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30 – TRADIMENTO CONTRO LA CHIESA CATTOLICA
Riporto un fatto che ho dimenticato, e che nel guardare il giornale ho trovato segnato, seguitomi il dì 4 ottobre 1815.
Mi
trattenevo umile e rispettosa davanti al SS. Sacramento, quando
improvvisamente fui condotta in luogo tetro e sotterraneo, tre santi
angeli in questo tenebroso luogo mi conducevano, e per mezzo di torce
accese, che tenevano nelle loro mani, mi mostravano il nero tradimento
che si ordisce contro la santa Chiesa cattolica e i veri seguaci di
essa. Che enormità, che delitti, che luttuose conseguenze apporteranno
ai veri seguaci di Gesù Cristo le nere trame dei celati persecutori,
che sotto nome di bene, cercano la sua totale distruzione!
Che
temerità, che baldanza, che audacia infrangere l’immacolato Agnello,
lacerare le carni sue verginali, calpestare il suo sangue prezioso! Che
delitti, che enormità! Il mio spirito restò affatto sbigottito a tanta
malizia.
Molto severa sarà la punizione di sì enorme audacia.
Raccomandiamoci al Signore caldamente, acciò si degni mitigare il suo
ben giusto furore. Mi pareva che Dio si degnasse farmi questa
dimostrazione, perché la povera anima mia non prenda a difendere
l’eccessiva enormità dei delinquenti, ma solo prenda parte della sua
divina giustizia, mostrandomi la sua eroica pazienza nel sopportarli;
perché, quando sarà per punirli, io non mi opponga con la preghiera;
ma, compiacendomi nella sua giustizia, non mi rattristi, ma mi rallegri
nel vedere l’empietà punita dal forte suo braccio.
30.1. Prega per la salvezza eterna delle figlie
Il
dì 8 ottobre ero afflitta fino all’intimo del cuore per vedermi ingrata
al santo e divino amore. Pregavo incessantemente la sua infinita
misericordia, e dubitando che i miei peccati potessero rendere odiose
le due figlie davanti al divino cospetto di Dio, sopraffatta dalla pena
e dal dolore, piangevo dirottamente, e fervidamente pregavo per la loro
salvezza eterna, ma quello che più mi premeva era di non vederlo da
queste offeso. Offrivo il mio sangue mille volte, piuttosto che vederlo
da queste offeso, protestandomi di aver più pena di vederlo offeso di
quello che vederle da lui castigate. è tanto l’amore e l’affetto che
nutro nel cuore verso il mio bene, che poco mi pare ogni altro male;
solo la sua offesa mi pare un gran male. Piena di affetto e abbondanti
lacrime lo supplicai di voler salvare queste due anime.
«Siano
tutte vostre, Gesù mio», andava replicando il mio povero cuore. Così mi
parlò dolcissima voce nell’intimo del cuore: «Queste due anime sono già
mie. Lo sono, perché tu vuoi che lo siano!».
A queste parole,
piena di affetto e lacrime abbondanti: «Sì», dissi, «mio Dio, non solo
voglio e desidero che siano vostre queste due anime, ma poiché vi
dimostrate tanto liberale verso di me, per pura vostra bontà, cento e
mille anime vi domando. Sì, mio sommo amore, salvate tutte le anime che
avete redento con il vostro preziosissimo sangue. Sì, mio Dio, mi offro
a patire ogni qualunque pena».
Così soggiunse l’amorosissimo Signore: «Sappi che tutte quelle anime che volontariamente a te si soggetteranno saranno salve».
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queste straordinarie parole, il mio spirito restò stupefatto, e quasi
dubbioso: «Scrivi pur liberamente: sono per mantenere a queste la
promessa».
Il dì 9 ottobre 1815 si degnò il Signore di collocare
le due anime da me tanto raccomandate, di riceverle nel suo venerando
cuore, dandomi sicurezza della loro eterna salvezza.
30.2. Un paradiso anticipato
Il
dì 10 ottobre 1815, nella santa Comunione godetti un paradiso
anticipato. Non so, non posso dir di più. La dolcezza, il gaudio,
l’esuberanza dei vivi affetti non si possono esprimere; qual cognizione
mi compartì Dio di se stesso non è spiegabile. Credo sicuramente di
aver goduto qualche parte di quella gioia, di quel gaudio che godono i
comprensori beati lassù nel cielo.
Santa obbedienza, tu mi
costringi contro mia voglia a dire di più. Dopo aver goduto un paradiso
anticipato, come già dissi, il gaudio straordinario che godeva l’anima
mia, mi veniva partecipato dalla particolare cognizione che Dio mi donò
di se stesso, e di qual valore sia il possedere il suo santo, divino
amore. L’anima, dunque, vedendosi in quel felice momento ricolma di
questo sommo bene, infinitamente lodava, ringraziava, amava
ardentissimamente il suo Signore.
Questo era il motivo di tanto
gaudio, che al mio scarso talento mi pareva godere un paradiso
anticipato. Ma come no! se vostra paternità reverendissima m’insegna
benissimo che il gaudio che godono i felici comprensori del paradiso
viene originato in loro da questa cognizione, di conoscere Dio per
quello che egli è, e di possederlo con sicurezza per tutta
l’interminabile eternità?
Dopo che la povera anima mia si era in
Dio tanto consolata e rallegrata, che per l’esuberanza del gaudio era
fuori di se stessa, dopo aver goduto tutto questo grandissimo bene, si
raccoglieva tutta in se stessa, e sciolta e libera da tutte le cose
esterne, richiamato il mio cuore dal silenzio tranquillo di quel bene
che godeva, radunate tutte le sue forze e virtù, piangendo,
trascorreva, girava l’ampia e vasta solitudine di un immenso dolore;
tutta affannosa e dolente diceva alla rimembranza della mia
ingratitudine: «Offendesti Dio, e potesti? Dove mai cadesti di miseria
e di calamità!».
E traevo dal petto mestissimi sospiri e lamenti
amarissimi, con lacrime abbondantissime; cercavo con i forti sospiri di
penetrare i cieli, per dimostrare così alle schiere angeliche la mia
pena. «Ohimè», dicevo tra i singhiozzi e i gemiti, il cuore angustiato
tramandava dagli occhi un profluvio di amarissime lacrime, «ed è
possibile, ohimé, che io sia caduta in tanta miseria? Oh, giorni
infelicissimi; oh, ore miserande della mia ingratitudine! è certo che
per l’avvenire sarà mio dovere morire affatto a me stessa; e quanto io
possa, patire di qua, tutto è poco, tutto è meno alla colpa mia. Anzi
questa è la croce di tutte le croci; questo è l’inferno di tutti gli
inferni: l’avere offeso il mio buon Dio! Ohimè, o me misera, che tanto
benignamente fui da voi prevenuta, e tanto dolcemente avvertita e con
tanta familiarità trattata, eppure ho disprezzato tutte queste grazie,
e le ho poste in oblio! Oh morte, oh durezza del cuore umano, che può
fare simili errori! O mio cuore di sasso e di diamante, perché non
scoppi e non ti spezzi per il dolore? Oh anime innocenti e pure, che
illibate sapeste mantenere a Dio la fedeltà, felicissima, beatissima fu
la vostra sorte!
Io non so se mai intendeste appieno qual sia il
tormento di un cuore aggravato dai peccati. Oh me dolente e sconsolata,
quante delizie avevo e quanto stavo bene con voi, o Gesù mio, o sposo
mio amorosissimo, quanto stavo bene nell’età della mia puerizia,
racchiusa in quel sacro chiostro, che non pensavo ad altro che a
piacere a voi, e voi con grazie molto distinte, vi degniavate di
favorire la povera anima mia, chiamandola vostra carissima sposa. Oh
quanto lieto e quanto tranquillo era il mio cuore! Eppure allora non
conoscevo il mio buon essere; benché fossi innocente, credevo di essere
la creatura più maliziosa, più cattiva che abitasse la terra.
Oh,
chi mi darà un profluvio di pianto, per deplorare le mie colpe? Chi mi
darà parole tanto efficaci, per spiegare i dolori dell’afflitto mio
cuore, per i danni irreparabili nei quali sono incorsa, per aver
abbandonato, peccando, il mio amorosissimo sposo? Ohimé, perché venni a
questa luce? E ora che mi resta altro da fare, se non morire di dolore
per aver offeso il mio sommo amore?
Andava in mezzo a queste
espressioni tanto crescendo il dolore e la pena, che Dio si mosse a
compassione di me: con le braccia aperte mi si fece vedere la sua
misericordia, qual madre pietosa, che frettolosa va in soccorso del suo
amato figlio, e strettamente lo abbraccia, e lo stringe al casto suo
seno, e lo bacia dolcemente, in simil guisa il pietoso Dio si
compiacque di asciugare le mie lacrime e di consolare l’afflitto mio
cuore, col farmi provare una dolcezza di spirito tanto particolare, che
non è veramente spiegabile. Quello che posso dire è che dal giorno 8
ottobre 1815, che mi seguì il suddetto fatto, fino al 12 del mese
suddetto sempre godei di questo bene.
30.3. Godevo quanto può godere un’anima viatrice
Il
dì 13 ottobre, nella santa Messa, mi parve di essere per mano di angeli
presentata all’augusto trono di Dio, dove ricevetti i favori più
distinti. Fui dall’amorosissimo mio Signore trattata qual diletta sua
figlia, qual sorella, qual sposa amante ricevetti gli abbracciamenti
più cordiali, mi strinse amorosamente al suo paterno seno, qual padre
mi stringeva al suo seno, qual sposo mi amava, qual fratello mi
baciava, stampando nell’anima mia cento e mille baci insieme.
Queste
finezze di amore rendevano alla povera anima un adornamento immortale;
la povera anima mia, nel vedersi così riccamente adornata, ne godeva e
si rallegrava non in sé, ma in Dio, suo salvatore, traendo da questa
compiacenza tanta fiducia, tanto gaudio, che l’anima si abbandonava
tutta in Dio, e in questo abbandono godeva quanto mai si può godere da
anima viatrice.
30.4. Libera un’anima dal purgatorio
Il
dì 16 ottobre 1815 fui pregata da una persona che le sono molto
obbligata, di raccomandare al Signore un’anima, sua parente defunta.
Pregai
dunque il Signore per la suddetta. E mi fu manifestato che era salva;
ma che molto ancora le resta di pena da scontare, per le mancanze
contratte.
Molto pregai il Signore, perché avesse liberato la
suddetta anima dal Purgatorio; e con gemiti e con lacrime chiedevo in
grazia di patire ogni qualunque pena, unendo i desideri alle pene
sofferte dall’amoroso mio Gesù, pregai incessantemente l’eterno divin
Padre a volermi esaudire, per i meriti del diletto suo Figlio.
A
questa preghiera mi fu mostrato lo stato della suddetta anima. Conobbi
che molti anni doveva stare ancora in Purgatorio, ma i buoni desideri
di una sua nipote, che avendo sofferto per molti giorni un gravissimo
dolore di denti, prese a pregare il Signore per l’anima della sua nonna
e a soffrire con eroica pazienza il crudo spasimo in suffragio della
medesima, molto suffragio le recò la buona nipote con il suo patire,
perché allo spasimo si aggiunse di cavare il dente, che per l’umore
concorso le costò molto dolore, perfino a cariargli l’osso della
gengiva, che a piccoli pezzi fradicio venne fuori, con grave dolore
della suddetta nipote.
Conobbi ancora che un certo proposito
fatto dalla suddetta nipote, di soffrire con pazienza le molestie che
tuttora riceve nella casa materna, tutto a gloria di Dio senza verun
lamento, questo proposito le aveva ottenuto dal pietoso Dio la grazia
della diminuzione del tempo.
A questa notizia, il mio spirito
desiderò ardentemente di liberare quest’anima dal Purgatorio, con la
grazia di Dio potei fare una preghiera vivissima, sicché per mezzo di
Gesù Cristo potei ottenere la liberazione della suddetta anima; con
questo però che dalla figlia e dalla nipote si fosse fatto in suo
suffragio la Scala Santa, la santa Comunione, e celebrata si fosse una
Messa, e così sarebbe andata agli eterni riposi del Paradiso.
Dopo
la suddetta notizia, fui in spirito trasportata in un luogo, dove vidi
la suddetta anima. La vedevo sotto la forma di un’ombra, candida nube
la circondava, ma in diversi luoghi era macchiata di sangue.
«Per
queste macchie sono ritenuta in Purgatorio», diceva, «queste le ho
contratte per le mancanze commesse del sangue e della carne».
A
questa comparsa, molto maggiore si fece il mio desiderio di liberarla.
Il Signore mi accordò la grazia; alla celebrazione della santa Messa
del mio padre spirituale, felicemente quest’anima riposò in Dio, suo
eterno bene.
30.5. Pregavo Dio che mi conducesse dall’esilio in patria
Il
dì 19 ottobre 1815, nella santa Comunione, dopo aver goduto in Dio un
bene molto particolare, il mio spirito fu sopraffatto da desolazione
tanto profonda, che mi pareva di morire, tanta era la mestizia e la
pena, che rendeva cagionevole anche il corpo. Tutta questa pena era in
me cagionata per il bene che pocanzi avevo goduto nella santa Comunione.
Sollevò
il Signore il mio spirito ad un grado tanto particolare di unione, che
non è veramente spiegabile. Le fece provare e conoscere in se stesso
qual bene sia il possedere il suo eterno amore. Io sperimentai un bene
tanto straordinario, che l’anima mia inondò nel gaudio, e si dimenticò
affatto di se stessa e delle miserie del nostro mondo sensibile, e le
pareva già di godere l’eterna pace. Ma quando lo spirito tornò nei
sensi, nel vedere le cose sensibili mi parevano tanto brutte, tanto
sconcertate, mi trovai veramente in un esilio penosissimo, tutto mi
annoiava, tutto mi faceva pena. Il tornare nei sensi mi cagionò
quell’effetto che potrebbe cagionare ad uno che gli fosse permesso di
avvicinarsi al nostro sole sensibile, e che poi ad un tratto scendesse
da questo luogo eminente in un profondo tugurio, così la povera anima
mia, avvicinata che si fu al bel sole di giustizia, non poteva più
patire di essere ritenuta in questa vita, ma con gemiti e calde lacrime
e infocati sospiri, pregavo il mio pietoso Dio che presto mi conducesse
dall’esilio alla patria.
30.6. Offerta riparatrice
Il
dì 21 ottobre 1815, nella santa Comunione ebbi notizia dell’enorme
attentato che si macchina dai persecutori della cattolica religione;
pensano questi di spiantarla propriamente dalle sue radici. Pensano
questi miseri di erigere templi alle false divinità nel grembo della
cattolica Chiesa, nella residenza del romano Pontefice, del Vicario di
Cristo! Pensare di erigere templi alle false divinità! Oh empietà, oh
ardire esecrando! Piaccia a Dio che questo non accada, raccomandiamoci
caldamente al Signore, perché vadano a vuoto i loro rei disegni. Guai a
noi, poveri cattolici, se possono mettere in esecuzione quanto
macchinano contro di noi!
«Tutti quelli che entreranno in queste
assemblee, tutti moriranno!», mi diceva il mio Signore. A questa parola
l’anima mia si spaventò molto: «Mi intendi di qual morte intendo
parlare?», soggiunse il Signore, «intendo parlare di quella morte che
toglie la fede alle anime».
A queste parole il mio spirito si
riempì di somma mestizia, per avere avuto in quel momento un embrione
del gran numero di queste infelici anime, che disgraziatamente
moriranno.
Il dì 25 ottobre 1815 nella santa Comunione, così la
povera Giovanna Felice: dopo aver goduto un bene molto particolare,
l’anima mia fu sopraffatta da profonda mestizia. Era questa cagionata
nell’anima mia da particolare intelligenza, dove conoscevo la malizia
di molti viventi, e di qualcuno in particolare. Si affliggeva altamente
il mio cuore per vedere tutte queste anime ree di ribellione contro il
loro Dio.
Oh, qual pena ne soffriva la povera anima mia! Piena
di mestizia e ardentemente desideravo di compensare queste gravissime
offese, e nel suo cuore diceva al suo Dio: «Mio pietosissimo Signore,
quante offese, quanti oltraggi vi fanno mai queste misere anime ree!
Io, Gesù mio, desidero compensarvi queste gravissime ingiurie, a costo
di ogni qualunque mia pena. Offro tutta me stessa».
Mi pareva di
avvicinarmi all’umanità santissima di Gesù Cristo, e mi ponevo
prostrata ai suoi santissimi piedi, umile e mansueta, tutta annientata,
gli offrivo l’anima mia mille volte ogni momento, e tutte quelle anime
che sono a me unite in spirito, com’è noto a vostra paternità. Questo
offrivo in compenso di tanti oltraggi; ma tutta questa operazione si
faceva dall’anima mia in profondo silenzio, senza la minima parola,
servendosi l’anima di quella maniera stessa, che si serve Dio di
parlare all’anima mia.
Una occhiata, un cenno, una parola è
molto più significante di ogni qualunque eloquente erudito discorso.
Così mi parla l’amato mio Signore, senza parole, ma per parte di chiara
intelligenza mi manifesta il suo amore, e mi fa conoscere quanto vuole
e desidera. Alle volte trovo qualche difficoltà nel manifestare quanto
passa nel mio spirito, perché non so spiegare certe cose che mi vengono
da Dio significate; hanno queste in se stesse un significato molto
disteso, molto più vasto di quello che sono le parole di cui mi servo.