragare le suddette anime.

Offrii nel sacrificio della santa Messa gli infiniti meriti di Gesù Cristo. La mia povera preghiera, avvalorata dai meriti del buon Gesù, fu molto efficace. Tutte ad un tratto furono liberate da quel tenebroso carcere: erano queste nel numero 15.

All’Introito della Messa la povera anima mia fece la preghiera; al Sanctus si ottenne la grazia; all’Elevazione furono liberate.

L’anima del mio padre con il suo Angelo custode al Sanctus recò loro la felice nova; all’Elevazione i rispettivi Angeli custodi delle suddette anime scesero con somma allegria in quel carcere, e trattele fuori da quell’oscuro luogo, al momento apparvero ammantate di splendidissima luce, si sollevarono al Cielo, dopo aver profondamente adorato il divin sacramento esposto, fatto un profondo inchino davanti all’altare, ringraziarono la povera anima mia, con gesto di gratitudine, se ne andarono felicemente agli eterni riposi.

32.2. La mia troppa delicatezza


Il dì 7 novembre 1815, nella santa Comunione, la povera Giovanna Felice: per una mancanza commessa ero tutta intenta a piangere i miei peccati, la mia troppa delicatezza, la notte avendo sofferto molto freddo, nello svegliarmi mi trattenni per mezz’ora in riposo, per vedere di scaldarmi i piedi, lasciandomi vincere dalla mia debolezza. Invece, come sono obbligata, di disprezzare il mio corpo, trovai di averlo accarezzato. Mi avvidi di questa mancanza, quando mi misi in orazione.

Oh, quanta umiliazione apportò al mio spirito la suddetta mancanza! Piangevo amaramente la mia ingratitudine; confondendomi in me stessa chiedevo umilmente perdono al mio Signore. In questa profonda umiliazione andai a ricevere la santa Comunione. Tutto ad un tratto fu sopraffatto il mio spirito da interna quiete, e in questo tempo mi trovai nell’anzidetto tabernacolo. L’anima mia si sbigottì, dubitando di ardire troppo.

Nel tempo che ero in questo timore, mi apparvero i santi patriarchi, unitamente al mio gran padre sant’Ignazio. Così presero a parlare: «Rallègrati, o figlia, non paventare. E non conosci evidentemente che la grazia dell’Altissimo ti circonda da ogni lato? Inòltrati, inòltrati senza temere». E additandomi una scala altissima, che poneva il suo fine alla sommità del cielo, mi fecero intendere che alla sommità di quella dovevo ascendere. Mi manifestarono il cortese invito del sovrano loro re.

A questo invito la povera anima mia inorridì. «Mio Dio!», esclamò piena di confusione, «e come potrà mai una vostra creatura tanto ingrata ardire d’inoltrarsi tanto? come ardirà di ascendere a tanta altezza?».

Umiliandomi profondamente non osavo salire la scala, ma, tenendo fisso lo sguardo sopra me stessa, confessavo la mia indegnità. Molto mi affliggevo, trovandomi manchevole per la mancanza suddetta.

Piangendo dirottamente dicevo: «Mio Dio, voi amate la penitenza, e io sono la stessa mollezza. Oh, quanto sono dissimile da voi! Oh, quanto mi confondo, Gesù mio!».

Il pietoso Signore, nel vedermi così annientata, mi prese a consolare, mi fece intendere che la sua grazia mi rendeva degna del suo amore. A questa cognizione, la povera anima mia si abbandonò tutta in Dio, e sperando nei suoi meriti infiniti, si lasciò guidare dall’eterno suo amore.

A questo mio abbandono, lo Spirito del Signore s’impadronì di tutta me, rapidamente m’investì e mi condusse per l’eminente scala. In questa scala sono significati tre gradi di altissima perfezione, per dove l’anima ascende ad un grado molto particolare di unione, per quanto ne può essere capace come viatrice; arriva a penetrare i cieli, e qual colomba di amore arriva a collocare il suo nido nel cuore amoroso del suo Signore.

Salì dunque con somma agilità molti gradini della suddetta scala, sperimentando nel mio cuore una totale innovazione di spirito. Fu comunicata al mio intelletto una particolare penetrazione. Oh come conoscevo bene il mio Dio, oh come conoscevo me stessa! In Dio mi rallegravo, in me stessa mi confondevo, umiliandomi profondamente, amavo ardentemente il mio amoroso Signore; ma, senza avvedermi, il mio spirito si va inoltrando leggiadramente per la suddetta scala.

Mio Dio! e dove mai sono arrivata? e come mai ho penetrato questo altissimo luogo? Mio Dio, che ardire è il mio! io più non conosco me stessa! che luce, che splendore è questo mai che mi circonda? Dove mai sono io? Oh portento glorioso di carità! la sapienza eterna mi contiene in se stessa. Eccomi arrivata alla prima mansione! Oh bella scala, dove mi conducesti?

Per ordine del divino spirito qui si fermò la povera anima mia. Anima mia, dove tu sei? quale ardire è il tuo? Come penetrasti luogo sì eccelso? contenuta sono dall’eterna sapienza. O santo amore, dove mi conducesti? Ma, o Dio, viene meno il mio spirito per l’esuberanza dell’affetto. Qual carità possiede mai il mio cuore! Mio Dio, dove sono? Questo è un paradiso! che dolcezza, che gaudio, che purità d’intenzione, che amore essenziale, che unione! Mio Dio, ecco che si trasforma tutto tutto in voi il mio spirito e l’anima mia è penetrata dal vostro amore! La suddetta unione mi ridusse affatto priva di ogni sensazione; sperimentai nel cuore dolcissimo riposo, ma come non bastasse, tornò con nuovo favore a mostrarmi la sua carità.

Ecco l’eterno Dio che si spiccò dall’alto, per mezzo di bella luce tornò ad investirmi della celestiale unione, volle lasciarmi un pegno, bella croce scolpita nel cuore mi lasciò.

32.3. L’aiuto dei Santi Trinitari


Dopo che il Signore si degnò, nell’unione del giorno 7 novembre 1815, compartirmi il prezioso dono della scienza, da me stoltamente rifiutato, come si è già detto al suo luogo, fin da quel giorno il mio spirito desidera ardentemente di imitare il Crocifisso suo bene, desidera vincere e superare la sua propria debolezza, desidera patire quanto mai dir si possa; vuole lo spirito ridurre il corpo in schiavitù, ma questo geme e si conturba; lo spirito vorrebbe negargli il necessario sostentamento, vorrebbe perfino con ferri taglienti di propria mano scarnificare le proprie ossa, per amore di quel Dio che volontariamente si fece per nostro amore scarnificare le sue carni immacolate.

Il mio povero spirito, nel vedersi affatto impotente di eseguire le sue brame, piange, si affligge, sospira, si raccomanda all’intercessione dei santi, con particolare affetto, il giorno che ricorreva, la festa del gran patriarca san Felice di Valois, il dì 20, mi raccomandai caldamente al beato Simone, al beato Michele, al venerabile padre Giovanni Battista della Vergine, acciò si fossero degnati, questi santi trinitari, di intercedere per me presso il glorioso san Felice, loro fondatore, per ottenermi la bramata grazia, il totale disprezzo di me stessa.

Per facilitare il conseguimento della grazia, con l’approvazione del mio direttore, rinnovai i voti, i propositi, con una rinuncia particolare e generale a tutto quello che possa soddisfare lo spirito, protestandomi di non voler cercare altro che il puro amore essenziale. Si fece dunque tutto questo da me, per mezzo di particolare grazia, compartitami dall’infinita bontà di Dio. Dalla generosa rinuncia ne riportai favore molto distinto. Mi apparvero i sopra accennati santi trinitari e mi condussero al trono del gran patriarca san Felice di Valois.

Per questo favore la povera anima mia era ripiena di confusione, un santo timore non mi permetteva di potermi avvicinare al lucido trono del gran patriarca, benché scortata fossi dai degni figli di sì gran padre. Il beato Simone mi fece coraggio, e datomi a tenere il lembo della sua cappa, mi condusse al rispettabile suo trono, gli mostrò i miei buoni desideri. Il santo patriarca mi degnò di calcare la sua gloriosa mano sopra il mio capo. Ai piedi del suo trono feci la rinnovazione dei voti e la rinuncia di sopra accennata. I miei voti, propositi e rinuncia apparvero nelle mani del santo patriarca come preziose gioie. Le pose in ricco bacile, si degnò accompagnarmi, unitamente ai tre amati suoi figli, all’augusto trono dell’altissimo Dio. Il santo patriarca presentò per me al trono di Dio la mia povera offerta; il pietoso Dio, per sua bontà, mostrò il suo gradimento, unendomi a sé intimamente, mi fece provare gli effetti mirabili della sua carità.

32.4. Il patrocino di san Giovanni Battista della Concezione


Il dì 11 novembre 1815 il mio spirito proseguiva nella medesima maniera: piangeva, sospirava, pregava, si affliggeva, per vedersi ingrata al santo e puro amore di Dio. Questa è per me una croce tanto sensibile che mi sta impressa nel cuore, e notte e giorno mi tiene in continuo martirio; questa croce mi pare che sia quella che nella passata unione si degnò il mio amorosissimo Dio di imprimermi nel cuore. Da quel giorno la mia cattiva corrispondenza si formò oggetto di gravissima ma pacifica afflizione; non sa più rallegrarsi il mio cuore, solo desidera imitare il Crocifisso suo bene, ma nel vedersi tanto dissimile da lui, piange, geme, sospira, prega incessantemente l’amato suo bene, acciò si degni donarmi la corrispondenza, l’amore.

Piena di fiducia, mi rivolsi alla valevole intercessione dei tre santi trinitari suddetti, con calde lacrime e veementi desideri invocai il loro valevole patrocinio. I pietosi santi mi apparvero tutti e tre, piacevolmente, e mi consolarono, facendomi sperare, a suo tempo, il conseguimento della bramata grazia.

Il beato Simone mi dette a tenere il lembo della sua cappa, il beato Michele si degnò di darmi a tenere il suo scapolare nelle mani, il venerabile padre, per darmi coraggio e per avvalorare il mio povero spirito, con trasporto di carità paterna, mi chiamò col dolce nome di figlia.

Oh, qual consolazione provò il mio cuore, quando così intesi chiamarmi: «Mia figlia, non temere! appòggiati sopra la mia spalla destra».

Alle sue parole il mio spirito, preso da santo timore, dubitò di qualche inganno, ma il santo padre conobbe il mio pensiero, e così soggiunse: «Non dubitare di inganno. Appòggiati liberamente, con santa libertà di figlia; e io ti prometto di sostenerti con carità paterna».

A queste sue parole l’anima mia fu sopraffatta da santa fiducia; assicurata dallo Spirito del Signore, appoggiai con sommo rispetto la testa sopra la sua venerabile spalla, in atto umile, obbediente e modesto, mostrando verso di lui la soggezione e l’amore filiale. Il venerabile padre mostrò verso l’anima mia gli affetti più vivi della sua paterna carità.

In quel felice momento godei un bene molto particolare nello spirito; ma particolarmente sperimentai un totale abbandono di spirito nella sua paterna carità. Io non so ridire, molto grande fu la consolazione di spirito che mi recò il distinto favore.

Il dì 22 novembre 1815, nella santa Comunione, così la povera Giovanna Felice: mi apparve nuovamente il venerabile padre, mi confortò con parole molto amorevoli e mi fece di bel nuovo appoggiare sopra la sua veneranda spalla; mi assicurò del valevole suo patrocinio. L’amorosissimo Dio, per mostrarmi la sua compiacenza, nel vedermi sostenuta da questo suo fedelissimo servo, dall’alto dei cieli mandò un raggio del suo splendore a formare una strada dritta, perché la povera anima mia potesse liberamente e facilmente sollevarsi al cielo per godere le divine misericordie.

Allora mi disse il venerabile padre: «Va’, figlia, non indugiare»; e, datami la paterna benedizione, l’anima mia, per mezzo di quel raggio di luce, si sollevò al cielo. Dio mi degnò di un grado molto alto di unione, da questa unione ne riportai un favore ben grande: mi promise il Signore di farmi godere in cielo il merito della clausura; e questo, mi fece intendere, che era in premio di quel volontario ritiro che esercito per suo amore.

32.5. Restò come liquefatto il mio spirito


Il dì 25, nella santa Comunione, era veramente martirizzato il mio cuore dal gran desiderio di imitare l’amoroso Gesù. Considerando quanto mai sono dissimile da lui, piangevo amaramente la mia miseria; mi raccomandai caldamente alla divina madre, Maria santissima.

Andava ogni ora più crescendo il desiderio di vincere e superare la mia debolissima, miserabilissima natura; lo spirito si armò senza pietà contro il corpo, il corpo si contristava, e la povera anima mia pativa pene di morte, perché voleva superare la sua propria debolezza, e non poteva.

In questa gravissima pena mi raccomandai al mio gran padre sant’Ignazio, ricordevole delle sue parole, così presi a dire: «O santo glorioso, adesso conosco cosa mi volevate dire, quando mi diceste che per arrivare alla perfezione mi mancava ancora di vincere la carne e il sangue. Avete ragione, questo è veramente il maggior ostacolo della perfezione! Mi raccomando a voi, o gran santo: ottenetemi questa grazia!».

Dopo la suddetta preghiera, fu al mio spirito comunicato un bene soprannaturale, per mezzo del quale sperimentai un riposo molto particolare; perdetti ogni idea sensibile. In mezzo a questo perfetto riposo, mi parve di vedere l’umanità santissima di Gesù Cristo, unita alla sua divinità, che con raggio di luce, che tramandava dalla sua mano destra, percosse il mio povero cuore e fece da questo scaturire dolcissimo liquore. E, accostate le sue purissime labbra al mio povero cuore, si degnò gustare il prezioso liquore.

E chi mai potrà ridire i mirabili effetti che provò il mio cuore? Restò come tutto liquefatto il mio spirito al prodigioso contatto del suo divin Salvatore; tutta tutta l’anima mia fu liquefatta dal puro e santo suo amore: mio Dio, quanto è mai grande il vostro amore, e chi mai potrà comprenderlo? o come ardisco io mai manifestarlo? E non sono io la creatura più vile che abiti la terra? donde dunque tanto ardire? O santa obbedienza, quanta pena mi fai soffrire!