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31 – NEL TABERNACOLO DEL SOMMO RE
31.1. Il dono della scienza
Il
dì 3 novembre 1815 nella santa Comunione ricevetti grazia molto
particolare. Volle Dio adornare la povera anima mia, di un prezioso suo
dono, per così farmi degna del suo amore. Mi ricolmò di celestiali
benedizioni, si degnò unirmi a lui intimamente. Il mio spirito restò
estatico, a tanto eccesso di amore; mi fece gustare una dolcezza di
spirito tanto particolare, che tutta si disfaceva in lacrime soavissime
la povera anima, confessando la sua miseria, lodava e benediceva il suo
Signore.
Per mezzo di interna illustrazione conobbi che quello
che mi aveva donato Dio era il dono della scienza, a questa cognizione
la povera anima, con santa umiltà, rivolta al suo amorosissimo Dio:
«Mio Dio», gli disse, «lasciate che io rinunzi a questo dono. Donatelo
a quelle anime che vi amano davvero. A me basta la vera contrizione, io
non desidero sapere i fatti altrui, solo cerco conoscere me stessa, e
conoscere voi, mio sommo amore!».
Il pietoso Dio mi fece
intendere che non dovevo rinunziare al dono, mentre questo era molto
utile e profittevole per l’anima mia; mi fece intendere ancora che
questo mi avrebbe con molta chiarezza dimostrato la vera perfezione e
quello che devo fare per arrivarvi.
A questa cognizione restò
persuaso il mio spirito, e accettò il dono, al solo fine di piacere
all’amato suo donatore. Molto gradì l’eterno Dio la purità della mia
intenzione, che intimamente mi unì a lui, promettendomi di favorirmi
con particolari grazie. Dopo il suddetto favore, sperimentai nel mio
cuore un nuovo ardentissimo desiderio di perfezionare il mio spirito, a
costo di ogni qualunque travaglio e pena; questo buon desiderio è
permanente ancora.
31.2. Il mio spirito fu trasformato in uno spirito purissimo
Il
dì 4 novembre 1815 nella santa Comunione si umiliava il mio spirito
profondamente, e porgeva incessanti preghiere all’Altissimo, acciò si
fosse degnato di concedermi tutte quelle grazie che mi sono necessarie
per arrivare ad un’alta perfezione; con calde lacrime ed infocati
sospiri, ardentemente così pregai: «Mio Dio, mio sommo amore, a me non
basta! dammi più amore, così imperfetta non voglio più stare, alla
perfezione voglio arrivare. Avanti, avanti, avanti io voglio andare
all’apice della perfezione voglio arrivare, è proprio impaziente il mio
povero cuore. Amato mio bene, non indugiare, avanti conducimi, e fa’
che l’ardente fiamma del celestiale tuo amore mi bruci, mi infiammi
della tua carità. O Spirito divino, di amore ripieno, infiamma il mio
cuore e fallo morire! Oh, morte beata, che vita beata mi dona Gesù: io
più non vivo, ma vive in me Dio, che vita mi dà!».
A questo mio
trasporto amoroso, a questa mia esclamazione amorosa, fui trasportata
in spirito, dirò meglio fu sollevato il mio intelletto a penetrare cose
così particolari del santo amore di Dio, che non mi è possibile
spiegare. Sollevato che si fu l’intelletto fino ai confini del proprio
suo essere, per parte della grazia, per pochi momenti il mio spirito fu
trasformato in uno spirito purissimo, pieno di agilità.
Mio Dio,
qual confusione è per me il dover manifestare le vostre grazie; vorrei
tacere, ma mi conviene per obbedienza manifestare le vostre copiose
misericordie. Mio Dio, illuminatemi, perché possa con termini meno
disdicevoli manifestare il vostro purissimo amore. Ma che cosa mai
dirò, se non ho termini sufficienti per spiegare cose così
meravigliose, che non vidi mai. Mio Dio, illuminatemi voi! E voi,
serafini del cielo, purificate la mia lingua, purificate il mio cuore,
perché veracemente possa manifestare l’eccelso favore, senza oscurare
la gloria del mio Signore.
31.3. Nel tabernacolo del sommo Re
Fui
dunque condotta in una città bellissima, dov’era collocato il
venerabilissimo tabernacolo dell’eterno Dio. Che magnificenze, che
ricchezze, che pompa, che gala, non è veramente spiegabile! Era questa
rispettabilissima città abitata dagli Angeli e non dagli uomini. Erano
questi nobilissimi spiriti tutti intenti a custodire l’augusto
tabernacolo del sommo Re del cielo e della terra. Fui dal divino
Spirito introdotta in questa città, in una maniera tanto particolare,
ma io non lo so dire; prima di introdurmi in questa città, il divino
Spirito mi degnò di tre preziosi doni, perché i custodi di quest’alma
città mi dessero libero ingresso.
Il celestiale amore pose nel
mio cuore i tre preziosi doni, a guisa di acuti dardi li trapassò nel
cuore. Oh come in quel momento colpito fu il mio cuore dal suo divino
amore! Da dolce svenimento fu sopraffatto il cuore, e piena di
celestiale amore l’anima mia restò. Di tanta bellezza erano i tre
preziosi doni, che non si possono uguagliare né all’oro finissimo, né
alle preziose gemme. Cosa così sorprendente non si vide giammai. Il
divino Spirito mi mostrò ai suoi servi qual trionfo del suo celestiale
amore.
Quei beati spiriti restarono attoniti, estatici; miravano
i tre preziosi doni, e pieni di meraviglia lodavano al sommo Dio l’alta
bontà. Libero mi diedero il passo, e pieni di sommissione mi vollero
accompagnare al tabernacolo augusto del sovrano re.
Mio Dio,
dove m’inoltro? cosa mai dirò? quale ardire è il mio: paragonar cose
che non hanno paragone? Mio Dio, dunque tacerò? Santa obbedienza come
potrò soddisfarti? di quali parole mi servirò? se sono tanto ignorante
e rozza, ma a magnificenza tanto straordinaria mi pare che ogni
eloquente dottore non sia sufficiente per manifestare con giusti
termini gli eccessi dell’eterno suo amore. Ma per non mancare
all’obbedienza, rozzamente scriverò almeno quanto posso ridire; il
resto lo lascio alla dotta esperienza di vostra paternità
reverendissima.
Fui dunque con grandissima pompa accompagnata
dai felici abitatori di questa città all’augusto tabernacolo del sommo
Re. Erano tutti in gran festa per il mio arrivo. Molti si compiacquero
di accompagnarmi, molti altri adornavano la strada che dovevo passare,
altri spargevano la strada di vaghissimi fiori, altri cantavano inni di
gloria, altri mi procedevano avanti, per recarne agli altri la felice
nuova.
Con languido paragone mi spiegherò, ma mi protesto però
che è molto dissimile da quello che nel mio spirito fu operato dalla
grazia dell’altissimo Dio. La povera anima mia fu corteggiata molto più
di quello che si corteggia una nobile donzella che sia innalzata al
nobilissimo matrimonio di un re potente, e che il potente sovrano
attendesse ansioso l’arrivo della sua diletta sposa; e tutti i
cortigiani si fanno un pregio di poterla servire e condurla al sovrano
loro re. Con maggior pompa fu ricevuta la povera anima mia da quegli
abitatori, che a mio parere erano sovrani spiriti, cortigiani del sommo
re, custodi della sopraddetta città.
Mi spiego meglio: questa da
me chiamata città, non già aveva in sé né case né palazzi, né altre
cose, che nel mondo sensibile formano la bellezza, la vaghezza delle
città. Tutto diverso era questo fabbricato, un edificio tanto bello e
magnifico che non ha pari. Questo era eretto al solo fine di custodire
il magnificentissimo tabernacolo. Fui dunque condotta al luogo dov’era
il reale tabernacolo. Tutti in bell’ordine erano disposti gli abitatori
di questo luogo; ma tutti attoniti se ne stavano, osservando cosa fosse
per fare di me l’eterno amore. Quando si vide ad un tratto aprire
l’augusta porta del tabernacolo, e facilmente mi si accordò l’ingresso.
31.4. Un’umiltà perfetta
Oh,
allora sì, che pieni di rispetto esclamarono altamente con voci
concordi inni di lode e di ringraziamento all’eterno onnipotente loro
sovrano. Aperta che si fu la porta, tre bellissimi personaggi mi si
fecero incontro, e annunziandomi le celestiali brame dell’amante loro
re, pieni di gaudio mi condussero dentro il venerabile tabernacolo.
I
suddetti personaggi erano i miei santi patriarchi Felice e Giovanni de
Matha e il mio gran padre, sant’Ignazio. Devo dire una cosa molto
considerabile, ed è che questo vastissimo tabernacolo non aveva la
porta corrispondente alla sua vastità, ma aveva una porta molto
stretta, molto angusta. I santi patriarchi m’insegnarono quello che
dovevo fare per passare l’angusta porta. Così presero a dire:
«Umìliati, abbàssati, annientati, se vuoi passare».
Conobbi che
in queste parole venivano compresi i gradi di una umiltà perfetta. A
questa cognizione rivolsi, piena di sommissione le mie suppliche al
buon Dio, acciò si degnasse donarmi la santa umiltà; desiderai di
possedere questa virtù. In quell’istante l’amoroso Signore mi fece
sperimentare gli effetti più vivi di una umiltà la più perfetta che mai
dir si possa. La porta era veramente angusta, in maniera che dovetti
umiliarmi molto per poter passare. «Abbàssati, umìliati», ripetevano
quegli incliti personaggi, di alta sfera e di scienza ripieni. Alle
loro parole mi degnò Dio di un grado di umiltà tanto profonda, che
potei passare l’angusta porta.
Oh che magnificenza! oh, che grandezza! oh, che vastità! Cose veramente incomprensibili, degne solo veramente di Dio.
Entrai
nel magnifico tabernacolo, scortata dai soli tre santi patriarchi, i
quali, a nome dell’onnipotente Dio, m’introdussero in luogo eminente di
questo tabernacolo. Era tale e tanta la luce che vi risiedeva, che al
momento l’anima mia restò assorbita da questa immensa luce. La forte
attrazione, con amorosa forza, trasse dal mio cuore i tre preziosi
doni, che a guisa di dardi fitti nel mio cuore aveva, prima di entrare
nella santa città, come si è detto di sopra, li trasse dal mio cuore, e
li calcò fortemente sopra se stesso, e come li avesse inviscerati,
tanto l’internò in se stesso. Dopo nuovamente li trasse dal suo seno, e
in segno di particolare amore, tornò di bel nuovo ad immergerli nel mio
cuore.
Oh, chi mai potrà ridire i mirabili effetti che
sperimentò il mio spirito! Mi manca veramente la lena di proseguire.
Sperimentai gli effetti mirabili di una unione perfetta. Non posso dir
di più. Sarà molto più facile a vostra paternità il comprenderlo di
quello che sia a me il ridirlo.