Beata Elisabetta Canori Mora
DIARIO
La mia vita nel cuore della Trinità
PARTE PRIMA. - PRIME ESPERIENZE MISTICHE
— Dal 1807 al 1809 —
1 – IL SOLO DIRETTORE: GESÙ CROCIFISSO
Lunedì
21 novembre 1774 nacque una figlia di Tommaso Canori all’ora una e
mezzo di notte e fu battezzata il 22 alla Parrocchia di Campo Carleo
alle ore 13 e un quarto, il compare fu il P. Giovanni Battista di Roma,
Minore Osservante in Aracoeli, e gli furono posti i seguenti nomi:
Maria Elisabetta Cecilia Geltrude.
Il 3 luglio 1782 cresimata
Maria Elisabetta da Monsignor Lasceris a San Pietro in Vaticano, e la
comare fu la Priora di S. Eufemia, la Suora Geltrude Riggoli.
All’età
di undici anni, racconta la povera Giovanna Felice di sé, fui condotta
in monastero; stetti in questo due anni e otto mesi. Fu un tratto della
misericordia di Dio, che in questo sacro chiostro mi condusse, per
liberarmi dalla vanità del mondo, che già serpeggiava nel mio seno.
Entrata
un questo sacro luogo, dedicai tutta al Signore, con orazioni continue,
con mortificazioni, con esercizi di virtù, ma particolarmente con il
raccoglimento interno, e questo lo procuravo con la solitudine, con la
mortificazione dei sentimenti del corpo; ero favorita da Dio bene
spesso, tanto nella santa Comunione quanto nelle orazioni.
A
dodici anni una mattina, dopo la santa Comunione, ebbi ordine dal mio
Signore di fare il voto di carità, con molta consolazione mi consacrai
al Signore, ma senza che il confessore ne sapesse niente, mentre la
povera anima mia non aveva altro direttore che Gesù crocifisso, con lui
mi consigliavo circa le penitenze che praticavo, come ancora in tutto
il resto. Non mancarono alla povera Giovanna Felice né travagli né
persecuzioni, in questo tempo; ma particolarmente dovetti soffrire una
calunnia dal confessore, che il demonio stesso ne fu l’autore, ma con
somma tranquillità del mio cuore, anzi si aumentavano viepiù il
raccoglimento interiore, in mezzo alle persecuzioni andava crescendo il
mio spirito nel Signore, quando il mio padre a viva forza mi trasse
fuori da questo monastero e mi ricondusse alla casa paterna.
1.1. Si sposa
Mi
fa orrore proseguire il racconto; tornata che fui alla casa paterna mi
dimenticai del voto fatto, mi dimenticai del mio Dio; disprezzando il
suo amore, mi diedi in preda alla vanità del mondo, ma non per questo
fui abbandonata dall’amoroso Signore; in mezzo a tanti pericoli, a cui
incautamente mi esponevo, veniva la povera anima mia assistita dalla
grazia di Dio, mentre non comprendevo la malizia del peccato. Da quanti
pericoli mi ha sottratto, senza che io ne conoscessi la rovina che mi
poteva venire, mi donava in certi casi una semplicità soprannaturale, e
così la povera anima mia restava immune da tante colpe, che mi
farebbero assai più rea di quello che sono avanti al cospetto di Dio.
Finalmente
passai allo stato matrimoniale; e così vengo a compiere il cumulo della
mia nefandità. Mio Dio, mio Signore, e come puoi soffrire tanta audacia
senza punirla? Terra come non mi inghiottisti! aria, come non mi
soffocasti! Ah, mio Gesù, mio amore, il tuo prezioso sangue fu quello
che mi liberò dal meritato castigo: in anima e in corpo dovevo piombare
nell’inferno! Nonostante sì temerario attentato non fui abbandonata dal
mio Dio, ma anzi con somma premura fui assistita da grazie molto
grandi. La divina provvidenza, per liberarmi da molti pericoli
peccaminosi, in cui sicuramente sarei incorsa, si servì di un mezzo
molto efficace, e questo fu la gelosia del mio consorte, che non mi
permetteva neppure di trattare i miei genitori, pena per me molto
sensibile.
In questo stato ricorrevo al mio Dio con lacrime e
con orazioni, ma buon per me che il mio Signore mi teneva lontana
affatto da ogni peccato. Dieci mesi passai in questa situazione.
1.2. Pericolo mortale: l’arma era ancora carica
Ero
incinta della prima figlia, già erano scorsi sette mesi di questa,
quando la giustizia di Dio, giustamente irritata contro di me, voleva
punire la mia audacia con tremendo castigo del suo giusto furore:
s’interpose la misericordia infinita del mio Dio e, per mezzo di Gesù
crocifisso, mi liberò da mortale colpo.
Crocifisso mio Gesù,
amor mio, già piombata sarei nell’inferno, se voi prodigiosamente non
mi aveste liberato. Quali e quante sono le obbligazioni che vi
professo, amor mio, vi rendo infiniti ringraziamenti.
Ecco il
fatto come fu. Al mio consorte fu regalata un’arma da fuoco (pistola),
una mattina si alzò di buonora, prese quest’arma. Io ancora non mi ero
levata dal letto, lo pregai a volere scaricare quell’arma, mentre per
essere inesperto di quella, credevo potesse piuttosto offenderlo che
difenderlo. Il suddetto per compiacermi, alla mia presenza scaricò
quest’arma; dopo averla scaricata, per dimostrarmi la sua espertezza
mirò l’arma verso di me.
Ecco si sente una voce che lo sgrida, e
gli comanda di mirare altrove il colpo. Obbedì, contro sua voglia,
mentre eravamo entrambi certi che l’arma fosse scarica; ma, cosa
tremenda e insieme prodigiosa: l’arma era carica di altra palla, ancora
capace di levarmi la vita. Colpì il mortale colpo l’immagine di un
santissimo Crocifisso, che stava poco distante dal mio capo; il
cristallo del piccolo quadro si fece in minutissimi pezzi, il muro
restò bucato e il santissimo Crocifisso restò illeso.
Fu tale e
tanto lo strepito del colpo, che parve una cannonata; come restammo
storditi e spaventati non è possibile ridirlo. La puzza, il fumo che
tramandò questo colpo non pareva cosa naturale. Accorsero spaventati i
pigionanti, credendo che fosse rovinata la casa.
Eppure, chi lo
crederebbe? non fu questo sufficiente a ricordare alla mia mente
l’enorme delitto che avevo commesso. Mio Dio, quale pazienza avete
esercitato verso di me! Siate benedetto in eterno.
1.3. Le figlie
Passato
il nono mese detti alla luce una bambina; ricevuti i sacramenti di
Battesimo e Cresima, dopo tre giorni di vita andò in Paradiso. Già era
scorso il secondo anno del matrimonio, quando detti alla luce un’altra
bambina, e questa ancora morta, munita dei santi sacramenti di
Battesimo e Cresima, se ne andò in Paradiso.
Nello spazio di altri tre anni e mezzo circa detti alla luce altre due figlie, una dopo l’altra.
In
questo tempo fui visitata dal Signore con varie tribolazioni; queste
erano chiamate del mio Signore, ma io, ingrata, invece di dare ascolto
alle sue chiamate, non pensavo ad altro che alle vanità del mondo;
quando fui visitata dal mio Dio con una infermità penosissima di
stomaco, che mi fece abbandonare la mia vanità. Tanto era gravoso il
dolore, che non altro cercavo che solitudine; nove mesi continui
sostenni il peso gravissimo di questa infermità.
Correva l’anno
1802 di agosto, circa il 25 del suddetto mese, correva l’anno 26 della
mia età, dopo avere dato alla luce l’ultima figlia, erano passati
cinquanta giorni, quando caddi inferma con il male di stomaco. Molto
profittevole fu per la povera anima mia, mentre nella solitudine andavo
detestando i miei peccati, chiedevo misericordia al Signore, senza
ricordarmi però di essere spergiura di un Dio di infinita maestà. A
ventun’anni passai allo stato matrimoniale.
1.4. Una grave malattia
Erano
già trascorsi venticinque anni della mia età, cinque di matrimonio,
quando mi sopraggiunse al male di stomaco una malattia mortale, che mi
ridusse agli estremi della vita. Fu questo l’ultimo colpo di grazia,
che mi destò dal letargo mortale in cui giaceva la povera anima mia.
Fui
dunque sorpresa da febbre putrida maligna con altri mali complicati;
diciannove giorni stetti priva di ogni umano pensiero, ma il pensiero
dell’eternità, in cui sicuramente credevo di dover passare, teneva
tutte impiegate le potenze della mia povera anima. Non cercavo rimedio
al mio male, né di sostentare le mie deboli forze; ma solo, rivolto il
mio cuore al Signore, gli domandavo misericordia e perdono. Prevenuta
dalla grazia, eccessivo era il dolore dei miei peccati, le mie speranze
erano nei meriti del mio Gesù crocifisso, che tenevo sempre stretto
nelle mie mani, con questo sfogavo gli affetti del mio cuore, a questo
offrivo tutta me stessa, tutta a lui mi consacravo in vita e in morte.
In
questo tempo non parlavo di altro che di Dio, non altro cercavo che il
mio Gesù, altro non gradivo che il mio confessore, con lui mi
trattenevo con piacere a parlare delle cose appartenenti alla povera
anima mia. Fui assistita da questo ministro del Signore con somma
carità e premura, mi visitava per ben quattro volte al giorno, e
pregava i miei parenti che tutte le volte che l’avessi richiesto,
sebbene l’ora fosse incompatta, l’avessero mandato a chiamare
liberamente, mentre teneva per bene impiegato qualunque incomodo, per
avere il piacere di assistermi.
Ogni giorno si faceva più grave
il mio male; spedita dai medici, fui munita del sacro viatico, che
ricevetti con sommo amore, sperando per mezzo di Gesù sacramentato il
perdono dei miei peccati, domandavo al mio confessore se credeva che mi
potessi salvare. Andavo spesso ripetendo: «Padre, mi salverò?». Questo
mi rispondeva che nei meriti di Gesù Cristo teneva per certa la mia
eterna salute. La tranquillità di spirito, i buoni desideri che mi
venivano somministrati dalla grazia di Dio, l’essere affatto libera da
tentazioni, credevo un segno certo della mia predestinazione.
Come
a Dio piacque, incominciò a cedere il male, ma la gravezza di questo mi
portò cinque mesi di convalescenza. Al ventuno di aprile del 1802 fui
assalita da questa infermità, nel mese di agosto incominciai ad uscire
di casa, sebbene non ero ancora ristabilita; ma in questo tempo il mio
confessore mi visitava di frequente, e mi faceva considerare che la
vita miracolosa che il Signore mi aveva restituito, non doveva essere
più mia, ma tutta sua, ad altro non avessi pensato che piacere a lui.
1.5. La comunione tre volte la settimana
Le
parole di questo ministro del Signore penetravano altamente il mio
cuore, mi offrii tutta al mio Signore e al suo divino servizio.
Incominciai a frequentare i sacramenti di Confessione e Comunione ogni
otto giorni; nacque in me un desiderio grande di ricevere più spesso
questo divino sacramento, ma non ardivo dirlo al mio confessore; mi
raccomandavo caldamente al Signore e alla Vergine santissima, che si
fossero degnati di dare forte ispirazione al suddetto.
Vado
dunque una mattina a confessarmi, il confessore mi dice: «Una
particolare ispirazione mi obbliga a darvi la santa Comunione tre volte
alla settimana». Di questa grazia ringraziai affettuosamente Gesù e
Maria. Qual profitto mi portò la frequenza della santa Comunione! non
posso esprimere i buoni effetti che produceva in me questo divino
sacramento.
Mi distaccai dalla vanità del mondo, vinsi molti
ostacoli che mi impedivano di andare a Dio, particolarmente i vani
giudizi degli uomini. Questo apportò molto fastidio ai miei parenti, il
vedermi affatto allontanata dai divertimenti del mondo, abbandonare gli
ornamenti femminili, contenta di vestire un abito triviale senza alcun
ornamento. Fiera fu la guerra che mi mosse il demonio, non solo da
parte dei parenti e persone secolari, ma eziandio da persone di buona
vita, mentre questi criticavano e biasimavano la mia condotta, e con
consigli mi volevano persuadere che non era conveniente che una giovane
di venticinque anni, come ero io, si fosse allontanata dal mondo; che
si poteva benissimo accordare il divertirsi lecitamente, senza
trasgredire la legge di Dio, mentre la prudenza portava che non avessi
disgustato i parenti, già che questi erano offesi del mio operare.