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1943


Dopo la consacrazione del mondo

« ... Non è ancora giunta la mia fine: questo è un sacrificio in più; tutto per Gesù e per le anime. Prima che gli uomini cedano alla volontà di Gesù ci vorrà ancora molto tempo? Io sono in ansia e dico a Gesù: - Il mio cuore vien meno. Non posso più aspettare. Non ho com­messo nessun delitto, perché mi sia applicato un così grave castigo. -

Povera me, se dovessi essere giudicata dal mondo! In ve­rità hanno ragione di giudicarmi male: senza il Signore sarei capace di fare quanto vi è di peggiore.

Dalle parole di Gesù, in cui confido ciecamente, mi pare che sia prossima la mia vera vita: il cielo, il cielo, oh il cielo! vado a godere il cielo! Il giorno 13 dicembre, di buon mattino, - non fu sogno e, penso, non illusione - vidi la Mammina di Fatima elevata, non so su che cosa, a grande altezza. Attorno a Lei, in basso, un universo di gente che Ella guardava con tenerezza. Mi trovai fuori di me stessa: mi parve di essere stata trasportata in un'altra regione. ... La mia anima soffre molto dopo la consacrazione del mondo alla Mammina... ... La mia febbre continua... i miei sudori non si spiegano; non so come posso vivere; solo questo dovrebbe arrivare a dar luce... » (lettera a p. Pinho, 2-1-1943).

Ridatemi chi mi guida a Gesù

« Reverendo Padre Provinciale, stanotte, verso le due e mez­za, chiesi a mia sorella di muovere il mio corpo inzuppato di sudore. Mi sfuggiva la vita, mi mancavano le forze. La mia anima, sempre più bramosa di volare a Dio, era in una dolo­rosa agonia. Aveva bisogno di sostegno: voleva luce; quella luce che pochi sacerdoti sanno dare alle anime. Sola con Gesù, intimamente, gli andavo dicendo: - Dammi il padre spirituale, dammelo nuovamente, sebbene tu non l'abbia allontanato da me, grazie a quella unione che non è affatto, o quasi, compresa. Ma ora, mio Gesù, essa non basta; non posso vivere così. -

La pace mi invase e mi venne l'idea di scrivere a lei e di chiederle, per l'amore di Gesù e i dolori di Maria, di permet­tere a p. Pinho di venire a riprendere la direzione della mia anima, nei brevi giorni di vita che mi restano. Molte volte ebbi la stessa idea, ma veniva tosto soffocata dal timore e da altro che non so e che non mi consentiva di realizzarla. Ma questa volta è stata salda e durevole. Non sono stata io a sceglierlo [come direttore]. Da 10 anni ero sola, senza una guida, e molto tribolata tra quattro mura da 8 anni. Il Signore ebbe compassione di me, lo scelse e me lo mandò. Fu allora, con i suoi santi consigli, che io conobbi sempre più il Signore. Da 13 mesi gli fu proibito di venire qui. Solo Gesù sa quanto mi costò, anche se ho sofferto tutto per amore. Ora però ho bisogno di chi mi sostenga; non posso più vivere in questo martirio. Se per qualche istante lei po­tesse vedere ciò che soffro nel corpo e nell'anima e quanto ho patito in questo periodo, ho la certezza che avrebbe compassione di me. Ho avuto la febbre a 40 e più; dolori orribili agitano e fanno tremare il mio corpo, come tempesta che tutto vuole distruggere.

Mi sono vendicata e la mia vendetta continuerà in cielo, nei riguardi di coloro che furono la causa del mio soffrire. Ma sa come? Pregando e chiedendo perdono per essi; implo­rando luce perché vivano la vita intima di Gesù e non siano di intralcio ad altre anime affamate di Dio e bisognose di luce e di sostegno di santi direttori.

Lei è mal disposta verso di me? Non lo sia! So di essere cattiva, la creatura più miserabile, la figlia più indegna di Gesù, ma per questo motivo la più degna di compassione. Io, senza la grazia di Dio, mi giudico capace di fare e di essere tutto quello di cui mi accusano presso di lei; però, con la grazia e tutta la forza del Signore, sarà riconosciuta la mia innocenza. Mi permetta, Reverendo Padre Provinciale, di chiederle an­cora una volta per amore di ciò che vi è di più caro in cielo e sulla terra: lasci venire il mio padre spirituale ad assistere i miei ultimi giorni, a dare l'ultima luce, gli ultimi consigli a questa poveretta, che spera in breve di andare in cielo. Confido in Gesù e Mammina che non sarò mai la vergo­gna del suo Ordine. Addio, reverendo Padre. Mi perdoni tutto; nulla faccio col fine di offenderla. Non voglio offendere nessuno e tanto meno i discepoli di Gesù. Abbia la bontà di perdonarmi. Arrivederla in cielo. » (lettera al Provinciale dei Gesuiti, 2-2-1943).

Preparazione all'esilio di 40 giorni

... Dopo la Comunione Gesù mi parlò così: - Eccoti al­l'ombra della Eucarestia; è l'alimento che germina le vergini più pure, le più care ed amate dal mio Cuore divino. Quanto mi devi, figlia mia, e quanto mi deve l'umanità intera di avere istituito questo sacro Alimento! Come sto bene all'ombra del tuo cuore! Qui trovo tutta la ricchezza, tutta la purezza, tutto l'amore. Vi trovo tutto ciò che attendo da un'anima che solo a Me appartiene. Mi dono a te per amore... (diario, 23-3-1943).

... Il primo maggio Gesù mi parlò ancora e mi disse: - Figlia mia, quanto è bella un'anima in grazia! Oh, la bel­lezza e gli incanti di una sposa di Gesù! Gesù si è innamo­rato della sua Alexandrina; l'ha preparata per farne un suo ricchissimo tabernacolo sulla terra. Rallegrati, mia piccola in­namorata, rallegrati con il tuo Gesù. Il mondo dica e faccia quello che vuole: Gesù è tuo, tutto tuo; tu sei sua, tutta sua. La cecità dei miei discepoli e di coloro che si dicono miei amici mi fa più dispiacere dei delitti dei peccatori. Gesù im­mola le sue vittime per salvarli. E coloro che dovrebbero possedere sempre la luce divina non la vogliono, non la cer­cano e tentano di buttare a mare le cause più sublimi e più care a Gesù, ciò che ha preparato di più ricco nel mondo, di maggiore gloria per Sé e di vantaggio per le anime. Coraggio, figliolina! Chi ha Gesù non teme. Chi Lo pos­siede ha tutta la forza. Coraggio, mia amata! Sono gli ultimi combattimenti... Verrà poi il Cielo. - (diario, 1-5-1943).

Vinse il pensiero dell'obbedienza

Per soddisfare i desideri del signor arcivescovo mi assog­gettai ad un altro consulto medico che avvenne il 27 maggio 1943. Quando mi fu annunciato [con lettera del dott. Azevedo], una nuova sofferenza si impossessò del mio spirito. Ma, ve­dendo in tutto la volontà santissima di Dio, acconsentii, come sempre, per obbedienza, benché un altro esame medico mi costasse molto. Saputa la data, chiesi ardentemente alla Mamma del cielo di darmi la calma per sopportare tutto, con coraggio e rassegnazione, per Gesù e per le anime. Il giorno fissato venne il dott. Azevedo con il dott. Gomes de Araújo e con il prof. Carlo Lima'. Io ero serena e calma: il Signore mi aveva esaudita. Uno dei medici mi domandò su­bito se soffrivo molto e a chi offrivo le mie sofferenze, se sof­frivo volentieri e se sarei stata contenta che il Signore, da un momento all'altro, mi liberasse dai miei dolori. Risposi che in verità soffrivo assai, che offrivo tutto per amore di Gesù e per la conversione dei peccatori. Poi mi domandarono quale era la mia più grande aspirazione; io risposi: - Il cielo! - Allora uno mi chiese se ambivo essere una santa, come santa Teresa, come santa Chiara ecc. ed arrivare agli altari, lascian­do come loro un grande nome nel mondo. - È ciò che mi interessa meno - risposi.

Per togliermi la fiducia in Dio mi fece una proposta: - Se per salvare i peccatori fosse necessario perder l'anima sua, che farebbe? - Confido che anche la mia si salverebbe, salvando le altre anime; ma se dovessi perderla, direi di no al Signore; Egli non chiede certamente una simile cosa. Anzi, voglio dire che ho promesso al Signore i miei occhi, la cosa più cara del mio corpo, se ciò fosse necessario per convertire Hitler, Stalin e tutti gli autori della guerra. - E perché non mangia? - Non mangio perché non posso; mi sento sazia; non ho necessità; ma sento nostalgia del cibo. - Dopo questo i medici incominciarono la visita che soppor­tai con buona disposizione. Fu una visita rigorosa, ma allo stesso tempo usarono delicatezza col mio corpo. Alla fine, sic­come non ero in condizione di affrontare un viaggio, decisero di chiamare in casa nostra due religiose infermiere per ac­certarsi della veracità del mio digiuno. Quando i medici se ne furono andati, il Signore mi fece sentire che la loro decisione non si sarebbe realizzata e rimasi in attesa di notizie circa le loro intenzioni. Il 4 giugno vennero il dott. Azevedo ed il confessore p. Al­berto a comunicarmi la risoluzione dei medici e a convincere me e la mia famiglia sulla opportunità di andare al « Rifugio di paralisi infantile » di Foce. Sarei stata messa in una ca­mera sotto osservazione durante un mese, per un controllo più diretto di quanto avveniva in me. Io, lì per lì, risposi di no, ma mi pentii subito, pensando all'obbedienza dovuta all'arci­vescovo e per non creare una situazione critica al mio diret­tore, al dott. Azevedo e a tutti coloro che tanto si interessano di me. Accettai la proposta, ma a queste condizioni: 1) di potere ricevere Gesù tutti i giorni; 2) di essere accompagnata sempre da mia sorella; 3) di non essere più sottoposta ad esami, perché io andavo in osservazione e non per esami. Nei giorni in cui rimasi ancora in casa chiesi a Gesù e a Mammina di darmi forza e coraggio per essere io stessa di coraggio ai miei cari i quali erano desolati. Quante volte du­rante la notte, col cuore oppresso e le lacrime negli occhi, chiesi a Gesù di aiutarmi perché mi pareva che tutte le forze mi abbandonassero e mi vedevo senza coraggio per me, tanto meno per darne ad altri!

Gesù venne a confortarmi

« Il 27 maggio Gesù mi aveva detto: - Figlia mia, non temere. Non hai motivo di temere. Hai in te la Forza che è del cielo e della terra. La Carne ed il Sangue di Gesù sono il tuo alimento. Imprimi nel tuo cuore la mia divina immagine e nei momenti di afflizione guardala e contemplami crocifisso. Verrà il coraggio. Vi è un'onda di delitti che si propaga nel mondo: abbi compassione del mio dolore, ripara per i pec­catori. Abbi coraggio! La mia divina Volontà si compirà. - Il 5 giugno Gesù mi disse ancora: - L'anima fedele non teme la croce; la prende, l'abbraccia, l'accarezza, la porta per amore. Le spine con cui Gesù adorna le sue crocifisse sulla terra si trasformeranno in cielo in petali delle rose più belle. ... Di' a tua sorella che ti accompagna nei tuoi dolori, di' a tutti coloro che ti aiutano a salire il tuo doloroso calvario, che saranno per loro le prime benedizioni, le prime grazie » (diario).

Alla vigilia [9 giugno] dopo aver offerto al Signore il sacrificio della mia partenza, senza una luce, in uno sfogo pro­fondo dissi: - O mio Gesù, voglio fare soltanto la tua san­tissima Volontà! - Lo udii subito nella sua infinita bontà: - Coraggio, figlia mia... È per la mia causa, è per le pecorelle amate dal mio Cuore divino. -

In esilio

Giunse il 10 giugno e tutto era pronto per il viaggio al­l'ospedale di Foce del Duro. L'amarezza che si impossessò di me era enorme, ma allo stesso tempo mi venne un tale coraggio che potevo nascondere ciò che sentivo nell'anima. Deponevo tutta la mia fiducia in Gesù ed ero tanto convinta del suo divino aiuto da pensare che, se fosse stato necessario, Egli avrebbe mandato i suoi angeli ad aiutarmi nell'esilio in cui mi volevano gli uomini. Quando giunse il medico [Azevedo] per prelevarmi, non ebbe il coraggio di dirmi che bisognava partire; fui io ad in­tervenire: - Andiamo, signor dottore, chi non parte, non ritorna! - Ci fu il commiato. Soltanto Gesù sa quanto mi costò la separazione dai miei cari che mi abbracciarono e baciarono pieni di dolore. Io guardavo solo il Cuore di Gesù e la cara Mammina per chiedere forza. Scendendo le scale in lettiga dissi a tutti per rianimarli: - Coraggio! Sia tutto per Gesù e per le anime! - Ma non ho potuto dire altro per l'oppressione del cuore e per potere contenere le lacrime. Era quanto volevo per non aumentare il loro dolore. Appena fui sull'autolettiga, attorniata da oltre 100 persone, vidi le lacrime sul volto di quasi tutti e udii i singhiozzi di mia madre e di altri parenti. E indicibile il dolore che provai. Ero ansiosa di partire e partire in fretta. Il mio cuore pulsava con tanta violenza che pareva staccarmi le costole. Dissi allora a Gesù: - Accetta tutte le pulsazioni mie come atti di amore e per la salvezza delle anime. -

Il viaggio fu difficile. Mi sembrava che il cuore non reg­gesse. Ogni tanto guardavo mia sorella; era tanto desolata! Il medico diceva che non costava viaggiare con ammalati come me perché mi vedeva sempre con il sorriso sulle labbra. Ma Gesù sa l'amarezza del mio cuore e le torture del mio povero corpo. Con le scosse dell'autolettiga mi sentivo depressa, ma ripetevo sovente: - Tutto per Tuo amore, Gesù! E che il buio della mia anima serva a dar luce alle anime! - Presso le ultime case di Balasar il signor Sampaio alzò le tendine dell'autolettiga. Notai che il medico aveva le lacrime agli occhi e disse: - Carini! - Gli domandai che cosa av­veniva. Mi spiegò che lungo la strada alcuni fanciulli lancia­vano fiori verso di noi. Mi sentii intenerita e a stento trattenni le lacrime che forzavano per uscire. Quando giungemmo a Matozinhos il medico alzò le ten­dine perché vedessi il mare. Un enorme silenzio mi dominò ed osservando il movimento continuo delle onde sulla spiaggia chiesi a Gesù che anche il mio amore fosse continuo e duraturo. Giunti al « Rifugio » il dott. Gomes de Araújo non con­sentì che l'autolettiga arrivasse fino alla porta. Incaricò alcuni uomini di prender la mia barella e di portarmi così, dopo avermi coperto il viso perché nessuno mi vedesse. Il mio cuore si rattristò ancor più presentendo cosa sarebbero stati quei lunghi giorni in tale casa. Così coperta mi pareva di esser in una cassa e domandavo a me stessa: - Che delitto ho mai commesso? - La salita delle scale del « Rifugio » mi causò un martirio perché mi portarono con la testa all'ingiù. Mi scoprirono il volto soltanto in camera dove mi vidi attorniata dal dott. Araújo e da alcune signore che sarebbero state le mie assistenti. Mi collocarono poi nel mio letto. A mia sorella avevano destinato un'altra camera, contra­riamente a quanto avevo richiesto. Fu uno dei maggiori sa­crifici che potevano esigere da noi: come avrei potuto stare senza di lei, che sapeva come muovermi quando era necessario ed aiutarmi con buone parole che mi servivano tanto a sop­portare il doloroso calvario? Mi avevano appena adagiata sul letto che Deolinda si pre­sentò sulla porta con la valigia della biancheria. Il dott. Araújo, vedendola, urlò come un forsennato: - Fuori quella valigia! - Fu altra spina fra le tante. Quindi iniziò a dare ordini: - Le assistenti, le assistenti! L'inferma può dir ciò che vuole ma voi non siete autorizzate ad interrogarla. -

Dati questi ordini si ritirò e rimasero il mio medico [Aze­vedo] e due signore; queste si sarebbero trattenute presso di me permanentemente per vigilare tutti i miei movimenti.

Quando, ormai notte, il dott. Azevedo stava per allontanarsi, non potei più trattenere le lacrime. Egli allora, più che con rispetto, con vera tenerezza per il mio dolore, mi disse: - Si faccia coraggio! Domani ritornerò. - Ho pianto sì, con vero dispiacere, ma ho offerto quelle lacrime tanto amare al mio caro Gesù. Nel vedermi così desolata fu concesso che per quella notte mia sorella rimanesse in camera mia con una delle signore, affinché le insegnasse il modo di voltarmi. Ma si pre­cisò subito: - Solo per questa notte, poi mai più! -

Sotto la vigilanza più rigorosa

Il giorno seguente, venerdì, cominciò per me in quella casa il vero calvario. All'ora dell'estasi, come avviene tutti i venerdì, entrò mia sorella, presenti già il medico Azevedo, il signor Sampaio e un'infermiera assistente. Agli osservatori soprag­giunti non sfuggì nessun particolare e tutto fu divulgato e com­mentato; per es. che il signor Sampaio aveva estratto dalla tasca l'orologio, che mia sorella si era inginocchiata nell'udire le pa­role dell'estasi, che una infermiera aveva pianto, ecc. Il dott. Azevedo, come sempre, scrisse il colloquio dell'e­stasi per consegnarlo ai medici.

Deolinda, che aveva l'ordine di non rimanere in camera mia, era amareggiata e disse: - Non potrò vedere mia sorella nemmeno dalla porta della camera? Forse che il mio sguardo la può alimentare? - Inclinata sul mio letto piangeva incon­solabile. Fu allora che le dissi: - Non affliggerti, c'è con noi il Signore. - L'assistente che aveva pianto durante l'estasi, toccandola sulle spalle, esclamò: - Non pianga. II dott. Araújo è un uo­mo di molta carità! - Bastò questa espressione a mia sorella perché quell'assistente fosse dimessa dalla vigilanza; ricompar­ve solo negli ultimi giorni, ma accompagnata, quando ormai vi erano già le prove della verità. Questo avvenne per causa di una assistente che fu il mio carnefice durante tutta la mia permanenza al « Rifugio ». Ella non immagina neppure quanto mi ha fatto soffrire. Che il Signore la perdoni! Nella notte dal venerdì al sabato ebbi una delle tremende crisi di vomito che mi fanno soffrire tanto. Mi costò più che mai l'assenza di una persona che mi sostenesse. Sabato venne di nuovo il dott. Araújo per vedere come stavo e per sapere ciò che era avvenuto. La mia prostrazione era tale che non mi accorsi quando bussò alla porta, sempre chiusa a chiave; l'udii soltanto quando, vicino al mio letto, susurrava all'infermiera: - È spacciata! È spacciata! - A quel­le parole apersi gli occhi e gli dissi: - Signor dottore, anche a casa mia avevo di queste crisi. - Rispose prontamente e imperioso: - Signorina, non pensi di essere venuta qui per digiunare! - Capii cosa intendeva dire e mi sentii profonda­mente ferita.

Informato di ciò che era avvenuto il venerdì, volle leggere lo scritto dell'estasi e commentò furioso: - Sembra impos­sibile che il dott. Azevedo, tanto intelligente, si lasci sedurre da queste cose! Bisogna farla finita anche con questo. Intanto scompaiano di qui tutti gli orologi, affinché questa ammalata ignori le ore. - (Quasi che il Signore avesse bisogno di orologi!). Vedendomi in quella prostrazione avrebbe voluto soccor­rermi con medicine, ma io non acconsentii. Quante volte le infermiere mi si avvicinarono, convinte che ero morta! Passarono cinque giorni di continua agonia, più nell'anima che nel corpo, perché in quelle crisi non per­misero mai che Deolinda mi venisse vicina, mentre in casa tante volte erano necessarie due persone per sostenermi. Erano tutti persuasi che la crisi fosse dovuta a mancanza di alimentazione e che, così isolata e senza chi me la potesse dare, io avrei sentito la necessità di chiederla o sarei morta. Come si ingannavano! Non sapevano che l'alimento mi veniva dall'Ostia santa che ricevevo ogni giorno!

Il dott. Azevedo venne a trovarmi in quei giorni e fu in­formato di tutto da mia sorella, fuori della mia camera. Giunto presso il mio letto, senza che mi fossi accorta, l'infermiera gli suggerì che io avevo bisogno di medicine. Fu allora che io apersi gli occhi e udii che le rispondeva: - Questa ammalata è venuta per la costatazione del digiuno e nulla più. Credo che il dott. Araújo stia alle condizioni. Non permetto che le si facciano iniezioni o altro, a meno che ella non lo chieda. Vedranno che la crisi passerà, spariranno le occhiaie, ritornerà il colorito e il polso diventerà normale, o quasi normale perché non favorito dal clima marino. Le assicuro una cosa, mia si­gnora: lei morirà, io morirò, ma l'ammalata non morirà in questo ospedale. - Quindi, seduto vicino a me, mi diede un po' del conforto di cui avevo bisogno.

Per volontà di Dio, dopo cinque giorni, il vomito passò, ritornò il colorito normale insieme alla luminosità degli occhi. Durante la successiva visita del mio medico [Azevedo] la signora assistente uscì con questa frase: - Guardi, signor dot­tore, guardi che volto! - Ed egli delicatamente ma con fer­mezza: - Sono state le cotolette e le iniezioni! - Gesù ha voluto mostrare ancora una volta il suo potere in questa umile creatura. Tutte le assistenti eseguirono scrupolosamente l'ordine del dott. Araújo e non mi abbandonarono un momento. Aprivano la porta della camera soltanto per lasciare entrare i medici e le infermiere. Nonostante la mia trasformazione, né il dott. Araújo né le infermiere si volevano convincere che io potessi vivere senza alimentazione. Infatti usavano talvolta argomenti per impaurir­mi: passavano poi a frasi di tenerezza e di interessamento per la mia persona. Nei loro discorsi li ho sentiti dire che il mio caso era forse dovuto ad isterismo e a qualche fenomeno in­spiegabile. Un giorno dissi al dott. Azevedo quanto avevo nell'anima tanto amareggiata e cioè che per curare l'isterismo non c'era bisogno di rimanere in quell'ospedale. Ma lui mi incoraggiò e mi infuse fiducia. Gli ho ubbidito per fare in tutto la vo­lontà di Dio.

A tu per tu col medico

Il dott. Araújo veniva a vedermi due o tre volte al giorno, ma sempre in ore diverse. Penso lo facesse per vedere se sco­priva qualcosa. Talvolta entrò in camera mia di notte, quando vi si trovava l'assistente che da qualcuno fu definita « cardi­nale diavolo ».

Vivessi fino alla fine del mondo, non potrò dimenticare l'impressione che provavo quando il dottore apriva e poi ri­chiudeva subito la porta: rimanevo sospesa per ciò che avrebbe detto. Provavo una tale impressione che nel mio cuore e nella mia anima aumentava la tristezza. Quante volte ripetevo a Gesù: - Questa mia notte serva a dare luce a lui, a coloro che mi attorniano e a tutte le anime che vivono nelle tenebre. -

Nelle conversazioni e negli interrogatori il dott. Araújo usò tutti gli argomenti possibili per convincermi a mangiare, dicen­domi che Dio non era contento del mio digiuno. Arrivò ad insinuarmi scrupoli. Per di più le infermiere tentarono di pren­dermi dalla parte del cuore. Una volta il dottor Araújo volle perfino provare se riusciva a togliermi la fede. Si servì di quanto di meglio aveva la sua intelligenza mediante interrogatori interminabili e torturanti per scoraggiarmi, persuaso che quanto avveniva in me era dovuto ad influenza umana, non divina. Se ogni volta che ero inter­rogata avevo l'impressione di trovarmi davanti ad un lupo con pelle di agnello, in quel giorno fu assai peggio: mi parve di vedere in lui lo stesso satana che, con arte e sorrisi maligni, volesse strapparmi la fede e convincermi che tutto era illusione. Mi diceva: - Si convinca, signorina, che Dio non vuole che lei soffra! Se vuol salvare gli altri, li salvi Lui, se ne ha il potere! Se è vero che Dio ricompensa coloro che soffrono, non ha più ricompensa adeguata per lei che ha già sofferto troppo. - Ma, mio Dio [dicevo tra me], io so che Tu sei infinito, infinito nella potenza, infinito nei premi. Se fosse come dice lui, per chi soffro io? Il dott. Araújo accompagnava le sue parole con uno sguar­do malizioso, demoniaco (così mi pareva). Io allora risposi: - Sono tanto, tanto grandi le cose di Dio! E noi siamo tanto, tanto piccoli, almeno io! -

Non fiatò per un istante e poi, indignato, esclamò: - Ha ragione; ma io sono una persona ben più grande! - E se ne uscì. Era ben lungi dal conoscere questa legge di amore per le anime! Se sapesse il valore di un'anima, oh, allora vedrebbe che non è mai troppo quello che facciamo per salvarle! Piovevano costantemente umiliazioni e sacrifici. Se io almeno avessi saputo soffrire bene, avrei avuto tanto da offrire a Gesù. ­Mi si presentavano sempre nuove cose che umiliavano e ri­chiedevano sacrifici.

Avevo ai piedi del letto una foto di Giacinta di Fatima. La guardavo con amore e, senza alcun timore che le assistenti lo riferissero al dottore, sospiravo: - Cara Giacinta, anche se piccola, hai provato cosa costano queste cose! Dal cielo ove sei, aiutami! Solo l'aiuto del Cielo e le preghiere delle anime buone potranno darmi forza per salire un così doloroso calvario e sopportare il peso di questa pesantissima croce. -

Ogni volta che il dott. Araújo entrava mi faceva le stesse domande e mi lasciava spaventatissima quando mi diceva: - Dobbiamo parlarci a lungo. -

Quando lo vedevo uscire, respiravo profondamente e mi dicevo: - Benedetto sia il Signore, che te ne vai! - Ma il pensiero che sarebbe ritornato presto mi dava una sofferenza molto amara. Un giorno, seduto alla mia destra, cercò di convincermi che ero una illusa. Incominciò con un discorso molto vago sulla medicina e su di un suo professore di Oporto, al quale aveva presentato un lavoro di molte pagine elaborate dopo giorni e notti di studio. Era convinto di aver approfittato bene delle lezioni avute. Il professore, letto il lavoro, gli domandò: - P - sicuro di ciò che ha scritto? -

- Sì, sono sicuro, per questo e quest'altro motivo. - La conversazione si protraeva ed io fissavo il dottore fin­gendo di non comprendere le sue intenzioni e dicevo fra me: - Vai così lontano per cadere tanto vicino! - Intanto il dot­tore proseguiva: - Ero convinto di aver fatto un bel lavoro; il professore mi lasciò parlare e poi mi dimostrò che mi ero proprio sbagliato. Rimasi senza respiro: mio Dio, tante ore perdute! Tante ore di illusione! Il mio lungo studio era crol­lato in pochi istanti. – Io che, da parecchio tempo, vedevo dove il dottore voleva arrivare, sorrisi e dissi: - Ma il mio caso non crolla, signor dottore! Mi ha gui­data un direttore molto santo e molto saggio e mi ha studiata per vari anni. Se l'opera è di Dio, nulla la può far crollare! - Il dottore, un po' impacciato, fingendo che non era quella il significato delle sue parole, concluse: - Ah, no!... - Si alzò e in fretta se ne andò. Era tempo! Intanto mi confidavo solo con Gesù, l'unico con cui lo, potevo fare e gli offrivo le mie lacrime, che cercavo di nascon­dere all'assistente. Cantavo lodi a Gesù e a Mammina, fingen­domi colma di gioia. Cantavo con il maggiore entusiasmo, ma dentro di me ed ai miei propri occhi pareva non vi fosse né sole né giorno. Di notte alcune volte mi domandavo: - Cosa starà facendo: ora mia sorella? Starà piangendo? - Pensando che ella stava soffrendo per causa mia, una volta non ho potuto trattenere le lacrime. Quanto piansi! Avevo solo paura di disgustare Gesù, ma Egli sapeva che accettavo tutto per suo amore, con il de­siderio immenso di dargli tutte le anime. Infatti gli offersi anche le lacrime come atti d'amore per i tabernacoli.

« Quanto maggiore è l'amarezza, tanto maggiore è l'amore »: - non è così, mio Gesù? Accetta tutto. - Il sedicesimo ed il trentesimo giorno della mia perma­nenza ebbi la visita della mamma. Sentivo tanta nostalgia di lei! Poté stare poco tempo vicino a me e sempre sotto lo sguar­do indagatore delle spie. Ella piangeva e io fingevo di non avere cuore: le sorridevo, scherzavo, l'accarezzavo e, con il mio sorriso ingannatore, nascondevo l'amarezza dell'anima, bloccando le lacrime che volevano cadermi sul volto. L'ho in­coraggiata, sfogandomi intimamente con il mio Gesù. Era la mia croce: non dovevo portarla per amore di Colui che era morto per me?

Non più trenta ma quaranta giorni

Passavano così, in una lotta continua, i miei giorni, con­traddistinti solo per l'avvicendarsi delle infermiere che si suc­cedevano secondo la volontà del dottor Araújo; per causa di alcune ho sofferto immensamente perché oltrepassavano i limiti dei loro diritti e dei loro doveri. Giunsero i giorni in cui il dottore, convinto ormai della verità, promise maggior distensione, permettendo di lasciarmi per qualche tempo la sorella, presente sempre l'infermiera. Con­cesse anche alle Suore Francescane del « Rifugio » di farmi una brevissima visita. Avevamo già progettato di comunicare a casa la data del nostro ritorno, quando inaspettatamente sorse un contrattempo. Una delle infermiere aveva informato del mio caso il dott. Alvaro. Questi, non conoscendo me né i miei fenomeni, fece nascere dubbi. Incominciò ad affermare che sono cose impossibili, che le assistenti si sono lasciate ingannare e che crederebbe soltanto mandando un'infermiera di sua fiducia. Il dott. Araújo, indi­gnato per la diffidenza circa la sorveglianza fatta da lui, gli impose di mandare egli stesso la persona che giudicasse più idonea: fu scelta una sorella dello stesso dott. Alvaro. Quando noi pensavamo di vederci alleggerite dal nostro dolore, ci è stata chiesta una nuova prova quanto mai triste e dolorosa. Il dott. Araújo venne a convincermi che era con­veniente rimanere ancora dieci giorni. Anche se lui era certo della verità, conveniva convincere l'altro suo collega. Mia so­rella non era d'accordo, ma io risposi: - Chi è stato 30, può stare 40. -

Il dott. Alvaro, veramente, non esigeva 10 giorni. Per con­vincersi gli bastava che io stessi 48 ore senza mangiare né evacuare. Ma fu il dott. Araújo che, delicatamente, per l'onore del suo nome, invitò la signora assistente a rimanere un giorno di più e poi un altro. Questo ultimo periodo fu un nuovo calvario che io offersi a Gesù e a Mammina: dura prova, mio Dio! [In uno di questi giorni] il dott. Araújo, senza spiegazioni, prese la borsa di gomma che avevo sullo stomaco e un fiasco d'acqua che le assistenti conservavano per bagnare il fazzoletto che tenevo sulla fronte e vi infuse in entrambe non so che cosa: se avessi succhiato il fazzoletto o bevuto dalla borsa, come disse poi il dott. Alvaro, avrei avuto dei disturbi che loro, sapevano. Ordinò poi alle assistenti di non cambiarmi il ghiac­cio della borsa anche se lo chiedessi io. Sono stata agli ordini, anche se la signora nuova assistente tentò più volte di cam­biare il ghiaccio. Sono stata io a dirle: - Mi tolga la borsa soltanto per lasciarla rinfrescare un po' e poi me la dia. Biso­gna obbedire agli ordini del medico. - Si ritornò al rigore di prima, anzi più stretto. Si proibì perfino che mi si parlasse di Gesù, pensando forse che in quel modo si potesse strappare ciò che è in noi! Un giorno il dottore mi disse: - Non consento che chiami sua sorella se non una volta per notte. - La signora assistente, parecchie volte, quasi a tentarmi con una attenzione bugiarda (non voglio dire che fosse falsa; era solo l'impressione che mi lasciava), mi diceva: - Povera santa, sempre in quella posizione! Io chiamo sua sorella! - Al che rispondevo: - Molto grata, mia signora, ma non voglio. Sono ordini del medico: mia sorella deve venire una sola volta! - Quando mia sorella bussava per entrare, quell'unica volta concessa dal dottore, per cambiarmi di posizione, la nuova as­sistente accendeva la luce, apriva la porta, si poneva di fianco a mia sorella. Appena questa usciva, fingendo compassione per il freddo che avevo potuto buscarmi, e come per voler acco­modar meglio lenzuola e coperte, mi scopriva completamente per vedere se Deolinda mi avesse lasciato qualcosa nel letto. lo comprendevo benissimo l'intenzione, ma, fingendomi sem­pliciona, alzavo le braccia al di sopra dei cuscini affinché po­tesse ispezionare meglio. - Mio Gesù, tutto e solo per Te! -

Né mancarono le seduzioni per farmi prendere qualcosa delle sue refezioni. Se mi allungava qualche boccone senza par­lare, io le sorridevo. Se l'invito era a parole, le dicevo: - Gra­zie - ma sempre sorridendo, mostrando di non cogliere la sua malizia. Principalmente di notte, quando più sentivo la solitudine, il tempo mi pareva eterno. Sentivo il mio cuore, come fosse un albero dalle folte radici, che avesse le sue vene lungo il pavimento e le pareti e che la furia di una grande tempesta strappava buttandomi a terra...; mi pareva che tutto e tutti mi calpestassero. Dicendo così, sento di non dire nulla in con­fronto di quanto ho sofferto. Ancora oggi rivivo nella mia memoria queste cose e provo un vero tormento. Solo l'amore per Gesù e le anime può far superare queste prove! Sentendo avvicinarsi il dottore, dicevo tra me: - Arriva l'aguzzino a visitare la povera carcerata per amore di Gesù e delle anime. Non ho offeso nessuno se non Te, mio Gesù; ma gli uomini vogliono, senza pensarlo, che in questo modo io paghi le mie ingratitudini. - Vedendo mia sorella spaventata per aver sentito dire che il mio avvelenamento era sicuro perché non evacuavo cercavo di farle coraggio. Poveri uomini! Gesù sa fare le cose molto meglio di loro!

Finalmente libera! (20 luglio 1943)

La vigilia della partenza fu giornata di visite. Passarono vicino a me tutti i fanciulli del « Rifugio ». Pregai con loro e distribuii caramelle. Mia sorella non pareva più la stessa: fu notato da tutti. Oltre mille e cinquecento persone vennero a visitarmi... Dovettero intervenire i carabinieri per mantener l'or­dine. Uno di questi si limitò a stare vicino a me, accontentan­dosi di dire per tutto il tempo: - Avanti! Passate avanti! - Che impressione, quel movimento di folla! Neppure le suppli­che di mia sorella valsero a farlo cessare; neppure i carabinieri. Lo stesso dott. Araújo dovette affacciarsi alla finestra per dire che si doveva sospendere quel movimento per non ucci­dermi. Io, in effetti, mi sentivo umiliata, depressa e stanchis­sima, con un senso di disagio per i baci ricevuti e le lacrime che mi lasciavano sul volto, in segno di una stima che non merito e non voglio.

Rimasta sola, chiesi per prima cosa a mia sorella che mi lavasse. Nella mattinata del giorno della nostra partenza il dott. Araújo, che non aveva dormito quasi nulla per la responsa­bilità, venne al « Rifugio » ove molta gente attendeva per po­termi vedere. Rimase un po' vicino a me e permise l'entrata di alcune persone. Poi ci disse che eravamo libere, che l'os­servazione era finita; concesse a mia sorella di mangiare in camera mia e aggiunse: - A ottobre verrò a visitarvi a Balasar, non più come medico-spia, ma come amico che vi stima. - Baciai riconoscente la mano del dottore e lo ringraziai per il suo interessamento; lo feci con sincerità perché, anche se fu severo ed aspro, dimostrò la serietà necessaria al mio caso. Nel pomeriggio di quel giorno 20 vennero a salutarmi le religiose e le assistenti. Tutte le assistenti mi offrirono doni. Alcune di esse vennero ad assistere alla mia partenza; ero già sistemata in autolettiga e una di esse mi spruzzò del profumo; avevo con me un mazzo di garofani, offerti da una signora. Nel corso del viaggio mi offrirono alcuni mazzi di fiori. Io accettai per delicatezza, ben lontana dal pensare che sarebbero poi stati di appiglio a qualcuno per farmi soffrire Penso che chi mi offerse i fiori sapesse quanto li amo, amando Colui che li ha creati. Né il profumo, né i fiori, né la moltitudine del popolo che attorniava l'autolettiga furono motivo della più piccola vanità per me. Quando durante il viaggio ci fermavamo per riposare e io vedevo molta gente avvicinarsi con ammirazione a me, dicevo al medico Azevedo: - Non fermiamoci! Signor dottore, andiamo avanti. - Sarò stata forse indelicata, ma egli fu tan­to paziente. Io vivevo più dentro di me che fuori. Il mare e tutto ciò che si presentava ai miei occhi mi invitavano al silenzio, al raccoglimento in Dio. Quando mi trovai nella mia cameretta mi parve di sognare. Piansi, ma furono lacrime di gioia.

Ritorno alla mia cameretta

Posta nel mio letto, per molto tempo non permisi che mi toccassero; mi sfuggivano continui gemiti per ì dolori quanto mai forti: fu effetto del viaggio. Per chi mi sono sacrificata? Per vanità forse? Povero mondo! Vanità? Perché? Che cosa siamo noi senza Dio? Chi potrebbe soffrire tanto per una grandezza terrena o per vanità del mon­do? Quaranta giorni all'ospedale! Quante umiliazioni! Aveva ragìone il dott. Azevedo quando, collocandomi durante il viag­gio di andata un fazzoletto bagnato sulla fronte, mi diceva: - Ha qualche capello bianco, ma al suo ritorno ne avrà molti dì pìù! - Avvenne proprio così: egli prevedeva quanto mi aspettava. Però è molto bello affrontare tutto per Gesù, per suo amore. « ... Fu duro il tuo penare, figliolina, fu duro il penare di tua sorellina in quella prigione ["Rifugio»]. Avanti! Fu per Gesù, fu per la salvezza di migliaia e migliaia di peccatori. Che trionfo per il Cuore di Gesù! Eccolo esaltato, eccolo glo­rificato nei suoi cari umiliati... Basta! Ora non uscirai più dalla tua cameretta... Di', figlía mia, di' al tuo caro padre spirituale, di' al tuo medico che per tutte le loro umiliazionì saranno esaltati. Gesù è loro rico­noscente per il trionfo della sua causa Gli uomini tentarono di farla cadere, ma Gesù vigilò e i suoi cari cooperarono. Tutto ciò che è di Gesù non cade: sta saldo in mezzo a tutte le tem­peste, brilla, trionfa... -

- O mio Gesù. Superai la prova per tua gloria e per sal­vare anime. Voglio essere sempre piccola agli occhi del mondo ma grande nell'amore, grande nel poter salvarti anime... - » (diario, 7-8-1943).

« ... Ho dettato come meglio ho potuto le grandi sofferenze vissute al "Rifugio", ma quello che riesco a dire è nulla al confronto di quello che ho sentito. Ho saputo sentire, ma mi so spiegare male. Sono però contenta di avere obbedito. Gesù è degno di tutto, non è vero? Il mio corpo ha subito una grande scossa; ancora oggi i dolori sono quasi insopportabili e sovente mi pare di venir meno. Ma nei momenti di tanto dolore, fissando il Cuore di Gesù, gli dico con tutto il fervore: - Cuore sacratissimo di Gesù, confido in Te, confido! » (lettera a p. Pinho, 27-9­1943).

Apprensioni per la guerra e lettera al Papa

Quando mi parlavano di guerra e del pericolo in cui si trovava il Portogallo, io sorridevo, mentre il mio cuore rad­doppiava la fiducia dicendo a Gesù: - Confido in Te! - A chi mi esponeva preoccupazione rispondevo: - Non sarà così; il Signore è misericordia infinita... - Sovente le conversazioni sulla guerra mi facevano soffrire perché in contrasto con quanto udivo dal Signore il quale molte volte mi ripeteva: - Confida, confida, figlia mia! - Ero spes­so tentata a ritenere che tali parole provenissero dal demonio, ma gli effetti che sentivo nella mia anima erano diversi: infatti nell'udire « Confida, figlia mia! » sentivo molta pace e una forza capace di vincere la guerra. Mi giunse perfino alle orecchie che il Santo Padre era stato fatto prigioniero, ma io non vi credetti, considerando tale no­tizia confusione del popolo... Sentii tuttavia nella mia anima un lutto come quando muo­re un padre di famiglia e lascia i suoi figli orfani. Passarono tanti giorni e in questa lotta continua non mi stancavo di of­frire a Gesù tutte le mie sofferenze per la pace. Volevo alleg­gerire, confortare, liberare il Papa da ogni sua sofferenza e non sapevo come Un giorno, dopo la Comunione, sentii un grande desiderio di scrivere al Papa. Non potendo contenerlo, dissi a mia sorella: - Voglio scrivere al Papa: dammi penna e carta. - Mi posi senz'altro al lavoro, chiedendo al Signore luce e forza ed unen­dovi il sacrificio dello scrivere.

« Beatissimo Padre, so che in queste ore tragiche per l'umanità il cuore che più soffre, dopo quello di Gesù, è quello di vostra Santità. Gesù soffre perché è offeso e vostra Santità soffre nel vedere il mondo in guerra, nell'odio, nei crimini.

Oh, quanto soffre anche il cuore della più povera, della più miserabile e indegna delle vostre figlie, per non poter di­fendere il Cuore di Gesù dai delitti della umanità ed impedire che sia ferito e per non potere alleggerire Voi dal dolore tanto crudele e profondo che schiaccia e trapassa il cuore del Padre mio e di tutto il mondo!

Oh, mio caro Padre, io non valgo nulla, non posso nulla, sono povertà e miseria, ma Gesù può farmi forte e potente; ed è con Gesù e la Mamma del cielo che mi sento al fianco di vostra Santità per aiutarvi, con le mie sofferenze, a portare così pesante croce.

Vorrei baciare la terra ove vostra Santità posa i suoi piedi; vorrei andare bocconi ovunque potreste essere costretto a pas­sare: e ciò come prova del mio dolore nel vedervi soffrire e del mio profondo rispetto per voi. Coraggio, coraggio, santissimo Padre, Gesù non viene me­no: la forza viene dall'alto, la guerra termina; la pace regnerà tra gli uomini, ma sempre nel dolore e sacrificio; il regno di vostra Santità continuerà sempre tra le spine, ma Gesù non vi mancherà mai con la sua Grazia e il suo Amore affinché Voi possiate salire sereno il vostro così doloroso calvario. Fu Lui a scegliere così amabile figlio quale padre di tutti noi, per spargere la luce santa del Divino Spirito.

È triste il vostro regno sulla terra per la malizia degli uo­mini, ma sarà lieto e glorioso il cielo, quale premio di tanto dolore e di tanto amore per Gesù.

Beatissimo Padre, sono una vostra figlia, ammalata da 26 anni e paralitica da quasi 19. Questa mia lettera mi costa un enorme sacrificio, poiché sono stesa in un letto, con il mio po­vero corpo trapassato da acutissimi dolori; ma è una prova di amore, di santo amore verso il mio caro santo Padre. Ah, mio Padre, se mi fosse possibile dire quanto soffro nel corpo e nell'anima! Quanto triste e dolorosa è stata la mia vita! Si allieta solo quando fisso gli occhi in Gesù. Padre, Padre mio, datemi la vostra apostolica benedizione per rendere più sopportabile il mio dolore e perdonate il mio ardire.

Non chiesi consiglio a nessuno perché da due anni non ho direttore: comanda chi può, obbedisce chi deve. La benedi­zione, la benedizione, mio Padre, ed il perdono per il mio mal scritto, ma non so scrivere meglio. Non vi dimenticherò mai sulla terra, meno ancora in cielo. Non so trovare parole adatte per il mio caro Santo Padre: perdono, perdono! Sono la povera Alexandrina Maria da Costa » (11-10-1943). Una volta scritta [la lettera al Papa], rimasi più sollevata; arrivai perfino a sentire contentezza, ma durò poco. Il giorno dopo d'averla spedita, nel raccoglimento succes­sivo alla Comunione, provai una enorme sofferenza per il San­to Padre. Ero molto preoccupata per le manovre militari, e, nonostante la mia fiducia, soffrivo per quanto udivo. Senza pensare di avere una risposta, dicevo a Gesù: - O mio Gesù, salva il santo Padre, da' la pace al mondo intero. - E il Signore mi rispose: - Sì, figlia mia, do la pace tra poco. Gesù non ti inganna. - Ed io continuai: - O mio Gesù, risparmia il Portogallo dalla guerra. Non lo meritiamo, ma abbi compassione di noi. Risparmia il Portogallo! -

- Sì, figlia mia! Il Portogallo è risparmiato! Non entra in guerra -. Non ho forse la crocifissa di questo Calvario a fianco della mia Madre benedetta a sostenere il braccio del­l'eterno Padre? - Circa un'ora dopo sentii dire che saremmo caduti in mano dei Francesi e che avevano ucciso il Papa. Ebbi l'impressione che mi si spezzasse il cuore: stentavo a respirare; non potevo né parlare né pregare. Con gli occhi nel Cuore di Gesù dicevo mentalmente: - Aiutami, Gesù! Mammina, aiutami! Non la­sciatemi vacillare! -

Offrivo a Gesù tutta la mia sofferenza affinché il santo Pa­dre fosse liberato, persuasa che non era morto e che non era vero quanto si diceva del Portogallo.

Fu un giorno di lotta tremenda. Chiedevo al Signore di mandarmi qualcuno che mi potesse confortare, perché non vo­levo offenderlo con il mio scoraggiamento. Passarono ore di tremenda agonia. Mi sentivo in mezzo ad una terribile tempe­sta che tutto distruggeva, senza nessuno che mi venisse in aiuto. Tenevo l'animo fisso in Gesù ed in Mammina, chiedendo tutto l'aiuto del Cielo. Gesù venne a confortarmi: - Il Santo Padre non è morto; vive e continua la sua missione. - Mi ripeté più volte nel­l'intimo del cuore: - Confida! Confida! Gesù non ti inganna! - Ma il demonio, non soddisfatto della mia sofferenza e rab­bioso per la inutilità dei suoi sforzi, mi ripeteva frequente­mente: - Portogallo in guerra! Portogallo nel sangue! - Era tale la sua rabbia che mi intimoriva.

Mi pareva di udire suono di campane a morto per il santo Padre, rumore e frastuono di artiglieria in Portogallo. Tuttavia mi mantenni fiduciosa in Gesù. Tutto questo avvenne il 14 ottobre del 1943 e già il 10 dello stesso mese il Signore mi aveva detto più o meno la stessa cosa... Maledetto il demonio che tentava togliermi la pace e farmi perdere la fiducia in Colui che non inganna né può essere in­gannato! Venne il mio confessore: fece di tutto per tranquillizzarmi e ci riuscì con la confessione. In seguito continuai sempre a pregare per il santo Padre, ma la sofferenza che sentivo per lui andò diminuendo di gior­no in giorno.

Non erano fiamme di fuoco della terra

Il giorno di Cristo Re [31-10-1943] sentii come se moris­sero il mio corpo ed il mio spirito, quasi cessasse la mia esi­stenza nel mondo. Non posso dire il dolore che mi causò. Anzi, ancora più: mi sentivo nel purgatorio! Che dolore, mio Dio! Da giorni mi sentivo attraversata da fiamme. Pensavo fosse ef­fetto della sete ardente; mi sono ingannata. Non erano fiamme di fuoco della terra: avevano uno splendore incantevole. Mi compenetravano per ore, tormentando il mio corpo e tutti i sensi; tutto il mio essere ne era imbevuto e soffriva dolori in­dicibili. Ciononostante io sentivo necessità di immergermi in quelle fiamme per purificarmi. Come la farfalla impazzisce per la fiamma, anch'io impaz­zivo e, a braccia aperte, entravo in quel fuoco che tormentava e non distruggeva, animata da una sola ansia: libera da que­sto, vado al mio Gesù.

Ignoravo il significato di questa sofferenza. Sentivo e nulla più (diario, 31-10-1943).

- ... La tua vita non ha nulla di umano, è solo divina... Gli ornamenti che Io do alle mie spose più care sono spine e delle più acute. Ma tu trasformale con tanta dolcezza e amo­re in modo che tutte diventino pietre preziose. Che meraviglia, che ricchezza è il tuo cuore, o mia colomba bella! La purezza non si macchia; diventa sempre più bianca e pura. Tu senti che il tuo spirito è morto? Lo permisi Io: è morto per il mondo, ma vive di più e meglio per il cielo. Quel fuoco che ti tormenta significa realmente fuoco del purgatorio. Sta purificandoti perché dopo morte venga direttamente a Me. Così desidera la mia Madre benedetta, perché tu sappia ciò che soffrono colà le anime a noi care. Fallo sapere al mondo. Soffrì tutto, offri tutto per loro... - (diario, 6-11-1943).